lunedì 28 settembre 2020
martedì 22 settembre 2020
Umberto Eco / Introduzione al Medioevo / Barbari, cristiani e musulmani
Medioevo, periodo compreso fra la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476) e la scoperta dell’America (1492) |
Introduzione al Medioevo di Umberto Eco
Barbari, cristiani e musulmani
Una introduzione al Medioevo, per non avere la stessa lunghezza dei volumi che introduce, dovrebbe limitarsi a dire che il Medioevo è il periodo che, iniziando mentre l’Impero romano si dissolve, fondendo la cultura latina con quella dei popoli che hanno gradatamente invaso l’impero, con il cristianesimo come collante, dà vita a quella che chiamiamo oggi Europa, con le sue nazioni, le lingue che ancora parliamo, e le istituzioni che, sia pure attraverso cambiamenti e rivoluzioni, sono ancora le nostre. Troppo, e troppo poco. Siccome sul Medioevo pesano molti stereotipi, sarà anzitutto opportuno precisare che il Medioevo non è quello che il lettore comune pensa, che molti affrettati manuali scolastici gli hanno fatto credere, che cinema o televisione gli hanno presentato. E dunque per prima cosa si dovrà dire (I) che cosa il Medioevo non è. In seguito ci si deve chiedere (II) che cosa il Medioevo ci ha lasciato, che sia attuale anche oggi. E infine (III) in che senso esso è stato qualcosa di radicalmente diverso dai tempi in cui viviamo.
Che cosa il Medioevo non è
Il Medioevo non è un secolo. Non è un secolo, come il Cinquecento o il Seicento, né un periodo preciso dalle caratteristiche riconoscibili, come il Rinascimento, il Barocco o il Romanticismo. È una serie di secoli che è stata così definita per la prima volta da un umanista, Flavio Biondo, vissuto nel XV secolo. Biondo, come tutti gli umanisti, auspicava un ritorno alla cultura dell’Antichità classica, e poneva per così dire tra parentesi quei secoli (che egli intendeva come epoca di decadenza) intercorsi tra la caduta dell’Impero romano (476) e i tempi suoi – anche se la sorte ha voluto che alla fine Flavio Biondo appartenesse anch’egli al Medioevo, dato che è morto nel 1463 mentre convenzionalmente la fine del Medioevo è stata fissata al 1492, anno della scoperta dell’America e della cacciata dei Mori dalla Spagna.
1492 meno 476 fa 1016. Mille e 16 anni sono molti ed è difficile credere che in un periodo così lungo, nel corso del quale sono occorsi molteplici eventi storici di cui si studia anche a scuola – (dalle invasioni barbariche alla rinascenza carolingia e al feudalesimo, dall’espansione araba alla nascita delle monarchie europee, dalle lotte tra Chiesa e Impero alle crociate, da Marco Polo a Cristoforo Colombo, da Dante alla conquista turca di Costantinopoli) –, il modo di vivere e di pensare sia rimasto sempre lo stesso.
Un esperimento interessante è chiedere a una persona anche colta (che non sia naturalmente un esperto di cose medievali) quanti anni intercorrono tra sant’Agostino, considerato il primo dei pensatori medievali, anche se muore prima della caduta dell’Impero romano, e san Tommaso – visto che entrambi vengono studiati anche a scuola come massimi rappresentanti del pensiero cristiano. Ebbene, non molti azzardano la cifra reale, che è otto secoli, almeno quanti separano san Tommaso da noi.
In otto secoli possono succedere molte cose, anche se allora le cose procedevano con maggior lentezza che ai tempi nostri. Per questo il Medioevo è, e ci si scusa per la tautologia, un evo, come l’Evo antico o l’Evo moderno. Il cosiddetto Evo antico, ovvero l’Antichità classica, è una serie di secoli che va dai primi aedi pre-omerici ai poeti del basso Impero latino, dai presocratici agli stoici, da Platone a Plotino, dalla caduta di Troia alla caduta di Roma. Parimenti l’Evo moderno va dal Rinascimento alla Rivoluzione francese, e ne fan parte sia Raffaello che Tiepolo, sia Leonardo che l’Encyclopedie, sia Pico della Mirandola che Vico, sia Palestrina che Mozart.
