lunedì 31 agosto 2015
domenica 30 agosto 2015
Esopo / Il lupo e il leone
Esopo
IL LUPO E IL LEONE
Un lupo aveva rubato una pecora dal gregge e la trascinava nel suo covo, quando un leone gli si fece incontro e gliela portò via.
Tenendosi a una certa distanza, il lupo gli gridò: << Bell'ingiustizia ! mi porti via quello che è mio! >>
E il leone, ridendo: << Già ! perché tu l'avevi avuta secondo giustizia, da un amico ...>>
La favola è un'accusa contro i ladri e i prepotenti che si incolpano a vicenda quando hanno la peggio.
venerdì 28 agosto 2015
Roberto Benigni / Monologo sulla poesia
Su su… Svelti, veloci, piano, con calma…non v’affrettate.
Poi non scrivete subito poesie d’amore, che sono le più difficili, aspettate almeno almeno un’ottantina d’anni.
Scrivetele su un altro argomento… che ne so… sul mare, il vento, un termosifone, un tram in ritardo… ecco, che non esiste una cosa più poetica di un’altra! Eh?
Avete capito?
La poesia non è fuori, è dentro…
Cos’è la poesia, non chiedermelo più,
guardati nello specchio, la poesia sei tu…
… E vestitele bene le poesie, cercate bene le parole… dovete sceglierle!
A volte ci vogliono otto mesi per trovare una parola!
Sceglietele… che la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere.
A volte ci vogliono otto mesi per trovare una parola!
Sceglietele… che la bellezza è cominciata quando qualcuno ha cominciato a scegliere.
Da Adamo ed Eva…
Lo sapete Eva quanto c’ha messo prima di scegliere la foglia di fico giusta!
“Come mi sta questa, come mi sta questa, come mi sta questa…” ha spogliato tutti i fichi del paradiso terrestre!
Innamoratevi…! Se non vi innamorate è tutto morto… morto tutto è.
Vi dovete innamorare e diventa tutto vivo, si muove tutto… dilapidate la gioia, sperperate l’allegria, siate tristi e taciturni con esuberanza!
Fate soffiare in faccia alla gente la FELICITÀ! E come si fa? …fammi vedere gli appunti che mi sono scordato… questo è quello che dovete fare…
Non sono riuscito a leggerli! Ora mi sono dimenticato.
Non sono riuscito a leggerli! Ora mi sono dimenticato.
Per trasmettere la felicità, bisogna essere FELICI.
E per trasmettere il dolore, bisogna essere FELICI.
Siate FELICI!
Dovete patire, stare male, soffrire… non abbiate paura a soffrire, tutto il mondo soffre! Eh?
E se non avete i mezzi non vi preoccupate… tanto per fare poesia una sola cosa è necessaria… tutto.
Dovete patire, stare male, soffrire… non abbiate paura a soffrire, tutto il mondo soffre! Eh?
E se non avete i mezzi non vi preoccupate… tanto per fare poesia una sola cosa è necessaria… tutto.
Avete capito?
E non cercate la novità… la novità è la cosa più vecchia che ci sia…
E se il verso non vi viene da questa posizione, da questa, da così, beh, buttatevi in terra! Mettetevi così!
Eccolo qua … ohooo… è da distesi che si vede il cielo…
Guarda che bellezza…perché non mi ci sono messo prima…
Eccolo qua … ohooo… è da distesi che si vede il cielo…
Guarda che bellezza…perché non mi ci sono messo prima…
Cosa guardate? I poeti non guardano, vedono.
Fatevi obbedire dalle parole… Se la parola “muro”, “muro” non vi da retta, non usatela più… per otto anni, così impara!
Chi è questo, boooh non lo so!
Questa è la bellezza, come quei versi là che voglio che rimangano scritti lì per sempre…
Forza, cancellate tutto che dobbiamo cominciare!
Forza, cancellate tutto che dobbiamo cominciare!
La lezione è finita.
