Non so se sono stata donna,
non so se sono stata spirito.
Sono stata amore.
Sibilla Aleramo
Sarà Bompiani a pubblicare il memoir in cui Hanif Kureishi racconta la sua vita dopo l’incidente che nel dicembre del 2022 lo ha reso tetraplegico. Si intitola Shattered, traducibile più o meno con “distrutto, fatto a pezzi”: così lo scrittore britannico di padre pakistano ha detto di sentirsi nel diario tenuto sui social network e leggibile gratuitamente o con un piccolo contributo su Substack.
La presentazione del libro, prenotabile ora in edizione originale Penguin, è lapidaria ma non contempla affatto la resa: “A few days ago, a bomb went off in my life, but this bomb has also shattered the lives of those around me. My partner, my children, my friends”.
Tra gli ultimi dispacci affidati al web da Kureishi che, dopo un lungo periodo di riabilitazione a Roma, è tornato a Londra, spicca un ricordo di The Buddha of the Suburbia – Il Budda delle periferie (edito Mondadori e più tardi da Bompiani), il romanzo che negli anni Novanta gli diede fama mondiale.
Lo trascrivo in inglese: “Recently, my novel The Buddha of Suburbia was brilliantly staged by Emma Rice for the Royal Shakespeare company. I enjoyed going to some of the rehearsals in Clapham, but was unable to travel to Stratford to see the actual show. But they did livestream it for me, and I was able to gain an impression of the whole thing. As you can imagine, I couldn’t watch it as any other punter would, but sat through it in a state of intense embarrassment – the story is fictional, but aspects are true – and so I saw my parents, my friends and indeed myself float before my eyes, the past coming to life in song and dance. Was I humiliating my family by exposing us in this way? I have talked to other writers who have also experienced this, using autobiography as theatrical material. It is one thing to write a novel about your life, and another to see actual actors wearing your clothes, mimicking your expressions and cadence. My parents are of course dead, and to see them resurrected was moving, disturbing and uncanny. I am thankful they never lived to see me like this, a broken tree”.
A broken tree. Poiché la data di uscita di Shattered è relativamente lontana, si può colmare l’attesa con il Buddha su carta. Nel 1990 vinse il Premio Whitbread come miglior opera prima; tradotto in 20 lingue, tre anni più tardi venne trasformato in una serie tv per la BBC, con la colonna sonora di David Bowie – oggi si può cercarlo su Prime. Era l’inizio di una lunga storia che è lontana dall’essere finita.
https://www.allonsanfan.it/2024/06/13/hanif-kureishi-shattered/
Aspern e Essling sono due villaggi a nord-est di Vienna, oltre il Danubio. Se un tempo erano distanti una quindicina di chilometri dal centro della città, ora che la capitale austriaca si è estesa in quella direzione ne sono stati praticamente inglobati. Ed Aspern è il capolinea di una delle principali linee della metropolitana.
Questi villaggi, il 21 e 22 maggio del 1809 furono teatro della battaglia di Aspern (secondo gli storici austriaci) o Essling (secondo gli storici francesi) fra Napoleone e l’impero d’Austria. I due diversi nomi si giustificano col fatto che ad Aspern, il primo giorno, Napoleone fu quasi sconfitto dal comandante austriaco, l’Arciduca Carlo d’Asburgo, mentre ad Essling, l’indomani, riuscì, a costo di gravi perdite, a contenere gli austriaci e ad organizzare la ritirata oltre il Danubio. Quindi, ciascuna parte preferisce ricordare la propria mezza vittoria.
In realtà, dal punto di vista psicologico, i veri vincitori furono gli austriaci. Si trattò infatti della prima volta in cui l’imperatore dei francesi non uscì da trionfatore da una battaglia. Fu la fine del mito dell’invincibilità di Napoleone, e la svolta che ridiede speranze di rivalsa ai suoi tanti nemici. A posteriori, potè essere vista come l’inizio della fine dell’epopea napoleonica.
Furono forse queste ragioni che spinsero Balzac fino a Vienna, per effettuare una ricognizione dei luoghi della battaglia, e farne la protagonista di uno dei suoi romanzi.