Quindi bisogna avvicinarsi alla storia del Medioevo con la persuasione che di medioevi ce ne siano stati molti, e se non altro attenersi a un’altra datazione, anch’essa troppo rigida, ma che almeno tiene conto di alcune svolte storiche. Così si suole distinguere l’alto Medioevo, che va dalla caduta dell’Impero romano all’anno Mille (o almeno a Carlo Magno), un Medioevo di mezzo, che è quello della cosiddetta rinascita dopo il Mille, e infine un basso Medioevo che, malgrado le connotazioni negative che un termine come “basso” può suggerire, è l’epoca gloriosa in cui Dante finisce la Commedia, scrivono Petrarca (1304-1374) e Boccaccio (1313-1375) e fiorisce l’umanesimo fiorentino.
Il Medioevo non è solo un periodo della civiltà europea. Per intanto vi è il Medioevo occidentale e quello dell’Impero d’Oriente, che rimane ancora vivo tra gli splendori di Bisanzio, per 1000 anni dopo la caduta di Roma. Negli stessi secoli fiorisce una grande civiltà araba, mentre in Europa circola, più o meno clandestina, ma vivacissima, una cultura ebraica. I confini tra queste diverse tradizioni culturali non erano così marcati come li si pensa oggi (quando predomina l’immagine dello scontro tra musulmani e cristiani nel corso delle crociate). La filosofia europea conosce Aristotele e altri autori greci anche attraverso la mediazione delle traduzioni arabe, e dell’esperienza araba si avvale la medicina occidentale. I rapporti tra sapienti cristiani e sapienti ebrei, anche se non proclamati ad alta voce, sono frequenti.
Tuttavia quello che caratterizza il Medioevo occidentale è la sua tendenza a risolvere ogni apporto culturale di altre epoche o civiltà in termini cristiani. Quando si discute oggi se citare nella costituzione europea le radici cristiane dell’Europa, si obietta giustamente che l’Europa ha avuto anche radici greco-romane, radici giudaiche (e basti pensare all’importanza della Bibbia) per non dire delle antiche civiltà pre-cristiane e quindi della mitologia celtica, germanica o scandinava. Ma certamente si deve parlare di radici cristiane per l’Europa medievale. Nel Medioevo tutto viene riletto e tradotto alla luce della nuova religione, sin dai tempi dei Padri della Chiesa. La Bibbia non sarà conosciuta che nella sua traduzione latina, la Vulgata di san Gerolamo (340/345-420), e in traduzioni latine saranno noti gli autori della filosofia greca, usati per dimostrare la loro convergenza coi principi della teologia cristiana (e ad altro non mira la monumentale sintesi filosofica di un Tommaso d’Aquino)... L'introduzione completa si può leggere nel primo volume della enciclopedia dedicato al Medioevo.
lunedì 21 settembre 2020
Un compasso per un cubo / Intervista a Ludovico Bomben
L. Bomben, Compasso a tre gambe, 2018, alluminio, cm 250 x 150 x 4 (variabili). Particolare. Ph Marco Diodà. |
Un compasso per un cubo
Intervista a Ludovico Bomben
L. Bomben, Studio per compasso a tre gambe, 2012, ottone e rame, cm 14 x 10. |
L. Bomben, Dardo, 2017, alluminio, cm 400 x 100 x 4. Particolare. Ph Marco Diodà |
L. Bomben, Pala 5 / Serie dei Bianchi / IL RE, 2013, corian, oro 24k e Mdf, cm 150 x 134 x 3. |
L. Bomben, Dardo, 2017, alluminio, cm 400 x 100 x 4. Ph Marco Diodà |
L. Bomben, Pala 5 / Serie dei Bianchi / IL RE, 2013, corian, oro 24k e Mdf, cm 150 x 134 x 3. Particolare. |
L. Bomben, Compasso a tre gambe, 2018, alluminio, cm 250 x 150 x 4 (variabili). Particolare. Ph Marco Diodà. |
L'agognato cubo di marmo del premio Cramum è stato vinto quest'anno dal pordenonese Ludovico Bomben grazie all'opera Compasso a tre gambe. Nella sezione about della pagina web personale dell'artista, si legge che Bomben, formatosi all'Accademia di Venezia, si è misurato inizialmente con istallazioni ambientali per poi rivolgere la propria ricerca verso gli oggetti, indagandoli dal punto di vista funzionale e formale. Si è occupato e si occupa altresì di grafica, progettazione e design. Per saperne di più su questo giovane promettente, abbiamo deciso di intervistarlo. Ecco cosa gli abbiamo chiesto.
