domenica 20 febbraio 2022

L'alba magica di un talento / Somerset Maugham

 




L’ALBA MAGICA DI UN TALENTO:
WILLIAM SOMERSET MAUGHAM




Nel 1908, il trentaquattrenne medico William Somerset Maugham era ancora considerato un giovane scrittore britannico, ma poteva vantare alcuni titoli ben accolti dalla critica. In questi si potevano difatti già intuire le qualità che lo avrebbero portato, di lì a pochi anni, a quel 1915 in cui avrebbe dato alle stampe Schiavo d’amore, il suo primo successo mondiale, che gli diede una fama duratura.
In questo arco temporale però in Europa si è aperto un baratro, quell’abisso culturale, politico e umanitario senza precedenti che è stata la Prima guerra mondiale, durante la quale la cura per gli altri, prima ancora della scrittura, accompagnò Somerset Maugham in prima linea con le ambulanze della Croce Rossa. In quel 1908 intanto, quando ancora la guerra sembrava solo un’ipotesi lontana, scrisse un romanzo in cui il lettore lo scopre già assediato dalle inquietudini che avrebbero caratterizzato gli anni seguenti, ma che nel contempo è alquanto eterodosso rispetto a quello che poi diventerà il suo standard e che nei decenni successivi fu alla radice della sua fortuna letteraria. Il romanzo si intitola Il mago, e racconta delle esperienze dell’autore nel mondo nebbioso dei sensitivi e delle scienze occulte che ebbe occasione di frequentare nella capitale francese.



Maugham durante un soggiorno parigino, città in cui si svolge buona parte del racconto, conobbe realmente Aleister Crowley, alla cui figura si ispira quella del mago Oliver Haddo, personaggio a cui fa riferimento il titolo del romanzo. Il nesso risultò così evidente che lo stesso Crowley scrisse una feroce stroncatura, firmandosi proprio con lo pseudonimo di Oliver Haddo, ed elencando nel suo articolo i testi esoterici e magici a cui si sarebbe ispirato Maugham, d’altro canto effettivamente citati nel romanzo, come per esempio quelli di Eliphas Levi, un occultista piuttosto noto nelle capitali europee negli ultimi decenni dell’Ottocento, e ancora oggi considerato un passaggio imprescindibile da chi studia le arti oscure. Il romanzo venne anche adattato per una versione cinematografica diretta da Rex Ingram nel 1926.
Alter ego dell’autore è probabilmente il giovane protagonista, Arthur Burdon, medico come Maugham e pregno del valore scientifico della sua attività, oltre che delle virtù umanitarie in essa incarnate. Burdon, in quanto scienziato considera una missione combattere la superstizione che vede incarnata in Haddo, ma nella sua relazione con la giovane Margaret è lui stesso a rendersi conto di quanto la sua razionalità, mescolata a uno scetticismo critico usato come metodo nelle scelte e nelle decisioni, sia incapace di comprendere i sentimenti di chi gli vive accanto. A fianco di questi due uomini, maschi adulti, ruota una costellazione di figure quasi tutte femminili, in una sorta di piece teatrale che si avvita sempre più su sé stessa, come fosse una sceneggiatura hitchcockiana.
Le specifiche di genere in questo caso sono essenziali, perché agli occhi del giovane scrittore, influenzato dalle sue esperienze omosessuali, il conflitto tra i due giovani maschi qui viene descritto come si trattasse di una ricerca di etologia e assume le caratteristiche di una battaglia epica, trasformando la contesa in una sorta di Iliade e i due attori in Ettore e Achille, dove Haddo e Arthur incarnano luce e ombra, bene e male, la ragione e la follia, apollineo e dionisiaco, la società civile e chi – per natura o per cultura – ne sta ai margini.

William Somerset Maugham (Parigi, 25 gennaio 1874 – Saint-Jean-Cap-Ferrat, 16 dicembre 1965).