Ciao ragazzi, ci vediamo mercoledì, giovedì… Ciao.
mercoledì 26 agosto 2015
martedì 25 agosto 2015
lunedì 24 agosto 2015
Shannen Doherty / Ho il cancro, ma resto positiva
Shannen Doherty, annuncio choc:
«Ho il cancro, ma resto positiva»
L’attrice, diventata famosa con la serie «Beverly Hills», ha 44 anni
di Redazione Online
Ha un tumore al seno Shannen Doherty, 44 anni, celebre attrice della serie tv «Beverly Hills 90210» in cui interpretava Brenda, sorella di Brandon. La notizia si è diffusa nelle ultime ore, perché l’americano Tmz ha pubblicato i file di una denuncia della Doherty ai danni della sua ex manager, che l’avrebbe truffata non pagando i suoi premi assicurativi e lasciando di fatto scadere la copertura sanitaria.
La malattia
L’attrice ha raccontato di aver scoperto il cancro a marzo di quest’anno, quando era già a uno stadio avanzato. Ora sta seguendo le cure ed è sottoposta a chemioterapia, ma si è detta molto positiva anche se non sarebbe ancora scongiurata la possibilità di dover ricorrere a una mastectomia: «Sì, ho il cancro al seno e sono sotto trattamento - ha dichiarato - Continuo a mangiare, fare esercizio e cerco di essere positiva sulla mia vita. Sono grata alla mia famiglia, agli amici e ai medici per il loro aiuto e, naturalmente ai miei fan, che mi sostengono». Shannen Doherty è anche conosciuta per il suo ruolo di Prue Halliwell, la sorella maggiore della serie «Streghe»
La denuncia alla manager
L’attrice ha fatto sapere di aver citato in giudizio la società che gestiva la sua immagine, la Tanner Mainstein Glynn & Johnson.L’ex manager infatti avrebbe fatto scadere la polizza assicurativa della sua assistita con la Screen Actors Guild - l’istituto previdenziale degli attori - lasciandola scoperta per tutto il 2014 e impedendole così di fare i regolari screening che le avrebbero permesso di diagnosticare prima la malattia.
domenica 23 agosto 2015
sabato 22 agosto 2015
Donne / Arina Sergei
venerdì 21 agosto 2015
Jobs, la figlia e quei 25 milioni mai dati alla ex 2
IL RICATTO
Jobs, la figlia e quei 25 milioni mai dati alla ex. «Niente ricatti»
La verità in un lettera di Chrisann Brennan, ex del fondatore della Apple e madre della sua prima figlia
di Redazione Tecnologia
«Solo i soldi possono chiudere questo capitolo per sempre. Tutti gli anni che ho perso a causa del tuo comportamento disonorevole possono essere perdonati». Così scriveva a Steve Jobs la sua ex fidanzata, e madre della sua figlia maggiore Lisa, Chrisann Brennan nel 2005. Il fondatore di Apple era impegnato nel lancio dell’iPod Nano. L’iPhone sarebbe arrivato due anni dopo. Secondo quanto emerge in una lettera pubblicata da Fortune, e consegnata alla testata dalla donna stessa, Brennan reagì alla definitiva ascesa della casa della Mela chiedendo a Jobs un risarcimento di 25 milioni di dollari per il «comportamento disonorevole» tenuto nei suoi confronti e in quelli della figlia Lisa, che all’epoca aveva 27 anni, cui inizialmente aveva negato la paternità. Per Lisa ne domandava altri 5.
«Non cedo a un ricatto»
«Ho cresciuto nostra figlia in circostanze molto dure. E tutto era ancora più confuso e difficile perché tu avevi così tanti soldi. Qualcosa deve ancora compiersi. Io credo che la decenza e la fine di tutto questo si possa raggiungere solo con i soldi. È molto semplice», scrisse Brennan nella missiva di due pagine. Jobs non rispose e la donna, con cui aveva iniziato una relazione a 17 anni mentre entrambi frequentavano la Homestead High School di Cupertino, iniziò a scrivere un libro sulla loro tormentata relazione. Tre anni dopo, forte dei particolari sulla vita personale dell’imprenditore messi nero su bianco, ci riprovò. Era il 2009 e gli offrì di non procedere con la pubblicazione in cambio dei soldi: «Non voglio avere problemi con te, ma devo fare qualcosa. Sono stata malata per 3 anni e non ho scelta. Ho bisogno dei soldi per vivere. O tu o il libro». «Non cedo a un ricatto», rispose Jobs mettendo in copia la figlia Lisa, che non ha voluto commentare la vicenda appena emersa.