Verso la fine degli anni Venti dell'Ottocento gli scrittori francesi ammirano Walter Scott e il romanzo storico diventa di moda. Nel 1831 Balzac annuncia Scènes de la vie militaire, che include La Bataille. In una lettera all'amante Madame Hanska rivela il suo proposito:
Ecco, mi impegno a far conoscere tutti gli orrori e le bellezze di un campo di battaglia; la mia battaglia è Essling. Essling con tutte le sue conseguenze. Nella sua poltrona, il lettore deve poter vedere la campagna, gli incidenti sul terreno, le masse di uomini, gli eventi strategici, il Danubio, i ponti, ammirare i dettagli e l'insieme di questa lotta, sentire l'artiglieria, interessarsi ai movimenti sulla scacchiera, vedere tutto, sentire tutto in ogni articolazione di questo grande corpo, compreso Napoleone, che gli farò vedere la sera mentre attraversa il Danubio in barca (…) cannoni, cavalli, due eserciti, uniformi; nella prima pagina il cannone rimbomba, nell'ultima tace; si legge attraverso il fumo e, a libro chiuso, si deve aver visto tutto e ricordare la battaglia come se si fosse stati lì.
Nel 1835 Balzac si trova a Vienna. Noleggia una carrozza e visita Aspern, Essling, l'altopiano di Wagram e l'isola della Lobau. È accompagnato sul campo di battaglia dal principe Schwarzenberg, il vincitore di Lipsia, e prende appunti. Purtroppo, preso da mille personaggi e mille argomenti, Balzac non scriverà mai la sua Bataille.
Perché Balzac ha scelto questa battaglia? Oltre che per la ragione sopra indicata, forse perché la natura della guerra è cambiata a Aspern-Essling. Questa battaglia inaugurò l'era dei grandi massacri che avrebbero caratterizzato le campagne dell'imperatore da allora in poi. Più di quarantamila morti in trenta ore, ventisettemila austriaci e sedicimila francesi, l'equivalente di un morto ogni tre secondi. E poi, come si è detto, per la prima volta Napoleone subì un fallimento militare personale, che danneggiò il suo prestigio e incoraggiò i suoi nemici. Dopo Aspern-Essling, il nazionalismo antifrancese si diffuse in tutta Europa.
Unica traccia rimasta della presenza di Balzac a Vienna: una lapide sibillina apposta sull’edificio in cui soggiornò nella Landstrasser Hauptstrasse,
Hier wohnte 1835 Honoré de Balzac, Dämonie der Liebe und des Geldes Dichter.
[Qui visse nel 1835 Honoré de Balzac, demone dell’amore e poeta del denaro.]
Non voglio tediare i lettori con una minuziosa ricostruzione della battaglia (poche cose sono noiose come la storia militare) ma dare un minimo di coordinate.
Occupata Vienna il 13 maggio del 1809, l'imperatore dei francesi non era ancora riuscito a infliggere una sconfitta decisiva all'esercito dell'arciduca Carlo. Poiché i ponti di Vienna erano stati distrutti dagli austriaci, Napoleone decise di attraversare il Danubio un po' più a est della capitale, su un ponte di barche allestito dai suoi genieri, sperando di sorprendere Carlo, acquartierato con le sue forze sulle pendici del Bisamberg, ultima propaggine del Bosco Viennese.
Il 19 maggio l'imperatore riuscì a impadronirsi dell'isola della Lobau e il giorno seguente stabilì delle teste di ponte sulla riva nord del Danubio. Informato dell'iniziativa di Napoleone, Carlo decise di attaccare l'esercito francese, che teneva una linea che andava da Aspern a Essling. Lo stesso giorno gli austriaci riuscirono a distruggere il ponte costruito dai francesi lanciandogli contro zattere e battelli imbottiti di esplosivo.
Napoleone venne così a trovarsi intrappolato fra il tumultuoso Danubio, alle sue spalle, e l’intero esercito austriaco, di fronte. Carlo però perde tempo prezioso e attacca solo verso le tre del pomeriggio, dando tempo ai francesi di riparare alla bell’e meglio il ponte sul fiume. Comandati dal maresciallo Massena i francesi riescono a resistere fino alle diciotto, quando cominciano ad arrivare rinforzi da Vienna. Aspern è presa, persa e ripresa dagli austriaci più volte. La battaglia si interrompe verso le dieci di sera.