Un orizzonte culturale in discussione
Sembrerebbe fin troppo facile intuire il cammino indicato dall’autore tenendo conto di quanto si è detto, ma questa identificazione manichea che viene presentata al lettore, procedendo nella lettura si rivela presto decisamente troppo semplice e lineare, e difatti Somerset Maugham mina e disgrega le certezze ottocentesche e positiviste, raccontando come da un lato Haddo il ciarlatano si trasformi, incarnando la follia e la hybris dello scienziato, in una sorta di Frankenstein in cui però predomina la componente umana, con le tristezze, le debolezze e i desideri spesso poco elevati che ogni uomo porta con se, e dall’altro Arthur, l’uomo di scienza, razionale e illuminista, scopre di poter accedere a elementi della sua umanità che forse non avrebbe voluto nemmeno conoscere.
Haddo incarna la decadenza tardo impero, come un Basileus bizantino, e difatti propone una immagine di sé come fosse un principe orientale, che viaggia con una corte di ipocriti adoratori, organizza feste sontuose, orge e baccanali, seppellendo di gioielli e denaro i suoi adepti. Haddo è padrone delle arti della seduzione ed è figlio di un mondo lontano dal ragionevole occidente coloniale, di cui comprende e sfrutta il bisogno di evasione e trasgressione. I temi che emergono da queste figure, il colonialismo, un certo machismo, e il modo in cui questi vengono descritti da Somerset Maugham, richiederebbero una lunga trattazione e non si prestano a essere decifrati in uno spazio ristretto. Senza dubbio però si può ricordare come sia la sua vita che la sua scrittura furono preda di una continua oscillazione tra questi mondi lontani. Da un lato l’India, la Malesia e le isole del Pacifico, luoghi che frequentò a lungo, sia nei suoi viaggi che per lavoro e spesso al centro di suoi romanzi, e dall’altro la natia Europa, che per lui significava forse più la Francia che la Gran Bretagna. Certamente non vi è nella sua opera una critica e una presa di coscienza del ruolo devastante che l’Occidente ha avuto nei confronti dei paesi colonizzati, ma il suo non è nemmeno lo sguardo superiore proprio dell’Occidente.

Ivan Petrovich e Alice Terry: gli interpreti dei personaggi di Arthur Burdon e Margaret Daunceu nel film The Magiacian, diretto da diretta da Rex Ingram nel 1926.

Somerset Maugham è in ogni riga conscio dei limiti subiti dalle forme in cui l’Occidente si esprime, sia che si parli di arte come di scienza, di morale come di poesia. Difatti, se la critica alla lettura scientifica e positivista del mondo è evidente e continua, certamente all’arte non è riservato un trattamento migliore, ed è in diversi passaggi messa alla berlina e ridotta alla sua dimensione sociale, dimenticando completamente, con atteggiamento per lo meno cinico, la sua capacità di leggere il mondo. D’altronde Margaret, che pure viene presentata come pittrice e amante dell’arte, dimentica completamente questa sua passione, che scopre assolutamente inutile, di fronte all’abisso etico che le rappresenta Haddo. Analogamente il complesso rapporto che Somerset Maugham intrattiene con la sessualità, fuori e dentro le relazioni di coppia, meriterebbe un approfondimento, certamente non moralistico, ma collegato piuttosto alla sua produzione artistica, nella quale lo scrittore ha ampiamente seminato tracce e indicazioni.

Un vuoto editoriale italiano
Purtroppo, in Italia, malgrado l’encomiabile lavoro di Adelphi, che continua a proporre nuove pubblicazioni delle opere narrative, sono ancora completamente assenti dai cataloghi volumi di letteratura critica, così come testi biografici, nonostante la presenza in lingua originale di volumi assolutamente esaustivi.
Nel romanzo in questione la scrittura di Maugham, seppur ancora in formazione, è uno degli esempi migliori della perfezione stilistica raggiunta dalla narrativa anglosassone tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Il fatto che sia un’opera considerata giovanile va sottolineato proprio alla luce del fatto che vi si possono individuare elementi e tematiche che hanno poi accompagnato l’autore per tutta la sua vita artistica. È d’altro canto anche vero che lo stesso autore, in una intervista di oltre cinquant’anni dopo, forse con una dose eccessiva di autocritica, lo ha definito un romanzo ampolloso e non si è riconosciuto nella sua stessa scrittura.

Paul Wegener nei panni di Oliver Haddo (dal film The Magiciam di Rex Ingram).