«Un demonio»
Nel 2013, a due anni dalla morte dell’imprenditore, Brennan ha pubblicato The bite in the Apple definendo l’ex fidanzato «un demonio» e dipingendo se stessa come «vittima della sua crudeltà». Secondo quanto confermato da Brennan, una volta ammessa la paternità di Lisa, Jobs ha dato un contributo di 4 mila dollari al mese , ha acquistato due automobili e una casa per madre e figlia e ha pagato gli studi della ragazza.
martedì 18 agosto 2015
«Grey» salva i bilanci ma perde l’onore
«Grey» salva i bilanci
ma perde l’onore
di ANTONIO D’ORRICO
16 luglio 2015 (modifica il 31 luglio 2015 | 18:13)
La forza di Anastasia Steele e Christian Grey, insulsi e vacui protagonisti delleSfumature, sta nel numero (125 milioni) dei lettori (insulsi e vacui come i loro amati eroi?). Lo so, la saga di E. L. James ha salvato i bilanci degli editori. La scrittrice inglese meriterebbe una medaglia al valore economico. Ma so pure che la sua quadrilogia è la cosa più brutta pubblicata dall’invenzione della stampa a oggi (Johannes Gutenberg si rivolterà nella tomba). Lo dico senza acredine, è un dato tecnico. Anastasia e Christian mi lasciano indifferente. Non mi eccitano, non mi fanno ridere, non mi commuovono.
Solo tanti sbadigli e una domanda: perché piacciono tanto? Ripenso a un vecchio bestseller come Love Story. Sembra il Cantico dei cantici in confronto a Grey. Ripenso a un altro bestseller antico come I peccati di Peyton Place. Al confronto è la Divina Commedia raccontata da una casalinga americana. Una volta si capivano le ragioni (anche meschine, anche sordide) per cui un romanzo diventava un fenomeno mondiale. Per non parlare, con un salto in alto di molte categorie, di un bestseller planetario come Il dottor Zivago. Che ricordi struggenti, che potenza di scrittura, che grandiosità di evocazione, quale ambizione (realizzata in pieno) di gareggiare con la Storia vera!
Mi sono commosso quando, l’altro giorno, ho saputo che era morto Omar Sharif.Ho pianto in memoria di quell’impenitente playboy, di quell’invincibile giocatore di bridge. Ma soprattutto di quell’enorme Zivago. Volete mettere lui e Lara a confronto con Christian e Anastasia? Salviamo pure i bilanci editoriali sapendo, però, che tutto il resto è perduto, soprattutto l’onore letterario. Per colpa di 125 milioni di lettori capaci di uscire indenni da frasi come: «Aggrappata a me, uggiola mentre affondo dentro di lei...». Forse l’invenzione di Gutenberg ha esaurito la sua spinta propulsiva (nessuno uggioli, per favore). Basta così. E che la terra sia lieve a Omar Sharif.
