mercoledì 15 gennaio 2025
martedì 14 gennaio 2025
Addio a Oliviero Toscani / iI grande fotografo si è spento a 82 anni
Oliviero Toscani
Addio a Oliviero Toscani: il grande fotografo si è spento a 82 anni
13 gennaio 2025
(LaPresse) - Lutto nel mondo della cultura. Si è spento all'età di 82 anni Oliviero Toscani. Lo hanno annunciato la moglie Kirsti Toscani con i figli Rocco, Lola e Alí sul profilo Instagram del grande fotografo. "Con immenso dolore diamo la notizia che oggi, 13 gennaio 2025, il nostro amatissimo Oliviero ha intrapreso il suo prossimo viaggio. Chiediamo cortesemente riservatezza e comprensione per questo momento che vorremmo affrontare nell’intimità della famiglia", scrivono la moglie e i figli. Toscani era affetto da amiloidosi, come lui stesso aveva reso noto, ed era ricoverato in gravi condizioni da diversi giorni all'ospedale di Cecina, in provincia di Livorno.
lunedì 13 gennaio 2025
Le fotografie di Oliviero Toscani, realismo e provocazione: «Voglio svegliare dall’indifferenza»
Figlio di un reporter storico del giornale, aveva pubblicato sul «Corriere» la sua prima fotografia: il volto di Rachele Mussolini
«Oggi tutti fanno fotografie, ma nessuno è più un fotografo» aveva confessato Oliviero Toscani, morto oggi - 13 gennaio - a 82 anni, quando presentò la collana «La nuova fotografia» che aveva curato per il «Corriere». Secondo l’uomo delle campagne pubblicitarie per United Colors of Benetton e della campagna choc contro l’anoressia con la modella e attrice francese Isabelle Caro, tutto insomma «era ormai finito». Ma si capiva che non era così, che per lui la fotografia non avrebbe mai potuto dissolversi nel nulla, sarebbe magari cambiata, ma sarebbe sempre e comunque rimasta necessaria. Come avrebbe potuto pensare altrimenti? Lui, figlio di uno dei fotoreporter storici del Corriere della Sera (Fedele, 1909-1983)); lui che a sei anni aveva ricevuto in regalo la prima macchina fotografica (una «Rondine» della Ferrania); lui che a quattordici anni aveva pubblicato (ancora sul Corriere) la sua prima foto, quando, accompagnando il padre che testimoniava la tumulazione di Mussolini a Predappio, aveva «fermato» il volto dolente di Rachele Mussolini; lui che era fratello di Marirosa (1931-2023) e cognato di Aldo Ballo (1928-1994), fondatori dello studio Ballo&Ballo, uno dei più importanti studi fotografici di architettura, interni, design.
Quelli di Oliviero Toscani (nato a Milano il 28 febbraio 1942, studi prima al Liceo Vittorio Veneto di Milano e poi alla Kunstgewerbeschule di Zurigo) non sono mai stati semplici scatti (termine che disprezzava profondamente) ma racconti per immagini capaci di rompere gli schemipiù consolidati (della fotografia, della moda, dell’impegno sociale). Realismo, semplicità, provocazione, nessuna concessione al virtuosismo tecnico: questo (in sintesi) lo stile di Toscani che oltretutto avrebbe portato la fotografia di moda fuori dagli studi, nella strada, nella vita reale, avvalendosi delle star del momento (Lou Reed, Donna Jordan, Monica Bellucci, Mick Jagger, Federico Fellini, Carmelo Bene) per creare un universo di immagini belle, spontanee, ironiche, ma (soprattutto) piene di significato.