La qualità della scrittura si mostra pienamente già dal secondo capitolo, dove assistiamo alla presentazione della coppia protagonista – Arthur e Margaret – insieme a Susan Boyd, la seconda donna la cui storia attraversa il romanzo. I due sono a tavola a prendere il the, ovvero quanto di più semplice e poco affascinante possa capitare in un pomeriggio parigino d’estate, eppure la descrizione che ne fa l’autore, connessa con le considerazioni umane e psicologiche che gli sono facilitate dallo sguardo onnipotente del narratore, trasforma una situazione banale e scontata in una visione vivida e carica di aspettativa per quanto potrebbe seguirne.
Nel corso di poche decine di pagine difatti questa borghese tranquillità familiare si trasforma in una sorta di incubo sociale dove si realizzano i peggiori timori legati alla decadenza e alla crisi di un mondo illuminato e posto di fronte alla stessa scomparsa di Dio. È difatti la protagonista, nel corso della sua più profonda crisi interiore, a denunciare l’abbandono di Dio, la scomparsa di quel supporto e di quel piedistallo su cui si reggeva la società inglese, e ad ammettere senza alcuna remora la sconfitta subita dalla sua educazione, dalla sua cultura e dalla sua morale di fronte al mondo gratificante propostole in alternativa.

“Il suo cuore gridava che Dio l’aveva abbandonata. Era sola, in terra straniera. Il male era ovunque intorno a lei, e in quelle cerimonie non trovava alcun conforto. Cosa poteva aspettarsi quando il Dio dei suoi padri l’aveva abbandonata al suo destino? […] Si sentiva completamente perduta. Mentre percorreva la strada interminabile che la portava a casa, era scossa dai singhiozzi. «Dio mi ha abbandonato» ripeteva. «Dio mi ha abbandonato»”.

Procedendo sempre più nella lettura, emerge come la dimensione psicologica, così come la lettura epistemologica, pur essendo presenti e chiaramente volute dall’autore, non sono le uniche possibili. I personaggi vengono surdeterminati, usando una sorta di chiave metaforica per cui gli eventi si aprono a una visione epocale.
Il personaggio del Dottor Porhoët, figura che resta sullo sfondo per buona parte del romanzo, è la personificazione di un sapere profondo e filosofico, che – passo dopo passo – si accosta e si addentra nell’abisso delle arti oscure praticate da Haddo. Medico come Arthur legge però Paracelso, conosce i mistici arabi e la cultura orientale, il mondo degli antichi e del passato, di cui lui è figlio, così come il lettore e l’intera cultura occidentale che lui incarna, e il suo sapere si rivela essenziale per affrontare il dramma in corso.

“Queste storie pian piano si ridussero a un’unica mostruosa affermazione: Haddo stava cercando di creare degli esseri viventi”.

La hybris di Haddo, qui svelata, è conosciuta sin dalle origini della storia umana, e rappresenta il più noto dei conflitti che si sono svolti sul confine tra i due mondi, la creazione dell’Homunculus, così come del Golem, e dello stesso Frankenstein, ovvero il sentirsi come dei. Porhoët, ovvero la filosofia, insieme a Burdon, la scienza, e a Margaret, ovvero l’arte, tentano di opporsi alla decadenza e alla fine di un mondo, alla catastrofe incombente che all’inizio del Novecento in molte nazioni d’Europa viene vista come una possibilità concreta, evidentemente nel romanzo personificata da Haddo e dal suo oscuro sapere.

La silhouette del mago Oliver Haddo.

Eppure, qui non si svela una finzione, non siamo nel mondo dell’illusione, del teatro, non siamo sulla scena. Haddo è osceno, è l’eccesso, è reale, così come il suo potere, ed in ciò stanno la sua forza e la sua vittoria, seppur nella sconfitta. La comprensione della buona volontà dei singoli, così come dell’inevitabilità del male, rendono perciò l’impasse etico di Somerset Maughan inevitabile, rinchiudendolo nella condizione dell’osservatore, da cui non uscirà mai, regalandoci però – dal suo punto di vista privilegiato – alcune visioni impareggiabili della bellezza raggiungibile da un essere umano.