lunedì 17 agosto 2015
Jonathan Franzen / La purezza è impossibile
Franzen, la purezza è impossibile
«Purity» è un romanzo dickensiano: a settembre negli Usa lo scrittore
non processa più l’America, ma tutti noi
di MATTEO PERSIVALE
18 luglio 2015 (modifica il 18 luglio 2015 | 22:32)
Gore Vidal, facendo un bilancio della sua lunga vita di lettore — e di critico —, era solito dire che l’America aveva sì avuto, nel Novecento, molti bravi scrittori che avevano scritto molti bei libri. Ma che bastava paragonarli, per esempio, a Thomas Mann, per vedere come la loro statura venisse subito ridimensionata (giudizio non disinteressato, peraltro: Vidal, da ragazzo, poco dopo la guerra, aveva conosciuto Mann, e ne ricordava le parole di simpatia per il suo romanzo La statua di sale , il cui tema, l’omosessualità, aveva allora fatto scandalo). Quello di Vidal, ovviamente, è un test pericoloso: paragonare un autore a Mann, a Faulkner, a Joyce ci fa guardare con occhi diversi tanti scrittori del Novecento, non soltanto americani (una curiosità: tra i suoi contemporanei, Vidal pensava che il più grande di tutti fosse stato un italiano, l’amico Italo Calvino).
Viene da pensare al «test di Vidal» sfogliando Purity (edito negli Usa da Farrar, Straus & Giroux), il nuovo romanzo di Jonathan Franzen che uscirà negli Stati Uniti il 1° settembre e che «la Lettura» ha letto in anteprima. C’è una caratteristica di Franzen che attraverso la sua narrativa — questo è il suo quinto romanzo — diventa via via sempre più evidente: la sua ambizione. Il terzo romanzo, nel 2001,Le correzioni (Einaudi) è stato quello del grande balzo in avanti — non soltanto in termini di fama, ma in termini di profondità dell’analisi e di bravura nell’esecuzione. Con Libertà, cinque anni fa (sempre Einaudi), un altro balzo in avanti — in quel libro Franzen parte da una storia familiare per raccontarci l’America del suo tempo. Purity, fin dalle prime pagine — non sono quelle anticipate dal «New Yorker» qualche settimana fa: la rivista ha pubblicato un estratto del secondo maxi-capitolo, non l’incipit —, fa capire al lettore che gli strumenti dell’autore vanno sempre più in profondità, raccontando il rapporto terribile della protagonista, Purity — una neolaureata che vive con un gruppo di squatter e lavora in un call center —, con la sua terribile madre (i genitori in questo libro umano ma spietato sono assenti, inutili, fuggitivi, litigiosi, agorafobici, di fatto psicopatici o peggio, e destinati a fare del male e a finire male: con l’unica madre decente che è in realtà una madre mancata, senza figli).
Viene da pensare al «test di Vidal» sfogliando Purity (edito negli Usa da Farrar, Straus & Giroux), il nuovo romanzo di Jonathan Franzen che uscirà negli Stati Uniti il 1° settembre e che «la Lettura» ha letto in anteprima. C’è una caratteristica di Franzen che attraverso la sua narrativa — questo è il suo quinto romanzo — diventa via via sempre più evidente: la sua ambizione. Il terzo romanzo, nel 2001,Le correzioni (Einaudi) è stato quello del grande balzo in avanti — non soltanto in termini di fama, ma in termini di profondità dell’analisi e di bravura nell’esecuzione. Con Libertà, cinque anni fa (sempre Einaudi), un altro balzo in avanti — in quel libro Franzen parte da una storia familiare per raccontarci l’America del suo tempo. Purity, fin dalle prime pagine — non sono quelle anticipate dal «New Yorker» qualche settimana fa: la rivista ha pubblicato un estratto del secondo maxi-capitolo, non l’incipit —, fa capire al lettore che gli strumenti dell’autore vanno sempre più in profondità, raccontando il rapporto terribile della protagonista, Purity — una neolaureata che vive con un gruppo di squatter e lavora in un call center —, con la sua terribile madre (i genitori in questo libro umano ma spietato sono assenti, inutili, fuggitivi, litigiosi, agorafobici, di fatto psicopatici o peggio, e destinati a fare del male e a finire male: con l’unica madre decente che è in realtà una madre mancata, senza figli).