venerdì 10 gennaio 2025
Alice Munro, il marito maniaco e i danni della semicultura sulle menti deboli
Uscirne vivi
Alice Munro, il marito maniaco e i danni della semicultura sulle menti deboli
9 Luglio 2024
Scopriamo adesso che nel 1976 la terzogenita della scrittrice canadese subì abusi sessuali dal patrigno, ma la madre decise di non lasciare il compagno. Ora naturalmente è partita l’indignazione social contro la Nobel 2013, ma invece andrebbe letta con attenzione per cogliere la disperazione letteraria di chi pur di non restare sola ha accettato di
Il 2013 è l’anno in cui ad Alice Munro viene assegnato il Nobel per la letteratura. È anche l’anno in cui muore Gerald Fremlin, il suo secondo marito. Che otto anni prima è stato condannato da un tribunale perché, quando Andrea Munro aveva nove anni ed era andata a trovarli d’estate, si era fatto una sega addosso a lei – che saggiamente aveva finto di dormire – e simili amenità.
Era successo nel 1976, e Andrea, terzogenita di Alice, tornata a casa l’aveva detto subito alla moglie del padre. Che l’aveva detto al padre, il quale non ne aveva poi mai parlato con Andrea né con Alice ma, dall’estate successiva, aveva mandato Jenny, la sorella di Andrea, ad accompagnarla nelle vacanze a casa della madre e del maniaco.
Nel 1992, Alice Munro dice alla figlia che ha letto un racconto in cui una ragazzina si suicida per essere stata vittima d’incesto, e le chiede: perché non l’ha detto alla madre? A quel punto Andrea pensa di poterle raccontare che gran porco sia il suo secondo marito, fino ad allora si era sentita in colpa, o aveva avuto paura che fosse la madre a colpevolizzarla. Le scrive una lettera.
Ne derivano le dinamiche melodrammatiche proprie di tutte le famiglie: Alice Munro si sente tradita da Gerald, delusa da Andrea, in generale è preoccupata di sé ben prima che della figlia. È una curva comportamentale assai realistica ma trascuratissima dalla drammaturgia: chissà perché rappresentiamo quasi solo madri pronte a tutto per difendere i figli, mai pronte anche a calpestare i figli pur di tenersi un marito.
Alice se ne va brevemente di casa. Ed è a questo punto che la storia diventa la storia di tutti noi ogni giorno: sì, magari una storia di violenza e reati, ma soprattutto una storia di stupidità. Gerald scrive delle lettere. Delle lettere in cui dice che sì, vabbè, ha tentato di farsi fare una sega da una bambina di nove anni, e visto che lei si ostinava a dormire alla fine s’è limitato a strusciarsi su di lei, a metterle le mani nelle mutande, a menarselo: ma è perché lei è Lolita.
E, se una Lolita mi seduce, io posso diventare Humbert, se mostra un’attrazione sessuale per me io reagisco, scrive l’imbecille parlando d’una bambina di nove anni. Gerald è sposato con una scrittrice, e il fatto che pensi di poter usare “Lolita” in propria difesa è l’arringa definitiva sui danni che la semicultura può fare sulle menti deboli. Può uno essere così imbecille da mettere per iscritto roba del genere, da minacciare di rovinare la reputazione alla fu puttanella novenne se qualcuno osa denunciarlo? Certo che può, ed è solo grazie a quelle lettere e alle ammissioni di colpa che contengono che molti anni dopo Andrea riuscirà a farlo condannare da un tribunale.
Perché, dice nel racconto della vicenda uscito sul Toronto Star, voleva che questa storia non restasse segreta. Che fosse parte della biografia della madre. Di quella madre che, nonostante le lettere, tornò dal marito. «Mi disse che senza di lui non poteva vivere», racconta la primogenita Sheila: gratta una scrittrice premio Nobel, e troverai una servetta romantica.
Andrea voleva che tutti sapessero, e invece Alice Munro è morta due mesi fa con la reputazione intonsa. Eravamo tutti distratti da Roman Polanski e Woody Allen, e nessuno – neanche Claire Dederer, che sul tema ha scritto un libro, “Mostri” – ha ritenuto che il dibattito sul separare l’opera dall’autore dovesse coinvolgere una donna, una madre che si riprende il marito che ha esercitato violenza su sua figlia perché, racconta Andrea che le rispose Alice, è una cultura misogina quella che vuole ch’io rinunci a mio marito. Ma certo, Alice. Una cultura misogina quella che ti dice che non è che devi proprio tenerti il marito a tutti i costi.
