L’ossessione dell’adulterio e del possesso
Anticipiamo il testo che Nuccio Ordine legge alla Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi
Ma Fourier, che aveva promesso anche un elenco di donne tradite, costruisce la sua pinacoteca ideale di cornuti con il semplice scopo di mostrare come il legame matrimoniale finisca inevitabilmente per soffocare l’autentico rapporto tra i sessi. L’unico rimedio al tradimento è, quindi, il falansterio: solo nella pratica di un amore libero, in cui si rinuncia al possesso, le corna non avranno più ragione di esistere. Nell’esilarante catalogo, però, Fourier dimentica di inserire una categoria che, forse, è quella che più incarna la follia dell’ossessione: il cornuto “autocornificante”, cioè colui che diventa egli stesso causa del suo disonore. In preda alla paura del tradimento, il suo equilibrio psichico viene turbato da un pensiero fisso, da una preoccupazione assillante, da un incubo. E divorato dalla gelosia e dall’irrefrenabile voglia di scandagliare gli angoli più bui e profondi della moglie, non si accontenta di una “fedeltà” testimoniata da comportamenti irreprensibili. Sente il bisogno di capire se questa “fedeltà” sia frutto di una autentica virtù o se, invece, derivi solo da una mancanza di occasioni per trasgredire. Così per conoscere la vera verità decide di mettere alla prova la “fedeltà” della moglie, per verificarne la soglia di resistenza. Un tema affascinante che dall’episodio di Cefalo e Procri raccontato da Ovidio nella Metamorfosi arriva fino al celebre Così fan tutte di Mozart, passando per Ariosto, per Molière e per molti altri illustri scrittori. Tra i tanti, Miguel de Cervantes dedica una meravigliosa novella a questa folle ossessione del “mettere alla prova”, intitolata Il curioso impertinente. Nei capitoli XXXIII-XXXV della prima parte del Don Chisciotte, vengono messi in scena due fraterni amici, Lotario e Anselmo. Quest’ultimo si sposa con la bellissima Camilla. E mentre la giovane coppia vive la sua felice storia d’amore, un tarlo comincia a rodere dall’interno la serenità di Anselmo: una donna che non viene esposta al pericolo delle tentazioni e che non ha occasioni di mostrare la sua onestà può veramente essere considerata fedele? Perché dare grazie al cielo della bontà di una donna – diceva –, se nessuno la invita a essere cattiva? Che importa che una sia riservata e timorosa, se non le offrono l’occasione di sciogliersi o se sa di avere un marito capace di toglierle la vita alla prima leggerezza? La donna che è buona per timore o per mancanza di possibilità non voglio stimarla tanto quanto quella capace di guadagnarsi la corona della vittoria dinanzi a sollecitazioni continue e richieste pressanti! (I, XXXIII, p. 585).