È un libro che, tra le tante cose, racconta anche la costante e fatale delusione delle nostre necessità affettive di figli — siamo tutti come il povero Charlie Brown, tutti intenti a sperare che questa volta Lucy non sposti il pallone da football e ce lo lasci calciare lontano, come Charlie Brown siamo destinati a franare al suolo, schienati, ancora una volta. Purity è un libro sulla purezza come utopia, sulla sua impossibilità: più ne abbiamo bisogno e più lei si rivela distante, crudele, corrotta o menzognera — o tutte queste cose insieme. Franzen scopre le carte dickensiane senza timori reverenziali e trova per la sua Purity il soprannome «Pip», come il protagonista di Grandi speranze. Uno scrittore meno ambizioso e meno sicuro dei suoi (mostruosi) mezzi tecnici avrebbe evitato il riferimento, lui invece raddoppia mettendo in bocca a un romanziere frustrato e bloccato — letteralmente: è finito in sedia a rotelle dopo un incidente di moto — una battuta sarcastica sulle «grandi speranze» che nutre per Pip. A Franzen non è sfuggita la nascita di un neologismo creato dai colleghi — comprensibilmente invidiosi delle sue recensioni, delle sue vendite e della sua copertina di «Time» — la cosiddettaFranzenfreude, variante della Schadenfreude che indica il cattivo umore di chi apprende che a Franzen sono capitate cose belle.
E allora, senza nessuna falsa modestia, mette in bocca al frustratissimo scrittore in sedia a rotelle un rude commento su Jonathan Safran Foer (al quale, per sfregio, storpia il nome) e una stoccata contro tutti gli scrittori americani di successo che si chiamano «Jonathan». Non ricordiamo un caso simile, almeno in anni recenti — uno scrittore di enorme successo che dà elegantemente, ma senza perifrasi, dei poveracci ai suoi colleghi antipatizzanti. Purity è un libro spietato. Franzen mette sotto la lente del suo microscopio i miliardari americani come i ragazzi di Occupy (molto intenti a straparlare di nuovi mondi impossibili), i tristi apparatchik della Ddr come i loro ambiguissimi oppositori: non è mai un bello spettacolo. I macro-capitoli non sono numerati ma hanno dei bei titoli ottocenteschi (tra i quali «Purity a Oakland», «La Repubblica del cattivo gusto», «L’assassino», «Arriva la pioggia») e attraverso di loro Franzen viaggia avanti e indietro nel tempo: dai giorni nostri, la California della povera (letteralmente: è sommersa dai debiti contratti per laurearsi) Pip, ecco la Germania Est del crepuscolo del comunismo, e poi il Sudamerica di oggi dove si è rifugiato Andreas Wolf (altro cognome dickensiano che più dickensiano non si può), una specie di via di mezzo tra Julian Assange e Edward Snowden, fondatore di una sorta di WikiLeaks basata sul culto della sua personalità (c’è da temere che queste pagine tech non piaceranno a qualche critico americano: Paese dove la divisione rigidissima e cieca tra generi letterari in «nobili» e «di consumo» fa a volte elogiare autori mediocri purché ombelicalissimi e ignorare maestri del noir e del thriller).
Franzen ci porta anche in Texas, con una giornalista (Leila Helou, di origine libanese, stesso cognome del presidente libanese della Guerra dei sei giorni e degli infelicissimi Accordi del Cairo con l’Olp: continua il gioco al gatto e al topo di Franzen con lo spirito dickensiano del Natale passato) che insegue una testata nucleare sottratta da una base militare. Proprio questa parte del romanzo — è un libro dal plot ottimo e abbondante, che anche il più severo lettore affetto daFranzenfreude non potrà non ammirare almeno per la precisione con cui è stato progettato — ci richiama al tema della guerra fredda così ossessivamente presente nei flashback relativi alla Ddr e agli anni tedeschi del lupino Andreas Wolf, quando Purity-Cappuccetto Rosso non era ancora nata. La bomba atomica, per Saul Bellow, era una specie di minaccia vuota poiché «ne muoiono più di crepacuore»; Franzen ne libera una per Amarillo, Texas, con l’apocalisse sfiorata per gioco e sciatteria e avidità: tutto senza trasformarsi in un imitatore di Tom Clancy, ma affidandosi al plot con la tranquillità di chi ha imparato a raccontare storie in modo classico e sa che non esistono trame di serie B ma soltanto scrittori di serie B. Franzen ci racconta un mondo, quello attuale, più strettamente sorvegliato di quello della Ddr. Proprio nella rievocazione della Ddr, Franzen trova pagine bellissime, anche senza avere a disposizione un personaggio insopportabilmente travolgente come Pip (allora non era ancora nata), ma il meno memorabile Andreas.