L’indomani, poco dopo le 5 di mattina gli austriaci attaccano Essling. Napoleone, preoccupato dalle perdite inflitte alle sue forze dall'artiglieria austriaca e temendo che il ponte venga nuovamente distrutto dal nemico, ordina al maresciallo Lannes di avanzare al centro per tagliare in due l'esercito austriaco. Nel momento in cui gli austriaci stanno per soccombere a questo attacco, il ponte è nuovamente distrutto e i rinforzi francesi non possono più affluire sul campo di battaglia. Alle 9:30 Napoleone decide di indietrggiare di nuovo sulla linea Aspern-Essling.
Riesce a resistere a tutti gli attacchi austriaci, durante i quali Lannes viene ferito mortalmente (una palla di cannone gli porta via una gamba, morirà otto giorni dopo fra atroci sofferenze). Alle 14,00 Napoleone decide di ritirarsi sull’isola della Lobau per riguadagnare fortunosamente Vienna riattraversando col suo esercito il Danubio (una stampa del tempo lo raffigura su una barchetta, nel cuore della notte, con l’aria mogia).
L’indomani, alle cinque della mattina l’evacuazione è completata, e la battaglia può dirsi finita, senza veri vinti nè vincitori. Se i ponti sul Danubio non fossero stati ricostruiti e se gli austriaci non fossero stati stremati da due giorni di ininterrotti combattimenti e fossero riusciti a distruggere il nemico intrappolato nella Lobau, la storia d’Europa sarebbe forse stata diversa. Napoleone, infatti, si giocava il tutto per tutto nelle sue campagne ed era sempre costretto a vincere per non essere detronizzato. La sua sconfitta ad Aspern-Essling avrebbe potuto significare la fine del suo impero con cinque anni d’anticipo e molti morti in meno. Ma la storia non si fa con i se.
La notizia della battaglia si diffuse in tutta Europa in un baleno, mostrando ai popoli sottomessi alla Francia che l'esercito imperiale non era invincibile. In Germania si sviluppò un'agitazione antifrancese e la Prussia, già gravemente sconfitta da Napoleone due anni prima, decise di riarmarsi e di riavvicinarsi all'Austria. In Francia, fiorirono i complotti contro l'imperatore da parte dei soliti Fouché e Talleyrand.
Napoleone si rifece comunque meno di un mese dopo, infliggendo una dura sconfitta agli austriaci nella titanica battaglia di Wagram, quindici chilometri a nord di Aspern-Essling. Questa, che fu definita “l’ultima vittoria di Napoleone”, mise fine anche alla guerra. Ma da lì in poi iniziò il declino dell’epopea napoleonica, che aveva ormai toccato il suo apogeo. Negli anni successivi sarebbero venute la Spagna, la ritirata di Russia, la battaglia di Lipsia, l’abdicazione…
Si è già detto di Balzac. Nel 1997, lo scrittore francese Patrick Rambaud ebbe la brillante idea di riprendere i suoi appunti per farne il romanzo che l’autore aveva progettato e mai realizzato. Il risultato fu La Batailleun magnifico pastiche in stile balzacchiano che ricostruisce lo scontro armato nei dettagli, minuto per minuto. Memorabile la descrizione degli scontri attorno al deposito di granaglie di Essling, vero perno della battaglia, o dei tormenti notturni di Napoleone sull’isola della Lobau. Il romanzo (pubblicato in Italia da Bompiani), si aggiudicò il Prix Goncourt e il Grand Pix du Roman de l’Académie Française.
Mi piace ricordare un altro libro, le Mémoirs intimes de Napoléon, scritte da Constant, il suo valletto. Constant, che accompagnò l’imperatore durante tutta la sua avventura, fornisce una descrizione di Aspern-Essling. Particolarmente interessante il resoconto dell’ultimo colloquio fra Napoleone e il morente maresciallo Lannes, che qui trascrivo:
Alla vigilia della sua morte, il Maresciallo mi disse: ‘Vedo, mio caro Constant, che sto per morire; dì all'imperatore che vorrei vederlo’. (...) La conversazione fu lunga e dolorosa, e si concluse con queste parole pronunciate dal morente con voce ancora alta e ferma: ‘Avete appena commesso un grande errore: la vostra ambizione è insaziabile; vi perderà; state sacrificando senza considerazione, senza necessità, gli uomini che vi servono meglio e quando muoiono, non li rimpiangete. Avete solo adulatori intorno a voi; non riesco a pensare a un solo amico che osi dirvi la verità. Vi tradiranno, vi abbandoneranno; affrettatevi a porre fine a questa guerra, è il desiderio generale. Perdonate queste verità a un moribondo...; questo moribondo vi ama’.