Come nasce l'opera che ha vinto il 7° premio Cramum?
Compasso a tre gambe è un lavoro nato nel 2012 da una visione. Capita che mi raggiungano delle immagini, intuizioni di ʻcoseʼ, che io inseguo fino a che non si fanno più nitide. Così è stato per il mio compasso a tre gambe: la mattina mi sono svegliato con la necessità di produrne a mano un bozzetto. E quel bozzetto è rimasto nel mio studio per tre o quattro anni perché non capivo bene che cosa fosse, una scultura, un oggetto o qualcosa d'altro. Ho fatto delle ricerche e ho scoperto che il compasso è un oggetto carico di simbologie. Mi è parso subito necessario mettere da parte queste simbologie per lasciare in evidenza le sue caratteristiche principali: il fascino di strumento da disegno, il disegno come tramite per stabilire rotte e confini, lo studio della geometria, la precisione, il legame con la sezione aurea... tutti elementi già presenti nel mio modo di lavorare. Ho capito cosa fosse solo la prima volta che ne ho esposto uno: un oggetto che basta a se stesso, il baricentro della mia opera passata e futura. Così ho iniziato a produrre una serie di studi propedeutici, la cui vendita mi ha permesso di finanziare in parte l'opera vera e propria nelle dimensioni in cui me l'ero figurata (cm 250 x 150 x 4 variabili). L'ho presentata al premio Cramum e ...
E dal punto di vista della realizzazione ʻmaterialeʼ?
Per la realizzazione materiale mi sono servito di sofisticate tecniche di produzione industriale contemporanea, grazie alla collaborazione di due aziende del mio territorio, la Lavormec e la Corallo. La prima fase della realizzazione dell'opera è completamente a mio carico: io disegno l'oggetto in sezione aurea, lo trasformo in 3D con dei software specifici e a quel punto esporto le tavole dei pezzi e le consegno alle aziende che dovranno materializzarle. Anche se questa seconda fase non la compio fisicamente io, cerco sempre di presiederla. Nel caso del compasso, la Lavormec si è occupata della lavorazione meccanica (ad esempio, tornitura a controllo numerico e saldatura laser), mentre la Corallo della finitura. Vorrei soffermarmi in particolare su quest'ultimo passaggio: la finitura soft touch, che ho scelto per la mia opera, ha fatto sì che la superficie dall'alluminio del compasso risultasse opaca e assumesse l'aspetto di un velluto. Nella mia ricerca artistica la riflessione sulla natura dei materiali, sugli effetti di superficie, sulle modalità di assorbimento o di riflessione della luce è essenziale.
È la prima volta che stringi una collaborazione di questo tipo con un'azienda?
No, ho realizzato altre opere in precedenza con un modo di procedere analogo, appoggiandomi ad altre realtà artigianali e industriali di Pordenone. Voglio ricordare, ad esempio, la falegnameria De Vecchio, la Dform, la Theke, la Arrmobili. Per la documentazione fotografica, parte indispensabile del lavoro, collaboro con Marco Diodà e lo studio Auber. In sintesi, considero il legame con le aziende fondamentale. Ricordo che quando ero ragazzo giravo le zone industriali in cerca di scarti per realizzare le opere. Ora invece cerco collaborazioni ‘attive’ con le aziende che mi permettano di usufruire di tecnologie avanzate per la realizzazione delle mie opere.