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venerdì 4 febbraio 2022

martedì 1 febbraio 2022

Paul Auster, lo scrittore simbolo di Brooklyn che insegue le coincidenze della vita

 


Paul Auster nell'illustrazione di Pia Taccone


Paul Auster, lo scrittore simbolo di Brooklyn che insegue le coincidenze della vita

Intellettuale elegante, ma accessibile e scrittore d'avanguardia che abbraccia un pubblico mainstream. Con Lou Reed e Woody Allen, è uno dei simboli di NY

Gotham's Writersdi Michele Crescenzo


23 Mag 2021
Con i suoi vestiti neri e la sua esperienza nella poesia francese, il suo amore per Samuel Beckett e le incursioni nel cinema indipendente, Auster ha pubblicato diciotto romanzi più diversi libri di poesia, saggistica e opere cinematografiche. Vive in un bell'edificio in pietra calcarea di inizio secolo, il tipo di casa a schiera che rende Park Slope uno dei migliori quartieri di Brooklyn

Paul Auster

1980, Brooklyn. Paul Auster è seduto alla scrivania sotto due lampade accese. Le tende delle finestre sono chiuse giorno e notte. Preferisce scrivere sulla sua Olympia accanto alle decorazioni sulle tele che al muro di mattoni davanti casa. Sospira. Sono ormai diversi anni che è tornato dalla Francia e ha pubblicato solo una raccolta di poesie. In Europa ha lavorato con la scrittrice Lydia Davis come critico e traduttore, hanno avuto la convinzione che la loro povertà fosse romantica fino a quando la situazione non è diventata disperata. Sono tornati negli Stati Uniti con nove dollari ma questo non ha evitato di sposarsi nel 1974 e di divorziare nel 1977.

Squilla il telefono, la voce di un uomo con un forte accento spagnolo chiede se quella fosse l’agenzia Pinkerton. Paul Auster dice di no e attacca. Lo stesso uomo richiama il giorno dopo e chiede di nuovo della stessa agenzia investigativa. Lui ribadisce che ha sbagliato numero ma subito dopo inizia a immaginare cosa sarebbe successo se avesse impersonificato un investigatore privato e si fosse offerto di occuparsi di un caso. Inizia, così, a scrivere la storia di uno scrittore solitario di nome Quinn che, in tre notti diverse, riceve una telefonata da un uomo che cerca “Paul Auster. Dell’agenzia investigativa Auster”.

Le prime due volte, Quinn dice semplicemente all’uomo che ha composto il numero sbagliato, ma la terza notte finge di essere Paul Auster, investigatore privato. Quello che segue è “City of Glass” la prima parte di The New York Trilogy (La trilogia di New York, Rizzoli, 1987 – Einaudi, 1996 trad. di Massimo Bocchiola) una antologia di tre romanzi brevi pubblicati dal 1985 al 1986 che hanno fanno conoscere Auster come un autore originale che oscilla tra tradizione e innovazione.  Trilogia di New York è ambientato in una città allucinata, in cui tutto si confonde e sfuma. La prima parte, ‘City of Glass’, è un thriller poliziesco e psicologico. “Ghosts” – la seconda storia – è l’inquietante storia di un uomo costretto a pedinare sé stesso. La parte conclusiva, “The Locked Room”, è l’autobiografia di un autore letterario scomparso. Jan Kjærstad, scrittore e critico norvegese, l’ha descritto come un “cristallo che rifrange la luce in colori che raramente sono stati visti prima”. L’Enciclopedia Treccani ha definito l’opera come una parodia postmoderna del romanzo poliziesco, la trilogia scardina le convenzioni del genere, mescolando echi della grande tradizione americana (N. Hawthorne, H. D. Thoreau, E. A. Poe, H. Melville) a suggestioni del nouveau roman, per costruire un universo, sia narrativo sia urbano, dominato dal caso.

Il romanzo ebbe un successo europeo prima che statunitense. Quando uscì in Inghilterra nel novembre 1987, la prima tiratura di cinquemila copie andò esaurita in una settimana ed è stato subito osannato in Francia. È stato meno celebrato nel suo paese d’origine, anche se la situazione è cambiata quando, a metà degli anni novanta, ha realizzato, con Wayne Wang, il film “Smoke”. Si cominciò allora a prestare maggiore attenzione ai suoi delicati e ponderati lavori come The Music of Chance (La musica del caso, Guanda, 1990 – Einaudi, 2009, trad. di Massimo Birattari) Leviatano (Leviatano, Guanda, 1995 – Einaudi, 2003, trad. di Eva Kampmann) e Mr. Vertigo (Mr. Vertigo, 1994 trad. di Susanna Basso)

Con i suoi vestiti neri e la sua esperienza nella poesia francese, il suo amore per Samuel Beckett e le incursioni nel cinema indipendente, Auster è diventato presto un intellettuale elegante ma accessibile, un tipo di scrittore d’avanguardia che abbraccia un pubblico mainstream. Insieme a Lou Reed e Woody Allen, è oggi uno dei simboli di New York, così tanto che hanno proposto a lui e alla seconda moglie – la scrittrice di origini norvegesi Siri Hustvedt – di girare uno spot pubblicitario per Gap ma lui ha rifiutato. “Non mi piace la pubblicità”, ha spiegato al the Guardian.