Parole profetiche, che però Napoleone non volle ascoltare.
Poiché vivo a Vienna, ho potuto visitare più volte le località al centro di questo articolo, col libro di Rambaud in mano a farmi da guida. Aspern ed Essling sono ormai due sobborghi di Vienna, ma conservano ancora molti ricordi della battaglia, rimasti invariati dal 1809. Ad Aspern, la chiesa barocca che fu al centro dei combattimenti e, nell’adiacente sagrestia, un piccolo museo di cimeli. Ad Essling il deposito di granaglie attorno a cui la lotta fu più accanita, anch’esso trasformato in museo. E la strada che collega i due borghi fu la linea del fronte.
Ma la zona più interessante è quella della Lobau. Dopo l’incanalamento del Danubio non è più un’isola, ma resta un‘area naturale protetta, circondata da acquitrini e solcata da rami secondari del grande fiume. Fra l’intricatissima vegetazione si possono trovare – ben segnalati ‒ un cimitero dei francesi, le strade aperte per il movimento delle truppe, una polveriera e la Napoleon-Stein, il masso su cui Napoleone rimase seduto nei momenti più difficili della battaglia.
Una volta volli visitare la Lobau d’estate, più o meno nello stesso periodo in cui duecento anni prima s’era svolta la battaglia. Mi sembrò quasi essere in una foresta tropicale: grandi farfalle nere, una vegetazione fitta e rigogliosa, vaste distese d’acqua che mi si squarciavano all’improvviso davanti, coperte di libellule iridescenti. E, soprattutto, un caldo umido e asfissiante e nugoli di voraci zanzare (non so come facciano a resistere i naturisti che la frequentano…).
Un altro ricordo personale. Nel maggio del 2009, quale membro della comunità diplomatico-internazionale di Vienna ricevetti un invito dall’Ambasciata di Francia: in occasione del bicentenario della battaglia, il Principe di Essling (discendente del maresciallo Massena), avrebbe scoperto una lapide commemorativa sulla facciata del municipio (solo ai francesi poteva venire in mente una cosa del genere).
Ci andai per curiosità: davanti a un gruppo sparuto di persone locali con l’abito della domenica e pochi diplomatici impettiti, il principe – un uomo non più giovane, magro e alto, con un gran naso ‒ fece un discorsetto di circostanza, prima di scoprire la lapide, accompagnato da una banda di paese. Il tutto non durò più di mezz’ora. “Principe di Essling”! Non male per il discendente di un mercante di vino di Nizza…
Nel concludere mi accorgo che protagonista del pezzo non è Balzac, nè la battaglia ma, inevitabilmente, Napoleone. Questo strano personaggio, paragonato dai suoi detrattori a Hitler per le sue continue aggressioni alle altre nazioni europee e per il numero di morti che causò (direttamente o indirettamente, valutato in circa 5 milioni) o esaltato da suoi ammiratori come colui che salvò i “valori” della Rivoluzione francese e diede avvio all’era contemporanea.
Quel che più colpisce del personaggio, al di là del suo cinismo, della sua sete di potere, della volontà di sistemare la propria tribù, è la sua ansia febbrile, quasi metafisica ‒ in questo accomunato ad Alessandro Magno ‒ di creare un impero “universale” (bum!). E per me la definizione migliore del personaggio rimane quella data da Jean Cocteau: “Napoleone era un matto che credeva di essere Napoleone”.