Oltre al premio Cramum hai partecipato in passato ad altri concorsi che ti hanno dato particolari soddisfazioni?
Quando frequentavo ancora l'Accademia di Venezia ho preso parte alla 90a esposizione collettiva indetta dalla Fondazione Bevilacqua La Masa. Fu un momento significativo per me non solo perché vinsi il premio per l'innovazione con il mio video Olinda 70, ma perché ebbi la possibilità di venire a contatto con un'istituzione storica prestigiosa come la Fondazione. Avevo 23 anni ed era quanto di meglio potessi sperare. Poi c'è stato il Premio Fondazione Francesco Fabbri nel 2013 a cui partecipai con la mia prima opera della serie dei bianchi, Il Re, in corian e oro, che mi venne prodotta gratuitamente dall'azienda De Vecchio. La soddisfazione fu di vedermi assegnato il premio Acquisto Rotary Club che mi permise, in qualche modo, di dimostrare che la fiducia riconosciutami dalla falegnameria era ben riposta. Più recenti le mie partecipazioni al premio Ora e al premio Cairo. Nel primo caso mi si è offerta l'occasione di tenere presso la Galleria Marelia di Bergamo due importanti mostre personali, nel secondo di confrontarmi a Palazzo Reale con gli altri artisti emergenti del panorama contemporaneo italiano. In generale posso dire che da ognuna di queste esperienze ho tratto visibilità e nuovi contatti con artisti, critici, giornalisti, collezionisti e musei.
Ci parli di qualche altra tua opera?
Uhm... potrei parlare dell'opera Acquasantiera per introdurre un tema, quello del sacro, su cui sto lavorando nell'ambito di un progetto dal titolo Celeste. Acquasantiera è un oggetto in corian e ottone che ho realizzato nel 2015. Anche questa scultura deriva da una visione, una visione legata a uno dei primi gesti che un cristiano compie quando entra in chiesa: bagna la punta delle dita nell'acqua benedetta. È chiaramente un rimando al primo sacramento, il battesimo. Ma poche persone riflettono veramente su quello che stanno facendo, per questo la mia acquasantiera è un vaso tondo al cui centro spicca una acuminata punta di ottone: la punta catalizza i significati del battesimo e allerta il fedele affinché prenda coscienza che nulla di quello in cui crede può essere dato per scontato. Nell'intento di creare un'immagine sacra contemporanea ho lavorato molto sui materiali, sugli effetti visivi e tattili che volevo ottenere, e mi sono servito, anche in questo caso, di tecniche avanzate di lavorazione industriale per la produzione dell'opera. Ho scoperto che l'arte può armoniosamente coniugare sacro e tecnologico!
Progetti futuri?
Per il momento penso intensamente alla mostra che potrò tenere presso il civico museo-studio Francesco Messina a Milano grazie al premio Cramum. Non sarà una sfida semplice gestire una spazialità - per certi versi - insolita come quella dello studio e dialogare con l'opera del maestro catanese. Sono felice di lavorare al progetto insieme a Sabino Maria Frassà, il direttore artistico del premio Cramum, con cui spero di poter instaurare un dialogo proficuo e duraturo.
Appuntamento presso lo studio Francesco Messina allora?
Appuntamento presso lo studio Francesco Messina!
Francesca Panseri si è laureata in storia dell’arte all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove attualmente è cultore della materia in Museologia. Conduce ricerche sulla pittura e sul collezionismo tra Otto e Novecento. Ha una grande passione per la danza classica, il teatro e i libri.