L’autore ci racconta la Ddr come un Leviatano con l’artrosi che, pur destinato a rapida scomparsa, continua a spiare le vite degli altri cercando di puntellare l’utopia del Comunismo — qui l’ammirazione del germanista Franzen per lo spirito tedesco traspare con una certa amara allegria — come un ingegnere edile ostinato a fare il suo dovere fino in fondo. A dispetto dei materiali scadenti a disposizione, del terremoto in arrivo, e della logica stessa. Franzen non inanella pezzi di bravura perché il pezzo di bravura è il libro nel suo insieme, nella sua architettura inizialmente bizzarra che diventa di pagina in pagina, di macro-capitolo in macro-capitolo, sempre più chiara, affascinante, luminosa. In attesa dell’agnizione — immancabile in un romanzo in cui la protagonista cerca suo padre: oggi sembra uno stratagemma da soap opera ma ne parlava Aristotele nellaPoetica — il quinto romanzo di Jonathan Franzen attraversa sei decenni, sorvola i continenti, si traveste da thriller, da poliziesco, da saggio di tecnologia e da romanzo d’appendice. E solo Franzen, oggi, poteva scrivere le pagine finali diPurity : nelle quali ritorna la preoccupazione centrale de Le correzioni e di Libertà, il tema che all’autore — umanista sotto mentite, gelide spoglie — sta più a cuore: non tanto la necessità di perdonare i nostri genitori ma l’indispensabilità, per l’igiene della nostra anima e la nostra salute mentale, di saper andare oltre. Oltre i loro limiti, oltre la loro involontaria crudeltà. Un romanzo nel quale una ragazza impiega quasi seicento pagine a ritrovare suo padre e riportarlo da sua madre finisce con la scoperta che «le persone che le avevano lasciato in eredità un mondo in frantumi si stavano dicendo — gridando — cose terribili». Dopo Le correzioni e Libertà Franzen non è più interessato a raccontare — o a processare — soltanto l’America: ora racconta, e processa, tutti noi.
CORRIERE DELLA SERA
E allora, senza nessuna falsa modestia, mette in bocca al frustratissimo scrittore in sedia a rotelle un rude commento su Jonathan Safran Foer (al quale, per sfregio, storpia il nome) e una stoccata contro tutti gli scrittori americani di successo che si chiamano «Jonathan». Non ricordiamo un caso simile, almeno in anni recenti — uno scrittore di enorme successo che dà elegantemente, ma senza perifrasi, dei poveracci ai suoi colleghi antipatizzanti. Purity è un libro spietato. Franzen mette sotto la lente del suo microscopio i miliardari americani come i ragazzi di Occupy (molto intenti a straparlare di nuovi mondi impossibili), i tristi apparatchik della Ddr come i loro ambiguissimi oppositori: non è mai un bello spettacolo. I macro-capitoli non sono numerati ma hanno dei bei titoli ottocenteschi (tra i quali «Purity a Oakland», «La Repubblica del cattivo gusto», «L’assassino», «Arriva la pioggia») e attraverso di loro Franzen viaggia avanti e indietro nel tempo: dai giorni nostri, la California della povera (letteralmente: è sommersa dai debiti contratti per laurearsi) Pip, ecco la Germania Est del crepuscolo del comunismo, e poi il Sudamerica di oggi dove si è rifugiato Andreas Wolf (altro cognome dickensiano che più dickensiano non si può), una specie di via di mezzo tra Julian Assange e Edward Snowden, fondatore di una sorta di WikiLeaks basata sul culto della sua personalità (c’è da temere che queste pagine tech non piaceranno a qualche critico americano: Paese dove la divisione rigidissima e cieca tra generi letterari in «nobili» e «di consumo» fa a volte elogiare autori mediocri purché ombelicalissimi e ignorare maestri del noir e del thriller).