EDVARD MUNCH La prostituta grassa, 1899 |
EDVARD MUNCH_ Due persone – I solitari, 1898 |
EDVARD MUNCH Le ragazze sul ponte, 1918 |
Bologna, 22 settembre 2019 - Nel 1992, quando si doveva eleggere il nuovo presidente della Repubblica, qualcuno infilò nell’urna una scheda con un nome che voleva essere una provocazione. Ma quel nome, quanto meno come immagine all’estero, sarebbe stato azzeccatissimo. «Il nostro amore per l’Italia è profondo», disse ad esempio Barack Obama ricevendo l’allora premier Matteo Renzi: "Amiamo il vino, il cibo e Sophia Loren". Dicono infatti di lei che sia "l’unica vera diva del nostro cinema, la sola che all’estero possa rivaleggiare con il marchio della Ferrari o con il bel canto di Pavarotti": è una delle tante definizioni della Loren raccolte da un grande giornalista, Giorgio Dell’Arti, nella sua rassegna stampa Anteprima di venerdì, giorno in cui l'attrice ha compiuto 85 anni. Eh sì: la grande Sophia Loren, che se non si offende defineremmo un monumento nazionale, ha 85 anni. E sarebbe perfino banale dire che li porta bene: un’altra grande attrice, Meryl Streep, dice di Sophia che "è l’unica donna che è riuscita a rimanere sexy anche da vecchia". Sul suo esser sexy la Loren ha costruito buona parte della sua fortuna. Anche se bisognerebbe poi intendersi su che cosa voglia dire essere sexy. De gustibus non disputandum est, infatti. "Non è il mio tipo. Troppa. Una bellezza prepotente", disse di lei Dino Risi. "Una bella donna ma non il mio genere", sentenziò lo stilista Roberto Capucci. Eppure, ha fatto girare la testa a uomini come Richard Burton, Peter Sellers e Cary Grant, che pure si diceva omosessuale. "Ha dei seni epocali", diceva Lina Wertmuller. "È un albero di Natale", la definiva Alberto Sordi, mentre il grande umorista Marcello Marchesi la battezzò "il petto atlantico". Come tutte le donne veramente sexy, non poteva essere perfetta: e infatti perfetta non lo è mai stata, neanche da giovane. A far innamorare non è mai la perfezione - ammesso che esista una perfezione - ma qualcosa che ha a che fare con il mistero: "Di perfetto non ha quasi nulla", annotò acutamente Giorgio Albertazzi: "È come una giraffa, una mostruosità della natura, quella bocca sproporzionata, due seni come meloni, i fianchi stretti, ma l’insieme è irresistibile". Lei, infine, tagliò corto risolvendo la questione così: "Il sex appeal è al cinquanta per cento quello che hai e al cinquanta per cento quello che gli altri pensano che tu abbia". Ma son poi, questi, discorsi da uomini, o meglio da maschi, da poveri maschi che si portano dentro un animale, come ha confessato - a nome della categoria - lo scrittore Francesco Piccolo in un suo libro recente.
Parlare di Sophia Loren solo per la sua bellezza e per il suo sex appeal è far torto a lei e alla sua storia. La Loren è infatti un miracolo vivente di passione, di impegno, di tenacia, di capacità di sottrarsi a un destino che pareva ingrato. "Tutto ciò che ha raggiunto se l’è guadagnato con la fatica e con l’entusiasmo. Ha imparato tutto, dall’italiano all’inglese. Ha imparato perfino a ridere a bassa voce, lei che lo faceva a scroscio, spaccando i vetri": scrisse di lei Indro Montanelli. "Non è stata una vita fortunata la sua, ma voluta: costruita con il talento e con il carattere", confermò Enzo Biagi. Il padre, ad esempio. Sophia non l’ebbe mai. Sua madre, Romilda Villani, insegnante di pianoforte, si innamorò di un uomo - Riccardo Scicolone, impiegato in una società di costruzioni ferroviarie - che le diede due figlie, ma che non la sposò mai, facendosi poi un’altra famiglia. "Vidi mio padre quando avevo 5 anni, lo rividi quando ne avevo 7 e, infine, l’ho visto per l’ultima volta quando è morto", ha raccontato lei. Sofia Villani Scicolone, prima di diventare Sophia Loren, vive a Pozzuoli e poi a Napoli in miseria o quasi. Perfino i suoi esordi sembrano segnati dalla sfortuna. A 15 anni partecipa a un concorso di bellezza ma le danno solo un premio di consolazione. "La madre", si racconta, "entrò furente nella redazione del Corriere di Napoli trascinando Sofia al cospetto dei giornalisti del quotidiano e, ordinandole di mostrare le gambe e sollevandole la gonna, rimproverò a tutti di avere negato il primo premio 'a questo ben di Dio'". L’anno dopo, 1950, partecipa a miss Roma ma arriva seconda. Poi a miss Italia, dove arriva solo quarta: ma a Salsomaggiore conosce Carlo Ponti, l’uomo della sua vita. Di ventidue anni più vecchio di lei, Ponti fu per lei tutto: amante, marito, padre, produttore. La affidò a vari registi, indovinando alla fine il migliore: "Sophia", scrisse Montanelli, "è un’argilla docile e duttile che le consente di essere con disinvoltura oggi Cleopatra, domani la ciociara. Dipende dal polpastrello che la modella. Ponti le trovò quello più congeniale: De Sica". Fu De Sica a portarla all’Oscar, nel 1962, con La ciociara. Sophia seppe della statuetta nella sua casa di Roma, alle sei del mattino, da una telefonata di Cary Grant. Era la prima volta che un attore o attrice italiana vinceva quel premio per un film italiano parlato in italiano. Erano i beati anni Sessanta, e il nostro Paese si risollevava dalla sconfitta della guerra e dalla miseria del dopoguerra grazie a un concentrato di talenti, di forza di volontà e di ottimismo che non abbiamo, ahimè, più avuto.