Si dedica alla promozione della conoscenza della famiglia bergamasca dei Tasso, fondatrice del moderno sistema postale, ovvero della prima rete integrata di comunicazioni in Europa.
sabato 19 settembre 2020
Daniele Bongiovanni / Dalla figura alla pura forma
Daniele Bongiovanni, Natura dell’Indo Aest, 40×100 cm, tecniche miste su tela, 2018 |
Daniele Bongiovanni
Dalla figura alla pura forma
FRANCESCA PANSERI
Daniele Bongiovanni nasce nel 1986 a Palermo. Manifesta precocemente l’attitudine per il disegno e la pittura. Iscrittosi all’Accademia di Belle Arti della città, ottiene la laurea con una tesi su Kokoschka, artista a cui si sente fin da subito affine. Lo attrae la capacità, che è propria dell’Espressionismo austriaco, di riuscire a fondere tradizione e innovazione in un’opera artistica dall’alta carica comunicativa. Questa frequentazione lo porta inoltre a rigettare una distinzione rigida tra figurazione e astrazione. Proseguendo gli studi ha modo di approfondire la conoscenza del colore bianco di cui rintraccia usi e significati storici; comincia così un’interrogazione su questo colore che culmina nella recente serie Aesthetica in cui il bianco assurge a rappresentante simbolico della sua poetica. Consegue la laurea magistrale in Arti visive presso la stessa Accademia.
Daniele Bongiovanni, Exist (omnia), 100x70 cm, olio su tela, 2018, particolare |
Daniele Bongiovanni, Con Pura Forma, 200×200 cm, tecniche miste su tela, 2018 |
Daniele Bongiovanni, Laterale, 50x70 cm, olio su tela, 2018 |
Daniele Bongiovanni, Natura con Deus, 30x450 cm, tecniche miste su tavola, 2016, particolare |
Nel 2007, realizza alcuni dipinti liberamente ispirati al testo crociano Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale che espone nella sua prima personale, Liquido/Sophia, al MACIA (Museo d’Arte Contemporanea Italiana in America). L’opera The Line (Sophia) viene acquisita dal museo per la sua collezione permanente. A soli due anni da questo primo importante riconoscimento viene invitato a esporre, con la personale Collezione Pelle Sporca, all’interno del Padiglione Natura e Sogni della 53ma Biennale di Venezia.
Questa fase della ricerca di Bongiovanni è caratterizzata dalla ricorrente presenza del tema deformato del volto, da una forte accentuazione cromatica e da una pennellata corposa e vibrante, con evidenti suggestioni espressioniste e talvolta informali. Comincia per l’artista una stagione fertile di opere, esposizioni, viaggi. Risiede per due anni a Parigi dove conduce nuovi studi sulla figurazione classica e insiste nella sua sperimentazione al contempo concettuale e materica. Nel 2014 è presente all’Indipendent Liverpool Biennial curata da Simon Adam Yorke, alle rassegne dell’Istanbul Contemporary Art Museum ideate da Genco Gulan, a esposizioni in gallerie in Europa, Australia e America.
A partire dall’anno successivo Bongiovanni intraprende una rivoluzione interna alla propria pittura nel segno del bianco, della pura forma e della visione. Sfidando l’assunto platonico dell’arte come mimesis, tenta di dimostrare che l’arte stessa è idea, come a dire, è realtà, verità che passa per forza di visione, ovvero di penetrazione, dal creatore allo spettatore. Nascono le collezioni Aesthetica, Natural e De Nature, un florilegio di paesaggi tratteggiati a tinte tenui e inondati di bianco, traduzione oggettuale di “luoghi mentali” scaturiti da un’attività verbo-visuale di conoscenza del mondo. La monografica Mundus, a cura di Gregorio Rossi e Alessandro Rizzo, alla CD Arts Gallery di Lugano, con il patrocinio della Camera di Commercio Italiana per la Svizzera, prende il nome da una delle opere più emblematiche di questo secondo periodo, il trittico T.d.C (mundus). Segue la personale InEtere, a cura di Rebecca Russo, a Palazzo della Luce di Torino. Il 2017 è l’anno della sua seconda partecipazione alla Biennale di Venezia: espone Natura con Deus nel Padiglione La Marge. Si ricordino inoltre la personale Aesthetica Bianca all’Ambasciata d’Italia a Londra e la collettiva Videoinsight® Collection a cura di Paola Stroppiana al RISO - Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia.