La settimana scorsa, una donna che a tredici anni è stata violentata dal prozio dal quale era stata mandata a lavorare d’estate ha scritto a Kwame Anthony Appiah, che sul New York Times tiene la rubrica “The ethicist”. Anche lei ci ha messo una quindicina d’anni a dirlo alla madre, la quale le ha risposto che le era successa la stessa cosa da ragazzina, con lo stesso parente, ma gli aveva mandato la figlia comunque perché ormai era vecchio.
Su richiesta della madre, la donna non aveva detto niente al padre, il quale però continuava a chiedersi perché lei fosse fredda con la madre (sono nel frattempo passati altri vent’anni, perché le tragedie familiari restano immobili e ignorate nel tempo come certi surgelati dimenticati in fondo al freezer – scusate la similitudine sciatta).
Quindi la tizia scrive al filosofo per sapere se dirlo adesso sia egoismo, forse rischia solo di guastare il matrimonio tra due ottantenni, e altri scrupoli del genere. Né lei che si pone questi dubbi, né lui che a questi dubbi risponde, considerano una cosa che pure a me sembrava ovvia anche prima che il Toronto Star pubblicasse la vicenda Munro: hai messo in conto che tuo padre prenda le difese di tua madre e non le tue, e tu possa restarci male il doppio?
Perché, da un punto di vista di mera drammaturgia, a me pare plausibile che finisca così. Un matrimonio cinquantennale è un meccanismo sclerotizzato, in cui prima di rinnegare la posizione storta in cui ti sei accomodato per non accorgerti di quel doloretto sei disposto a raccontarti proprio tutto, anche che tua moglie fosse in buona fede quando ha mandato la figlia da un pervertito. Lo dice proprio Andrea Robin Skinner, nata Munro, in un altro articolo pubblicato sempre dal Toronto Star: «Mio padre non voleva dire a mia madre cos’era successo perché sentiva che i bisogni di lei erano più grandi di quelli delle sue figlie». E papà Munro non era neppure più sposato con la madre: figuriamoci quando ci sono legami in corso.
Jenny, una delle sorelle di Andrea, dice che, tra le ragioni per cui in famiglia sono stati tutti zitti per anni, c’è anche la fama letteraria della madre: non volevano sembrare quelli che demolivano una donna che ormai era un simbolo. Intervistatori e biografi non so che scusa abbiano, forse la stessa: Carole, la matrigna, racconta che lo sapevano tutti, che a una cena un giornalista le chiese «ma è vera questa storia?», eppure mai una riga è uscita.
Possiamo nasconderci dietro al frasifattismo e dire che una vittima racconta quando è pronta e i tempi che sceglie sono sempre quelli giusti, o chiederci cosa ci dica la tempistica di questa confessione (Alice Munro è morta il 13 maggio): che Andrea ha voluto lasciare che la madre morisse con la reputazione intatta e il Nobel non revocato per indegnità (se hanno revocato l’Oscar a Polanski, perché non revocare ora il Nobel a Munro), o che non ha voluto darle modo di difendersi da viva (ma non l’avrebbe comunque potuto fare, in anni recenti: aveva l’Alzheimer).
La ragione per cui Andrea si decide infine a denunciare Gerald è che nel 2002 diventa madre, dice ad Alice che può vedere i nipoti ma suo marito non si deve avvicinare, e quella le risponde che per lei è molto scomodo andare a trovarla se non la accompagna lui. Lei a quel punto conclude urlando la telefonata e la frequentazione (meglio tardi che mai). Due anni dopo, a ottobre 2004, Daphne Merkin intervista Alice Munro per le pagine dei libri del New York Times.