Nel mondo del design e dell'architettura, l'approccio proposto dall’antropologo Tim Ingold rappresenta una svolta radicale nel modo in cui comprendiamo e interagiamo con il nostro ambiente. Ingold, attingendo agli insegnamenti dell'Ontological Turn in antropologia, propone una visione in cui le linee che collegano l'umano (cultura) al non umano (natura) non sono statiche o unidirezionali, ma sono invece in costante movimento, creando una rete di relazioni viventi e respiranti. Questa visione trasforma radicalmente il ruolo della natura nel processo creativo, elevandola da semplice sfondo o materiale a parte attiva e intenzionale nel dialogo del design.
Tim Ingold è un antropologo britannico contemporaneo, le cui opere hanno avuto un profondo impatto su diverse discipline, tra cui l'antropologia, la geografia, l'arte, il design e l'architettura. Nato nel 1948, Ingold ha trascorso la maggior parte della sua carriera accademica esplorando le intersezioni tra ambiente, cultura e percezione umana, cercando di capire come queste dimensioni si intreccino nella vita quotidiana. Ha esplorato una vasta gamma di argomenti, tra cui la percezione dell'ambiente, le pratiche di abitazione, l'etnografia del camminare, la manualità, e la relazione tra umani e non-umani.
Il suo lavoro è caratterizzato da un interesse per i processi piuttosto che per le strutture statiche, sottolineando il flusso, il movimento e la formazione continua delle relazioni sociali e materiali. Per l’autore britannico, il camminare è un'attività fondamentale che connette le persone con l'ambiente. Nei suoi studi, considera i percorsi non solo come tracce fisiche, ma come intrecci di storie, apprendimenti e relazioni. Ad esempio, in The Perception of the Environment, esamina come i cacciatori e i raccoglitori si muovono nel paesaggio, interpretando segni e tracciando percorsi che riflettono una profonda connessione con il loro ambiente.
Ma di una realtà in movimento si parla fin dall’antichità in Asia Minore, a Efeso per esempio attraverso i pochi frammenti di Eraclito.
Eraclito di Efeso, filosofo presocratico attivo intorno al 500 a.C., è una figura enigmatica nella storia della filosofia occidentale, noto principalmente attraverso frammenti e testimonianze secondarie, dei suoi scritti non resta quasi nulla. La sua filosofia è spesso riassunta nella celebre frase Panta rei (tutto scorre), sebbene questa formulazione precisa non appaia nei frammenti sopravvissuti. La sua dottrina centrale sostiene che il cambiamento costante e il divenire sono le caratteristiche fondamentali dell'universo.
Eraclito sosteneva che tutto è in uno stato di flusso perpetuo, sottolineando l'importanza del movimento e del cambiamento come realtà essenziale dell'essere. Contrariamente ai filosofi eleati, come Parmenide, che negavano il cambiamento e sottolineavano l'unità e l'immobilità dell'essere, Eraclito credeva che l'unicità dell'essere risiedesse proprio nella sua capacità di mutare. Questa visione dinamica dell'universo suggerisce che anche le entità che appaiono stabili sono in realtà soggette a un processo di trasformazione costante.