“Il risultato del suo lavoro è quello di costruire un’architettura narrativa tradizionale con interni decisamente moderni” dice Don DeLillo, autore newyorkese e grande di Paul Auster, talmente tanto che quest’ultimo gli ha dedicato “Leviathan”. Tra i due c’è una reciproca influenza letteraria, in “Mao II“, ad esempio, uno scrittore solitario afferma “anni fa pensavo che fosse possibile per un romanziere alterare la vita interiore della cultura. Ora i fabbricanti di bombe e gli uomini armati hanno conquistato quel territorio”; questa osservazione potrebbe essere il motto segreto di “Leviathan”, il libro inizia infatti con la notizia che un uomo di nome Benjamin Sachs, un romanziere, è stato fatto a pezzi da una bomba che stava assemblando.

Diversi sono i temi ricorrenti usati dall’autore americano (su wikipedia c’è perfino una lista) come l’ambientazione a Brooklyn, la presenza di uno scrittore ossessivo come personaggio centrale e l’assenza del padre ma quello più ricorrente nella sua vita come nelle sue opere è sicuramente “la coincidenza”. Questo tema è presente sia nei romanzi Moon Palace (Einaudi, 2007, trad. di Mario Biondi) The Music of Chance  e Leviathan che nella sua vita, tanto che Paul Auster ha raccolto nel libro Experiment In Truth (Esperimento di verità Einaudi, 2001, trad. di Massimo Bocchiola) e The Red Notebook (Il taccuino rosso, Einaudi 2013, trad. di Magiù Viardo) alcuni racconti dove il caso ha condizionato eventi realmente accaduti. Le storie riguardano incredibili coincidenze (avvenute sia all’autore che a suoi amici) che sbalordiscono il lettore. “Il caso fa parte della nostra realtà: siamo continuamente plasmati dalle forze della coincidenza, l’imprevisto si verifica con una regolarità quasi paralizzante in tutto le nostre vite” afferma Paul Auster in un’intervista su jstor.

Quando Paul Auster aveva cinquant’anni, e dopo aver sofferto alcuni periodi di cattiva salute, scrisse una serie di libri incentrati sul rapporto con la morte e i suoi fantasmi come Timbuktu (Einaudi, 1999, trad. di Massimo Bocchiola) The Book of Illusions, (Il libro delle illusioni, Einaudi, 2003, trad. di Massimo Bocchiola) e Oracle Night (La notte dell’oracolo, Einaudi, 2004, trad. di Massimo Bocchiola)

Durante i suoi sessanta anni, invece, Auster ha scritto del suo passato, sia nei suoi romanzi come Invisible (Einaudi, 2009, trad. di Massimo Bocchiola) che racconta la storia di uno studente della Columbia alla fine degli anni ’60 (Auster studiava lì propri in quel periodo) sia attraverso due saggi come Winter Journal (Diario d’inverno, Einaudi, 2012, trad. di Massimo Bocchiola) e Report from the Interior (Notizie dall’interno, Einaudi, 2013, trad. di Monica Pareschi) dove rievoca le sensazioni e gli avvenimenti della sua infanzia.

“Penso che quei due libri abbiano gettato le basi per il mio ultimo romanzo 4321(Einaudi, 2017, trad. di Cristiana Mennella)” dice al the Guardian e racconta nella stessa intervista che quando aveva invece quattordici anni, un ragazzo a pochi centimetri da lui fu ucciso colpito da un fulmine. “È qualcosa che non ho mai superato”, afferma “eravamo al campo estivo colti da una tempesta elettrica nel bosco. Qualcuno ha detto che dovevamo raggiungere una radura e dovevamo strisciare, in fila indiana, sotto una recinzione di filo spinato. Un fulmine colpì la recinzione mentre il ragazzo immediatamente avanti a me la stava oltrepassando. La mia testa era proprio vicino ai suoi piedi. Non mi resi conto che il ragazzo era morto sul colpo così l’ho trascinato nella radura”.