Non solo è un’intervista in cui Alice parla di Gerald come fosse l’uomo dei sogni, ma anche in cui si dice in ottimi rapporti con tutt’e tre le figlie, «che s’incontrano per parlare di me», e pazza dei nipoti. Ogni vaso ha la sua goccia, e quella che fa traboccare Andrea è quell’intervista. Sai, Gerald: se la mamma non avesse detto al New York Times che uomo favoloso eri, magari non sarebbe finita col tuo nome nel registro dei pedofili.
Quanto alla separazione tra opera e autrice, ieri i social erano pieni di «che schifo, non la leggerò mai più», giacché ormai non esistono lettori ma consumatori, e il consumatore boicotta il prodotto se il produttore dà mostra d’immoralità. Come ci si possa non incuriosire, considerato quante madri e quante figlie ci sono nei racconti di Munro, come si possa non aver voglia di andare invece a rileggere tutto e scoprire in quanti sottotesti ci siano Gerald e Andrea, Gerald e Alice, la disperazione di chi pur di non restare sola accetterebbe proprio di tutto, l’inferno che sono le famiglie, come si possa non aver voglia d’indagare la scrittura di una che è stata umanamente così bieca io non me lo so spiegare. È pure morta: i diritti d’autore mica vanno a lei.
martedì 7 gennaio 2025
Il senso di colpa di chi apprezza il genio artistico di quelli con la fedina sporca
Cattivi di talento
Il senso di colpa di chi apprezza il genio artistico di quelli con la fedina sporca
Per un fan, la possibilità di distinguere l’autore dalla sua arte è la via più facile per continuare a godersi prodotti culturali mantenendo la coscienza pulita. Per alcuni, però, questo non basta: tra questi figura Claire Dederer che racconta il suo percorso di (non) perdono in “Mostri” del nuovo marchio Altrecose del Post
Continuavo a ripetermi che Polanski era un genio, fine della storia, problema risolto. E tuttavia, mentre scorrevano i fotogrammi, non potevo ignorare qualcosa di fastidiosamente simile a una fitta. Peggio di una fitta, a dir la verità. La voce della coscienza non mi dava pace. Lo spettro del crimine di Polanski non se ne voleva andare.
Scoprii che non bastava pensare per risolvere il problema Roman Polanski. Il poeta William Empson scrive che la vita ci costringe a mantenerci in equilibrio tra contraddizioni che non possono essere risolte grazie a una semplice analisi. E io mi trovavo al centro di una di quelle contraddizioni.
Polanski non sarebbe affatto un problema per lo spettatore – ma soltanto l’ennesimo esempio di come certi uomini siano dei buchi neri – se i suoi film fossero brutti. Ma non lo sono. Non c’è altra figura contemporanea che sappia mantenere in perfetto equilibrio due forze così contrastanti: una mostruosità assoluta e un genio assoluto.
Polanski ha diretto Chinatown, uno dei più grandi film della storia del cinema. Polanski ha drogato e sodomizzato la tredicenne Samantha Gailey. I fatti sono questi, inconciliabili. Come potevo sanare dentro di me la contraddizione?
Il comodo divano del mio soggiorno era diventato un letto di chiodi. Non sapevo cosa fare riguardo a Polanski; e però sentivo, seppure in modo vago, che qualcosa andava fatto. Che bisognava prendere una decisione.
Speravo che un pensatore, un filosofo o qualcuno del genere, si fosse già occupato del problema e l’avesse risolto al posto mio. Al college avevo studiato storia delle idee, ma non mi veniva in mente nessuno che avesse affrontato apertamente la questione. Così un pomeriggio inviai un’email al responsabile didattico del mio corso di laurea, uno storico, un intellettuale, un uomo con i baffi allegro e brillante come il personaggio di un romanzo di David Lodge. Dopo avere premuto Invia sentii di avere la coscienza a posto; di certo il mio amato professore avrebbe risolto quella spinosa questione una volta per tutte.