Nella sua opera De rerum natura, ispirata anche all’opera di Eraclito, il poeta e filosofo romano Lucrezio ha esposto le teorie atomiste di Leucippo e Democrito in versi, enfatizzando l'incessante movimento e trasformazione degli atomi che compongono il mondo. Questi filosofi presocratici, noti per la loro teoria atomista, sostenevano che l'universo fosse composto da atomi in eterno movimento nel vuoto, portando a cambiamenti continui nelle forme e nelle aggregazioni di materia.
Ingold vede la natura non come un oggetto da dominare o manipolare, ma come un soggetto con cui entrare in relazione, ascoltare e da cui imparare. Questa relazionalità tra umano e non umano apre nuove possibilità per il design e l'architettura, spingendoci a considerare non solo come costruiamo nel mondo, ma anche come il mondo costruisce sé stesso attraverso di noi. In questa visione, ogni atto creativo diventa un dialogo, un'interazione in cui sia gli umani sia la natura sono coinvolti in un processo di co-creazione.
Uno degli aspetti fondamentali del lavoro di Ingold è l'esplorazione della "linea" come concetto chiave per comprendere il mondo. Nella sua visione, le linee non sono semplicemente tracce o segni, ma vie di movimento e crescita attraverso le quali si intrecciano le vite degli esseri umani e degli altri enti.
Questa riflessione sulle linee lo ha portato a esaminare pratiche come il disegno, la scrittura, il camminare e il tessere, tutte viste come modalità di coinvolgimento e conoscenza del mondo. Ingold introduce il concetto di "linee" per descrivere i percorsi attraverso i quali la vita si snoda e si intreccia. Questo concetto si estende oltre i percorsi fisici per includere anche traiettorie di pensiero, relazioni sociali e scambi culturali. Secondo Ingold, la vita non è composta da punti fissi (come le stazioni o le tappe lungo un percorso) ma da linee in continuo movimento e interazione. Questo approccio enfatizza il processo e il flusso piuttosto che gli stati o gli oggetti definiti.
In questa prospettiva di linee, il “tessere” è un altro concetto fondamentale per illustrare come gli individui e le comunità intreccino insieme elementi diversi della loro esistenza per creare il tessuto della vita sociale e culturale. Questo processo non è statico ma dinamico, con nuovi fili che si aggiungono, si intrecciano e si modificano nel tempo. Il tessere simboleggia la costruzione attiva e continua della vita, della conoscenza e delle relazioni attraverso l'interazione.
Ingold vede l'antropologia non solo come uno studio accademico ma come una pratica viva, che coinvolge un dialogo costante tra l'osservatore e l'oggetto di studio, tra il pensiero e l'azione. I suoi laboratori e seminari sono esempi concreti di come queste idee vengano messe in pratica, offrendo nuovi modi di conoscere, insegnare e interagire con il mondo. Stimola al fare esperienze per rientrare in contatto con le linee della natura, incoraggiando gli studenti a esplorare le connessioni tra disegno, scrittura e percezione dell'ambiente. Tra forma e materia, tra progetto e artefatto.
Questi laboratori sono spazi in cui la teoria delle "linee" viene messa in pratica, con i partecipanti che imparano attraverso il fare, tracciando linee fisiche, corporali e metaforiche per esplorare la loro relazione con il mondo. Lo studioso stimola i giovani e promuove progetti che attraversano i confini disciplinari, riunendo artisti, antropologi, architetti per esplorare temi come il paesaggio, l'abitare e il fare.
Per esempio, accompagnò degli studenti di design sulla spiaggia per costruire cesti di vimini guidati da un’artigiana del mestiere. Voleva spiegare come forma e materia si incontrano. Soprattutto ricordare loro che la forma non è un a priori all’artefatto prodotto, ma un intreccio delle intenzioni di entrambi, del creatore e della materia, in dialogo tra loro, la creazione è un’orchestra di linee di tutto quello che partecipa alla trasformazione della materia in artefatto che, una volta creato muterà nel corso del tempo intrecciandosi con altre linee.