Se il fulmine fosse caduto solo pochi secondi dopo, sarebbe stato lui a morire. “Sono sempre stato ossessionato da quello che è successo, dalla sua totale casualità”, dice. “Penso che sia stato il giorno più importante della mia vita.” Un incidente simile si verifica nell’ultimo romanzo di Auster, 4321. Archie Ferguson, un tredicenne pieno di promesse, affascinato da The Catcher in the Rye di J.D. Salinger e dai suoi primi baci, corre sotto un albero durante una tempesta al campo estivo. Quando un fulmine lo colpisce e viene ucciso da un ramo che cade. Ma questo è il destino di solo uno dei quattro Archie Ferguson nel romanzo. La narrativa di Auster ha sempre esplorato i momenti in cui le vite, grazie al caso e alle circostanze, prendono direzioni diverse, e nel 4321 questa idea viene presentata nella sua forma più pura. Il romanzo inizia con la nascita di Ferguson il 3 marzo 1947 da Stanley, che gestisce un negozio di elettrodomestici a Newark, New Jersey, e Rose, che lavora per un fotografo. Quelle che seguono sono quattro versioni della storia di Ferguson. I quattro Archie hanno lo stesso punto di partenza (gli stessi genitori, gli stessi corpi e lo stesso materiale genetico) ma, mentre attraversano l’infanzia e l’adolescenza, prendono strade divergenti. Ogni Ferguson vive in una diversa città del New Jersey e ha una diversa configurazione di famiglia e amici. Man mano che le loro storie si svolgono in capitoli a rotazione, diventano persone sempre più distinte: si sente l’influenza del denaro, o la sua mancanza; divorzio; formazione scolastica; e tutti gli altri fattori che determinano le prime vite. Auster presenta quattro ritratti dettagliati dell’intensità della giovinezza – di imbarazzo e frustrazione, ma anche di passione per i libri, i film, lo sport, la politica e il sesso. Tutti gli Archie sono pieni di intelligenza e tutti sono aspiranti scrittori. Tutti si innamorano dell’accattivante Amy Schneiderman, anche se ogni relazione si svolge in modo diverso. Un Ferguson ha un incidente d’auto e perde le dita, uno è bisessuale, un altro ha un amico che muore improvvisamente.  Paul Auster lo descrive come il “romanzo più realistico che abbia scritto”. Ha iniziato a scrivere 4321 all’età di 66 anni, l’età in cui suo padre è morto improvvisamente. Il pensiero che anche lui potesse morire lo fece lavorare in fretta, finendo il romanzo di 866 pagine in tre anni e mezzo invece dei cinque previsti.

Paul Auster oggi ha pubblicato diciotto romanzi più diversi libri di poesia, saggistica e opere cinematografiche come SmokeBlue in the Face e Lulu on the Bridge. Vive in un bell’edificio in pietra calcarea di inizio secolo, il tipo di casa a schiera che rende Park Slope uno dei migliori quartieri di Brooklyn. L’appartamento è al terzo piano ed ha finiture in legno e soffitti alti. L’autore ama sedersi sulla sua poltrona a raccontare storie agli amici o parenti. Racconta spesso che ha iniziato a fare lo scrittore il giorno in cui, all’età di otto anni, incontrò il suo eroe del baseball Willie Mays a una partita dei New York Giants e, raccogliendo tutto il suo coraggio, gli chiese un autografo. Ma né suo padre né sua madre avevano una matita, e alla fine il giocatore scrollò le spalle e se ne andò. Auster era disperato e da quel giorno – così ha dichiarato al Columbia Magazine  – non uscì più di casa senza una matita: “Se hai una matita in tasca, c’è una buona probabilità che un giorno inizierai ad usarla.” Ma la storia che preferisce è su una chiamata avuta dopo il successo di Trilogia di New York, quando al telefono una voce con un forte accento spagnolo ha chiesto del signor Quinn. “Ho pensato che fosse una specie di scherzo” racconta al New York Time  “Niente affatto – l’uomo era serio. Così ho preso il mio taccuino. Poteva trasformarsi in una buona storia”

LA VOCE DI NEW YORK