Ripensandoci, trovo affascinante il mio istinto di rivolgermi subito a un esperto, che per giunta era maschio e bianco. Avevo l’urgenza di delegare il problema a qualcun altro, di trovare un’autorità. L’idea che quell’autorità non esistesse non mi aveva nemmeno sfiorata.
Caro John [scrissi], spero che tu stia bene. Mi rivolgo a te come mio mentore, nella speranza che tu possa aiutarmi a risolvere una questione. […]
Sto scrivendo un lungo testo (esito a chiamarlo libro) su Roman Polanski. […]>
Uno dei punti cruciali emersi: il problema dell’artista di cui ammiriamo l’opera pur disprezzandone la condotta morale. Sono sicura che su questo argomento sono state scritte molte cose, ma non saprei da dove cominciare, a parte il libro di Arianna Huffington su Picasso. Hai qualche consiglio? Spero non ti dispiaccia se approfitto della tua competenza senza farmi troppi scrupoli. […]
Con affetto, C.
Be’, John non mi fu di grande aiuto. Mi rispose consigliandomi di informarmi su V.S. Naipaul, che era un individuo orribile, o di pensare a grandi artisti simpatizzanti del fascismo, come Ezra Pound. No, non era esattamente quello che volevo. Avevo passato la vita a sentirmi delusa da artisti maschi che adoravo: John Lennon picchiava la moglie; T.S. Eliot era un antisemita; Lou Reed è stato accusato di maltrattamenti, razzismo e antisemitismo (accuse così poco originali, a parte tutto). Non volevo compilare un catalogo di mostri: esisteva già e si chiamava storia dell’arte. Ebbi un’epifania: quello che mi interessava capire non riguardava gli artisti, ma il pubblico. Polanski non era un problema per sé, ma per me. E se avessi scritto un’autobiografia del pubblico?
Un libro del genere mi sembrava alquanto nebuloso. Dove ambientarlo, esattamente? Nella mia testa? Nel mio soggiorno, mentre leggevo o guardavo la tv? Nella mia auto, mentre ascoltavo musica? A teatro, al museo, in un locale per concerti? A un tratto tutti quei posti banali mi apparvero come il palcoscenico di un dramma.
Se volevo scrivere un’onesta autobiografia del pubblico – e intendo il pubblico delle opere di uomini mostruosi – il libro si sarebbe dovuto mantenere in equilibrio tra due elementi: la grandezza dell’opera e l’atrocità del crimine commesso. Avrei tanto desiderato trovare in rete una calcolatrice inventata per l’occasione: inserisci il nome di un artista e, dopo aver valutato la nefandezza del suo crimine e la grandezza del suo lavoro, la calcolatrice emette un verdetto: puoi/non puoi fruire del suo lavoro.
L’idea della calcolatrice è ridicola, non sta in piedi. Eppure doveva esserci un modo per raggiungere un equilibrio tra senso morale e amore per l’arte (la Liebe zur Kunst tedesca). Volevo che fosse un equilibrio universale, basato su un verdetto univoco, anche se sospettavo che chiunque, in fondo, avesse il proprio. Una mia amica, che alle superiori ha subito uno stupro di gruppo, sostiene che tutte le opere di qualsiasi artista che abbia sfruttato o maltrattato le donne dovrebbero essere distrutte. Un mio amico gay, la cui adolescenza è stata salvata dall’amore per l’arte, sostiene che l’opera e la biografia dell’artista vadano sempre tenute separate. È possibile che entrambe queste persone abbiano ragione. Non sempre amiamo chi o cosa dovremmo amare. Woody Allen stesso ha citato la celebre frase di Emily Dickinson: «Il cuore vuole ciò che vuole». Auden lo ha detto meglio, ma ha detto meglio quasi tutto: I desideri del cuore sono contorti come cavatappi. I desideri del cuore del pubblico sono contorti come cavatappi. Continuiamo ad amare ciò che dovremmo odiare. A quanto pare non possiamo spegnere l’amore.