Così Anselmo, ossessionato dalla gelosia, chiede al suo amico di tentare Camilla per metterne alla prova la fedeltà. Lotario resiste e usa argomenti forti per dissuaderlo. Si tratta, secondo lui, di una folle impresa che in ogni caso non produrrà risultati positivi: perché se la moglie resiste, il marito non sarà amato più di quanto già non lo sia; ma se, al contrario, cede alla tentazione, sarà il marito stesso causa del suo disonore. Questa storia raccontata nel Don Chisciotte avrà purtroppo esiti tragici: Lotario e Camilla si innamoreranno, Anselmo ne morirà di dolore e anche i due nuovi amanti perderanno la vita. Ma, prima di spegnersi, il marito pentito lascerà alla sua sposa un messaggio incompiuto, in cui riconosce di esser stato lui stesso l’artefice del suo disonore: Un desiderio sciocco e impertinente mi ha tolto la vita. Se le nuove della mia morte giungessero agli orecchi di Camilla, che sappia che la perdono, perché non era obbligata a fare miracoli né io avevo necessità di volere ch’ella ne facesse alcuno. E, siccome io stesso sono stato l’artefice del mio disonore, non c’è motivo di... (I, XXXV, p. 665). Prevedendo l’imminente sciagura, Lotario, per convincere Anselmo del suo errore, aveva inutilmente ricordato all’amico l’episodio del «prudente Rinaldo», raccontato da Ariosto nell’Orlando furioso: [Tu, Anselmo] dovrai piangere di continuo, se non lagrime d’occhi, sì lagrime di sangue dal cuore, come quelle che piangeva quel semplice dottore che, come il nostro poeta ci narra, fece la prova del calice, quella stessa che, scusandosi con miglior criterio, evitò il prudente Rinaldo. Perché, pur trattandosi di finzione poetica, questa storia occulta segreti morali degni di essere scoperti, compresi e imitati (I, XXXIII, p. 593). La letteratura, insomma, pur essendo una «finzione poetica» racconta storie in cui è possibile cogliere preziosi «segreti morali». Lotario, infatti, aveva potuto apprezzare la saggezza di Rinaldo che, di fronte al nappo fatato offertogli da un triste cavaliere per conoscere la fedeltà o l’infedeltà della moglie, rinuncia alla « prova ». Rinaldo solleva il calice e, mentre lo avvicina alle labbra per bere, lo ripone sul tavolo.
Lacerato tra il desiderio di sapere e una prudente ignoranza, capisce che la pretesa di conoscere la vera verità nelle cose d’amore può generare solo velenosi sospetti e funeste ossessioni. Rinaldo, nella sua lucidità, intuisce che sarebbe autolesionistico cercare ciò che non si vuole trovare. Perché amare significa abbandonare qualsiasi pretesa di possedere certezze. Solo il credere aiuta a vivere un rapporto fondato sul rispetto e sulla tolleranza: “Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova:/ che poss’io megliorar per farne prova?” (XLIII, 6, vv. 7-8). Sconvolto dalla saggezza di Rinaldo, il cavaliere scoppia in lacrime e racconta disperato al suo ospite la folle gelosia che lo aveva spinto a mettere alla prova la fedeltà della moglie con il risultato di perderla per sempre. Ariosto, prima, e Cervantes, poi, hanno mostrato con efficacia come l’ossessione della gelosia possa provocare solo sciagure. Abbandonare la pretesa del possesso, saper convivere con il rischio della perdita significa accettare la fragilità e la precarietà dell’amore. Significa rinunciare all’illusione di una garanzia di indissolubilità del legame amoroso, prendendo atto che i rapporti umani, con i limiti e le imperfezioni che li contraddistinguono, non possono prescindere dall’opacità, dalle zone d’ombra, dall’incertezza.
L’ossessione della fedeltà e la gelosia non sono segni di un voler bene. Al contrario: sono sintomi dell’assurda pretesa di possedere l’ “altro”. Pretesa del possesso che ogni giorno genera tragedie: mariti e fidanzati uccidono – in ogni angolo del mondo – mogli e compagne perché pensano che il matrimonio o il fidanzamento li rendano proprietari del corpo e dell’anima della loro donna. Come se si trattasse di un’auto, di una casa o di un terreno comprato con tanto di atto notarile. «Un marito si nutre dell’amore della moglie» - ha avuto il coraggio di affermare, pochi giorni fa, un neocatecumenale al Family Day a Roma – e «quando la moglie lo abbandona», il «primo moto è ucciderla». Parole che lasciano sgomenti. Solo l’amore autentico è capace di sconfiggere ogni interesse individuale, ogni istinto di proprietà, ogni violenza. Se l’amore viene offerto in dono, per la pura gioia di dare, allora – come ricorda il saggio berbero nella Cittadella di Antoine de Saint-Exupéry – non comporterà nessuna sofferenza: Non confondere l’amore col delirio del possesso, che causa le sofferenze più atroci. Perché contrariamente a quanto comunemente si pensa, l’amore non fa soffrire. Quello che fa soffrire è l’istinto della proprietà, che è il contrario dell’amore.
Nuccio Ordine, 2015
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