In concomitanza con altre significative mostre in Italia e all’estero, le sue opere vengono nuovamente acquisite da note istituzioni pubbliche e private, tra cui la Fondazione Malvina Menegaz di Castelbasso, La Fondazione Aria di Pescara e le Ambasciate italiane di Londra, Helsinki, Abu Dhabi. Nel 2018 Bongiovanni partecipa all’esposizione Ricordi Futuri 3.0, curata da Ermanno Tedeschi e Flavia Alaimo, presso Palazzo Sant’Elia a Palermo. È sostenuto dalla penna di Claudio Strinati che cura la sua personale antologica Exist a Palazzo Broletto di Pavia e si confronta con alcuni grandi nomi italiani, come Isgrò e Balla, nella mostra La Regia Marina e la Grande Guerra - il Mare il Cielo la Terra e l’Arte, a cura di Giosuè Allegrini, al Museo Tecnico Navale M.M della Spezia. Prende parte poi al progetto sperimentale Macro Asilo diretto da Giorgio de Finis al MACRO - Museo d’Arte Contemporanea di Roma. Nel 2019 presso la Raffaella De Chirico Arte Contemporanea a Torino si tiene la personale Con Pura Forma, a cura di Francesco Poli.
Francesca Panseri si è laureata in storia dell’arte all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove attualmente è cultore della materia in Museologia. Conduce ricerche sulla pittura e sul collezionismo tra Otto e Novecento. Ha una grande passione per la danza classica, il teatro e i libri.
Si dedica alla promozione della conoscenza della famiglia bergamasca dei Tasso, fondatrice del moderno sistema postale, ovvero della prima rete integrata di comunicazioni in Europa.
giovedì 17 settembre 2020
John Steinbeck, a 50 anni dalla morte
John Steinbeck, a 50 anni dalla morte
di Centro documentazione Corriere
Un percorso di lettura tra gli articoli del Corriere dedicato all’autore di Uomini e topi
Il percorso muove dai reportage americani del 1938 di Emilio Cecchi, che consacra Steinbeck come uno dei più interessanti autori della sua generazione. Il romanzo «Furore» (1939) viene invece recensito da Guido Piovene , per il quale il senso del libro risiede nella descrizione «dell’assurda miseria in cui un capitalismo estremo e degenerato, quasi senza sua colpa, seguendo una china fatale, getta milioni di uomini».
L’attività di reporter e giornalista di Steinbeck è testimoniata dalla serie di corrispondenze dal Vietnam scritte nel 1966 per il quotidiano «Newsday» di cui il «Corriere» si assicurò l’esclusiva per l’Italia. Tra le pagine proposte i lettori troveranno anche gli articoli di Nanda Pivano, che contribuì insieme a Cesare Pavese a far conoscere Steinbeck al pubblico italiano.
mercoledì 16 settembre 2020
«Una grande storia d’amore» / Susanna Tamaro torna alla narrativa
Susanna Tamaro (Ulf Andersen) |
«Una grande storia d’amore»: Susanna Tamaro torna alla narrativa
Il 17 settembre esce per Solferino il nuovo romanzo della scrittrice: qui sotto il capitolo iniziale. Il 16 settembre l’intervista su Corriere.it con il direttore Luciano Fontana
di SUSANNA TAMARO
15 settembre 2020 (modifica il 15 settembre 2020 | 22:00)
Per due giorni ha piovuto ininterrottamente. Nubi basse, gonfie, cupe, scese come un manto a coprire l’orizzonte che si apre al di là del mare. La casa umida, il cuore stanco, il tempo passato sul divano davanti al camino a sfogliare libri che mi lasciavano indifferente.
Nel tardo pomeriggio, con il nostro vecchio ombrello dalle stecche rotte, sono andato a chiudere le galline nel pollaio. Non ho dovuto fare molta fatica, erano già tutte e quattro dentro, appollaiate sui loro posatoi.