Cominciai ad accorgermi che quelle domande mi perseguitavano da anni – come critica cinematografica e letteraria, o anche solo come spettatrice e appassionata d’arte. Per molto tempo mi era sembrata una questione privata: un enigma solitario tra piacere e responsabilità, quasi una specie di hobby, come lavorare a maglia o giocare a calcetto. L’avevo sempre considerato un interrogativo personale dalle risposte contingenti: potevano variare a seconda del mio umore, dell’artista e dell’opera specifica.
In quegli anni, prima del 2016, non sapevo che stavamo entrando in un territorio inesplorato, dove gli eroi sarebbero caduti l’uno dopo l’altro e la reazione alla loro caduta non sarebbe più stata la tristezza privata, ma l’indignazione collettiva. Non sapevo che il nostro dolore personale stava per diventare politico, né che il mondo ci sarebbe apparso molto più fragile. Negli anni seguenti la sua crudeltà sarebbe diventata molto più visibile. Sembrò quasi apparire all’improvviso, come il cattivo che sbuca dal lato sinistro del palco. Ma ovviamente quella crudeltà non era nuova: era sempre stata lì. Semplicemente, alcuni di noi l’avevano sempre ignorata.
giovedì 2 gennaio 2025
Se Gaza resta senza ospedali: centinaia di raid, massacro di donne e bambini
Se Gaza resta senza ospedali: centinaia di raid, massacro di donne e bambini
Dal ottobre 2023 fino a giugno scorso le 39 strutture mediche nella Striscia sono state colpite centinaia di volte. Kamal Adwan era l’ultimo presidio. «Nei raid il massacro di donne e bimbi», il direttore «picchiato e incarcerato»
mercoledì 1 gennaio 2025
Storia del tatto, il senso che ci rende umani
Storia del tatto, il senso che ci rende umani
Laura Crucianelli, assistente al Dipartimento di Psicologia della Queen Mary University of London, dove coordina il corso di Neuroscienze cognitive e affettive, scrive un libro in cui tratteggia il più inedito e pervasivo dei sensi: il tatto.
Eugenio giannetta
17 / 12 / 2024
:
Agostino nelle Confessioni disse che il tatto è quel senso che è diffuso in tutto il corpo, preposto alla percezione; è il senso dei sensi, nonostante sia forse il più sottovalutato tra i sensi, perché è il primo con cui entriamo in contatto con il mondo e l’ultimo a lasciarci quando ce ne andiamo. Quello del tatto è un tema che molti hanno affrontato nel corso del tempo, osservando da diverse prospettive le vaste possibilità – sociologiche, psicologiche, mediche, artistiche – che se ne possono trarre, e proprio in questi giorni è uscito un libro che mette insieme diverse esperienze, per cercare di tratteggiare un ritratto inedito del più pervasivo dei sensi: si tratta di Storia naturale del tatto(Utet), scritto da Laura Crucianelli, assistente al Dipartimento di Psicologia della Queen Mary University of London, dove coordina il corso di Neuroscienze cognitive e affettive.
Crucianelli parte da un assunto semplice ed efficace: «Il tatto è il senso della concretezza, è umano». Questa affermazione risuona con ulteriore forza in un’epoca in cui – come ricorda Walter Siti nel suo ultimo libro, C’era una volta il corpo (Feltrinelli) – è sempre più difficile ricordarci che abbiamo ancora un corpo. Tutto ciò vale ancora di più se, come Crucianelli, ci si occupa dello studio del tatto, ed in particolare della percezione del tatto affettivo, delle carezze e della funzione della percezione di noi stessi e degli altri, in un mondo peraltro sempre più digitale. «Il tatto – scrive Margaret Atwood nel suo romanzo L’assassino cieco (Ponte alle Grazie) – viene prima della vista, prima della parola. È la prima lingua e l’ultima, e dice sempre la verità». Allo stesso modo, come ricorda Lingiardi nel suo ultimo libro Corpo, umano (Einaudi), citando Merleau-Ponty («toccare è toccarsi) e John Keats («touch has a memory»), «come siamo stati toccati da piccoli si deposita nella memoria fisica che è poi una memoria psichica».