I ragazzi inginocchiati a mani nude sulla spiaggia, al freddo, intrecciarono i filari orizzontali dei vimini a fatica, il materiale era resistente e il vento storceva gli elementi verticali piantati nella sabbia che davano la forma al cestino, la forma cambiava secondo le raffiche del vento controllate dall’abilità delle mani dell’artigiano. Quella resistenza dei vimini a farsi intrecciare è quella che lo rende forte una volta Cestino. La materia attraverso le sue proprietà suggerisce come essere lavorata.
L’autore è anche conosciuto per il suo contributo alla "antropologia oltre l'umano" o "ecologia delle vite". Proprio in questo contesto, analizza le relazioni reciproche tra umani e non-umani, sottolineando come queste interazioni configurino le società e gli ambienti. La sua ricerca mette in discussione la dicotomia tradizionale tra natura e cultura (paradigma ilomorfo), proponendo invece una visione più integrata e relazionale dell'essere nel mondo. Attraverso il suo concetto di "fare", Ingold si è interessato particolarmente alle modalità con cui le persone si impegnano attivamente con il loro ambiente.
Le considerazioni di Ingold sugli artigiani e i saperi dell'arte sono centrali in questa discussione. Egli sostiene che gli artigiani, con la loro intima conoscenza dei materiali e dei processi, incarnano un modo di essere al mondo che è profondamente radicato nel fare. Questo "fare" non è un semplice atto di produzione, ma è un modo di conoscere, un modo di stabilire un rapporto dialogico con il mondo. Gli artigiani non impongono la loro volontà ai materiali; piuttosto, ascoltano, rispondono e collaborano con essi. Questo approccio al fare richiede una sensibilità e una apertura al "linguaggio" dei materiali e delle forme della natura.
L'importanza del fare, nel contesto dell'arte e dell'architettura, diventa così un atto di partecipazione attiva nel mondo, un modo di conoscere che è incorporato e situato. Questo processo non solo porta alla creazione di oggetti o strutture, ma contribuisce alla continua trasformazione del nostro ambiente e della nostra relazione con esso. Per Ingold, quindi, fare arte o architettura non è semplicemente un atto di espressione individuale, ma un modo di intrecciare ulteriormente le linee che connettono l'umano al non umano.
L’approccio di Tim Ingold al design e all'architettura ci invita a ripensare il nostro posto nel mondo e il modo in cui interagiamo con esso. Sfida la concezione tradizionale del design come atto di imposizione umana sulla natura, proponendo invece una visione collaborativa in cui umani e non umani lavorano insieme nella creazione di un mondo condiviso. Questo richiede un cambiamento non solo nelle nostre pratiche, ma anche nel nostro modo di pensare, un riconoscimento che siamo parte di un tessuto più ampio di vita, in continuo movimento e dialogo. Ingold ci mostra che attraverso l'atto del fare, possiamo imparare a percepire la natura da dentro il processo, non come un oggetto esterno, ma come un partner vitale nel nostro viaggio creativo.
Il disegno, diceva l'artista Paul Klee, è come portare a spasso una linea. Prova tu stesso. Prendi una matita in mano e lasciala posarsi su un foglio di carta. Mentre la punta entra in contatto con la carta, inizia a comparire una linea. E continua fino a che, con un leggero movimento del polso, permetti alla punta di sollevarsi di nuovo. Quello che rimane sul foglio è la traccia di un gesto manuale. A seconda di come hai mosso la mano e le dita, può curvarsi, torcersi o formare anelli, in un senso e nell'altro. Ma non sarà mai perfettamente dritta. Allo stesso modo, nessuno cammina mai in linea retta, come si può vedere dalle tracce di impronte su una spiaggia sabbiosa. C'è una differenza, ovviamente, tra camminare e disegnare, poiché camminando ogni passo fa un contatto separato con il terreno. Mentre il movimento del corpo è continuo, il modello delle impronte ha un ritmo pulsante intermittente. Solo quando molti piedi sono passati dalla stessa via si forma un sentiero ininterrotto. Ma il sentiero, come la linea tracciata dal disegno, si torce e gira. Così fa anche la vita stessa. La vita continua, proprio perché non viene vissuta in questo punto o in quello, ma è piuttosto in cammino da un luogo all'altro. È nelle deviazioni che succede tutto. Ecco perché le storie che raccontiamo, delle nostre vite e di quelle altrui, girano anch'esse intorno. Dobbiamo girare anche noi, per seguirle.
(Lines, Tim Ingold)