Solo tornando verso casa mi sono accorto che a ovest, nella direzione in cui nei giorni limpidi scorgevamo la sagoma azzurrina della Corsica, il muraglione grigio si stava aprendo, due cumoli si erano separati e, nello spazio tra di loro, prima timidamente e poi con più baldanza, erano comparsi i raggi del sole; con lenta caparbietà avevano conquistato alla luce strati sempre più ampi del cielo. Nel tempo che ho impiegato per sistemare le ultime cose e chiudere le imposte, le nubi si sono sollevate come un pesante sipario di un teatro, lasciando intravedere dietro di sé la tinta delicatamente rosata che, al crepuscolo, preannunzia il ritorno del bel tempo. Contro quella speranza, i rami e i rametti ancora neri e nudi degli arbusti sembravano frasi di quella lingua per me misteriosa che tu tanto amavi decifrare.
Sono entrato in cucina: era fredda, da troppo tempo niente sfrigolava su quei fornelli. Mi sono fatto un tè, un toast farcito delle poche cose che c’erano in frigo. Con un piccolo vassoio ho raggiunto il divano, il grande ceppo aveva quasi finito di ardere; ne ho aggiunto un altro, soffiato un po’ con il mantice per rinfocolare le braci, poi mi sono lasciato cadere sui cuscini, ho acceso la tv e ho mangiato distrattamente il toast, mentre una carrellata di politici riversava le sue concioni irrilevanti nel silenzio della stanza.
Coperto solo da un plaid, mi sono addormentato.
Nella confusione astrusa dei sogni, a un certo punto sono comparse le tue amatissime arnie. Nessuna ape entrava, nessuna usciva, sembrava non ci fosse più vita all’interno. Da quanti mesi erano abbandonate a loro stesse? Da tanti, forse da troppi. In uno dei tanti brevi risvegli ho provato un piccolo rimorso. Dovrei occuparmene, mi sono detto, almeno provarci. Domani magari, ho pensato, se ci sarà il sole, sì… Poi l’intermittente sonno degli infelici ha confuso le carte, consegnandomi all’oscurità della notte.
Il giorno dopo il sole splendeva. La pioggia aveva fatto bene alle piante e al prato, il grigiore dell’inverno era ancora lì, ma già si vedeva l’incalzare primaverile del rinnovamento. Uno stelo più verde, sui rami il discreto ingrossarsi delle gemme da cui, a breve, sarebbero comparse le foglie. Ho atteso l’ora di pranzo, come tante volte ti avevo visto fare, ho controllato che non ci fosse neppure un alito di vento. Intanto pensavo con un certo timore a quelle strane scatole e al loro minaccioso contenuto.
Negli ultimi anni me ne parlavi in modo quasi ossessivo. Se avevamo degli ospiti, dopo un po’, con discrezione, ti interrompevo temendo che si annoiassero alle tue entusiastiche descrizioni del mondo degli imenotteri. Quando eravamo soli ogni tanto mi chiedevi: «Mi stai ascoltando?». E mentre annuivo con lo sguardo vago, tu come un’implacabile professoressa: «Allora ripetimi quello che ho detto!». A quel punto tentavo di barare, e lo facevo in modo così clamoroso da farti scoppiare a ridere. Ora sono pentito. Perché non ti ho ascoltato?
Forse perché, nella distrazione in cui spesso galleggio, fra tutti i pensieri possibili non era mai comparso questo: che tu te ne saresti andata e io sarei rimasto qui, nella nostra casa, a fare la vestale delle tue api.
Nella memoria emergevano frammenti, ma erano frammenti confusi, non avrei mai saputo metterli uno accanto all’altro, creando qualcosa che avesse senso. Avevo solo un’immagine chiara: tu che ti avvicinavi cantando piano, con voce calma, a quelle scatole e, prima di sollevare con una lunga leva il coperchio, bussavi dolcemente sulla parete di legno come ti trovassi davanti la porta della stanza dei bambini. «Posso?» chiedevi e solo dopo, con calma, scoperchiavi l’arnia. «Perché lo fai?» ti ho chiesto un giorno. «Perché è gentile farlo» mi hai risposto. «Gentile perché?» «Se tu vivessi nell’oscurità, non vorresti essere avvisato che sta per irrompere la luce?».