Il tatto è il senso attraverso cui incontriamo il mondo – spiega Crucianelli nel libro –, ci informa sulle forze fisiche che agiscono su di noi, ci permette di stabilire un contatto con gli altri, pur non implicando, e qui la specifica è di Lingiardi, che «tutti i contatti siano piacevoli e tutte le distanze siano rinunce». Il tatto, continua Crucianelli, ha poteri benefici, è fondamentale nella formazione dell’identità, può fare male e rappresentare uno strumento – anche politico – di trasformazione e lente attraverso cui leggere la società; a riguardo Crucianelli fa due esempi recenti ed emblematici come il #MeToo e il Covid, ma gli esempi in questo senso sono numerosi.
Di tatto ha scritto anche Federico Capitoni in un libro di alcuni anni fa, Toccare, uscito per Jaca Book, dove collocava il senso all’interno della storia della filosofia, partendo da prima della nascita: «Il tatto – scriveva – è il primo senso che l’essere umano sviluppa (già in embrione)». È da qui che nasce il ricordo della «memoria assoluta della pelle», diceva Andrés Neuman in Anatomia sensibile (Sur), ed è da qui che si sviluppano, secondo Crucianelli, tutte le funzioni del tatto, tra cui quella comunicativa, nonché le implicazioni psicosociali dello studio del tatto per la nostra salute mentale, ovvero la «fame tattile», la pervasività della solitudine nel mondo occidentale e il tema del consenso: «È essenziale – scrive Crucianelli – promuovere un uso appropriato del contatto fisico, rispettando i confini personali, comunicando chiaramente e promuovendo un’educazione sul tatto e sulle abilità di comunicazione non verbale. Solo attraverso queste misure possiamo favorire relazioni più soddisfacenti, connessioni emotive più profonde e una maggiore coesione sociale», poiché il contatto fisico ha il potere di influenzare il nostro sistema nervoso e promuovere un corretto funzionamento del sistema immunitario.
«Nei momenti più fragili delle nostre vite – scrive ancora Crucianelli –, abbiamo bisogno del tocco più che mai», e non lo dice come una frase fatta, ma partendo da alcuni studi sulla deprivazione tattile nello sviluppo umano fin dall’infanzia, dove le influenze sulla formazione sono evidenti, nonostante spesso alla domanda su quale potrebbe essere il senso a cui saremmo disposti a rinunciare, rispondiamo che sarebbe il tatto, sottovalutando ciò che andrebbe a significare per le nostre vite, dando per scontate molte cose della nostra quotidianità; il tatto infatti permette di svolgere attività come muoverci, mantenere l’equilibrio, prenderci cura, di noi stessi e degli altri.
Il nucleo del libro di Crucianelli è forse proprio in questo passaggio sulla cura, quindi sul significato di reciprocità che rappresenta il tatto, «a partire dall’esperienza dell’abbraccio, la situazione tattile per eccellenza», per poi passare dal solletico e dalle relazioni romantiche. Toccare ed essere toccati, dice Crucianelli, sono atti diversi, con fattori in gioco differenti, sia biologici che sociali, anche di regolazione emotiva. In poche parole –(così chiude ogni capitolo Crucianelli) – «il tatto è l’unica lingua che parliamo tutti in modo istintivo, senza neanche accorgercene. È una caratteristica che ci unisce nella diversità, che ci rende tutti uguali nella disuguaglianza», pur con le dovute differenze culturali, geografiche, umane, climatiche, religiose, relazionali, perché il tatto è un «linguaggio sensoriale che parla direttamente al cuore e all’anima delle persone», permettendoci di comunicare gioia, amore, affetto, rabbia, tristezza, solidarietà. Insomma, di essere umani.