Franzen ci porta anche in Texas, con una giornalista (Leila Helou, di origine libanese, stesso cognome del presidente libanese della Guerra dei sei giorni e degli infelicissimi Accordi del Cairo con l’Olp: continua il gioco al gatto e al topo di Franzen con lo spirito dickensiano del Natale passato) che insegue una testata nucleare sottratta da una base militare. Proprio questa parte del romanzo — è un libro dal plot ottimo e abbondante, che anche il più severo lettore affetto daFranzenfreude non potrà non ammirare almeno per la precisione con cui è stato progettato — ci richiama al tema della guerra fredda così ossessivamente presente nei flashback relativi alla Ddr e agli anni tedeschi del lupino Andreas Wolf, quando Purity-Cappuccetto Rosso non era ancora nata. La bomba atomica, per Saul Bellow, era una specie di minaccia vuota poiché «ne muoiono più di crepacuore»; Franzen ne libera una per Amarillo, Texas, con l’apocalisse sfiorata per gioco e sciatteria e avidità: tutto senza trasformarsi in un imitatore di Tom Clancy, ma affidandosi al plot con la tranquillità di chi ha imparato a raccontare storie in modo classico e sa che non esistono trame di serie B ma soltanto scrittori di serie B. Franzen ci racconta un mondo, quello attuale, più strettamente sorvegliato di quello della Ddr. Proprio nella rievocazione della Ddr, Franzen trova pagine bellissime, anche senza avere a disposizione un personaggio insopportabilmente travolgente come Pip (allora non era ancora nata), ma il meno memorabile Andreas.
L’autore ci racconta la Ddr come un Leviatano con l’artrosi che, pur destinato a rapida scomparsa, continua a spiare le vite degli altri cercando di puntellare l’utopia del Comunismo — qui l’ammirazione del germanista Franzen per lo spirito tedesco traspare con una certa amara allegria — come un ingegnere edile ostinato a fare il suo dovere fino in fondo. A dispetto dei materiali scadenti a disposizione, del terremoto in arrivo, e della logica stessa. Franzen non inanella pezzi di bravura perché il pezzo di bravura è il libro nel suo insieme, nella sua architettura inizialmente bizzarra che diventa di pagina in pagina, di macro-capitolo in macro-capitolo, sempre più chiara, affascinante, luminosa. In attesa dell’agnizione — immancabile in un romanzo in cui la protagonista cerca suo padre: oggi sembra uno stratagemma da soap opera ma ne parlava Aristotele nellaPoetica — il quinto romanzo di Jonathan Franzen attraversa sei decenni, sorvola i continenti, si traveste da thriller, da poliziesco, da saggio di tecnologia e da romanzo d’appendice. E solo Franzen, oggi, poteva scrivere le pagine finali diPurity : nelle quali ritorna la preoccupazione centrale de Le correzioni e di Libertà, il tema che all’autore — umanista sotto mentite, gelide spoglie — sta più a cuore: non tanto la necessità di perdonare i nostri genitori ma l’indispensabilità, per l’igiene della nostra anima e la nostra salute mentale, di saper andare oltre. Oltre i loro limiti, oltre la loro involontaria crudeltà. Un romanzo nel quale una ragazza impiega quasi seicento pagine a ritrovare suo padre e riportarlo da sua madre finisce con la scoperta che «le persone che le avevano lasciato in eredità un mondo in frantumi si stavano dicendo — gridando — cose terribili». Dopo Le correzioni e Libertà Franzen non è più interessato a raccontare — o a processare — soltanto l’America: ora racconta, e processa, tutti noi.
CORRIERE DELLA SERA
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