Quanti sono i modi in cui il vento può soffiare? E quanto silenzio può esserci in una casa in cui gli unici passi a risuonare sono i tuoi? Quando navighi e il vento sferza la barca, il suo ululato, diverso solo nell’intensità, ti avvolge ogni istante e, oltre alla tua voce, senti solo il tintinnio di tutto ciò che si muove. Quando invece un forte vento si abbatte sulla casa, sono le stanze a parlare: l’imposta che sbatte, gli infissi che cigolano, i rumori di una vita che balzano fuori da qualche luogo misterioso e ti danzano intorno con l’ossessiva fedeltà della memoria. Cos’è questo ronzio? Possibile che sia il frigorifero? E quella specie di sinistro lamento sarà il cardine della porta della soffitta che da troppo tempo devi oliare? O forse il monotono canto di un uccello notturno, lo scricchiolio delle assi del pavimento nella stanza accanto? Spalanchi la porta con fare burbero e gridi: «Chi è?». Ma l’unico a risponderti è ancora una volta il vento.
I morti abitano le case?
O è solo la nostra paura ad abitarle?
L’incontro al «Corriere» il 16 settembre e il 20 a Pordenonelegge
Una grande storia d’amore, di Susanna Tamaro, esce il 17 settembre per Solferino (pp. 288, e 17). Il 16 settembre l’autrice sarà a Milano, nella Sala Buzzati del «Corriere», intervistata dal direttore Luciano Fontana (ore 18.30, letture di Monica Ghisleri). L’incontro, chiuso al pubblico, sarà visibile in streaming sucorriere.it. Domenica 20 Tamaro sarà a Pordenonelegge (ore 10.30, Spazio Gabelli, letture di Lorenzo Zuffi). Alle 12 l’incontro sarà disponibile in video differita sulla PNlegge tv.
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Andrea e Edith: la forza di due anime intrecciate
Di quanti strati è fatta la vita? Di uno, di due, di dieci, di cento? Una volta, durante una delle nostre gite a Cortina, guardando l’Alpe di Fanes, hai osservato che in fondo noi non siamo diversi dalle montagne, prima non c’erano e ora ci sono». Chi parla è Andrea, e parla a Edith. Edith che non c’è, ma c’è stata a lungo, una vita. Capitano di mare lui, qualche quarto di nobiltà nel sangue, educazione rigida, disciplina militare. Lei giovane ribelle, presa dalle lotte studentesche, dal rifiuto convinto delle sue origini piccolo borghesi. Si incontrano per caso, su un traghetto diretto in Grecia. Si ritrovano fortunosamente, a Venezia. L’acqua alta — il destino — li blocca per qualche giorno nello stesso appartamento sospeso nel tempo. Poi, sarà tutto un rincorrersi. Amarsi, ritrovarsi. Andrea e Edith sono i due poli diUna grande storia d’amore, il libro con cui Susanna Tamaro torna alla narrativa. In libreria da domani, per Solferino, il racconto (qui sopra ne anticipiamo il capitolo iniziale) è una corsa che trascina, come la forza magnetica che spinge i due protagonisti l’uno verso l’altra. Giovani, innamorati, pronti a sbagliare, correggersi, rifare sopra le macerie. Una corsa che Andrea ora riguarda da lontano, in una pausa forzata che serve a riflettere: lui, voce fuori campo eppure più che coinvolto nei fatti che rievoca, ricorda il passato da un’isola battuta dal maestrale. Racconta, e intanto nota i piccoli cambiamenti del suo corpo, i segni della vecchiaia, e il giardino, le api di Edith, la natura che prosegue la sua vita intrecciata con le nostre. La sua voce, quasi una lettera scritta alla moglie, è forse anche quella dell’autrice che ha nelle corde l’osservazione attenta del cuore umano e dei prodigi, minuscoli e meravigliosi, della botanica. Susanna Tamaro ha scelto quasi un anno fa di ritirarsi dalla vita pubblica: torna ora con due sole eccezioni (il 16 settembre, al «Corriere», intervistata dal direttore Luciano Fontana, e il 20 a Pordenonelegge, dove è di casa). Poi, dal 17 settembre, sarà il suo libro a parlare per lei. (giulia ziino)