martedì 30 agosto 2016

Il racconto di Arthur Gordon Pym / Il primo e unico romanzo di Edgar Allan Poe

Edgar Allan Poe
Poster di T.A.

Il racconto 

di Arthur Gordon Pym

Il primo e unico romanzo di Edgar Allan Poe




26 SET 2011
di
SALVATORE INCARDONA



Pubblicato nel 1838 con il titolo The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket, è l’unico romanzo di Edgar Allan Poe, quantunque nel corpus letterario dello scrittore americano si presenti come un’opera fortemente caratteristica del suo stile immaginifico e spesso visionario.
Di nascosto dalla sua famiglia, il giovane Arthur Gordon Pym si imbarca clandestinamente sulla baleniera Grampus con l’aiuto dell’amico Augustus Barnard, figlio del capitano del brigantino.

Illustrazione dal libro "Il racconto di Arthur Gordon Pym"

«Mi chiamo Arthur Gordon Pym. Mio padre era un rispettabile commerciante in articoli marittimi a Nantucket, dove io sono nato. Il mio nonno materno faceva l'avvocato e vantava una buona clientela. […] A sei anni mi spedì alla scuola del vecchio signor Ricketts […]. Frequentai quella scuola fino all'età di sedici anni e poi mi trasferii all'accademia del signor E. Ronald, sulla collina. Lì divenni intimo amico del figlio del signor Barnard, un capitano che d'abitudine solcava i mari alle dipendenze della Lloyd e Vredenburgh – anche il signor Barnard è conosciuto a New Bedford e conta, di questo sono sicuro, molti parenti a Edgarton. Suo figlio, di nome Augustus, aveva quasi due anni più di me. Insieme al padre aveva partecipato a una spedizione sulla baleniera John Donaldson, e mi raccontava sempre delle sue avventure nel Pacifico meridionale».
Nell’intenzione dei due, Arthur sarebbe dovuto rimanere nascosto nella stiva per un numero di giorni sufficiente a renderne impossibile lo sbarco forzato. Dopo la partenza della nave, tuttavia, l’amico smette di far visita ad Arthur, costringendolo di fatto a restare bloccato nel proprio rifugio-prigione. Quando finalmente i due amici possono riunirsi, Arthur scopre che l’imbarcazione è caduta preda di un feroce ammutinamento degenerato nella rivolta e nel sangue. La sommossa verrà poi sedata dall’intervento di Arthur, Augustus e del marinaio Peters, ma lo scatenarsi improvviso di una tempesta spazza via l’equipaggio rimasto e segna per i pochi sopravvissuti l’inizio di una serie di tragici avvenimenti. L’avvistamento inaspettato di una nave ridesta in loro la speranza, salvo poi precipitarli ancora nello sconforto: si tratta infatti di un galeone abbandonato, con a bordo soltanto scheletri e carogne. Sbattuti nuovamente dalla tempesta, i tre andranno alla deriva fino alla morte di Augustus e al rovesciamento della loro imbarcazione. Rassegnati ormai all’imminente capitolazione, i due superstiti vengono salvati dalla Jane Guy, una goletta esploratrice diretta verso i mari del Sud. Convinto dalle insistenze di Arthur, il capitano prosegue il proprio viaggio fino all’approdo sulle coste di un’isola sconosciuta. Questa è abitata da una strana popolazione nera, che da subito si rivela ostile per qualsiasi cosa che non sia di tale colore. La nave viene così data alle fiamme dagli indigeni e l’intero equipaggio catturato, mentre Arthur e Peters riescono a fuggire su di un’altra imbarcazione ormeggiata nei pressi. I due superstiti continuano il viaggio verso Sud, fino all’apparizione di un’arcana figura bianca che prefigura già quella del Moby Dick di Melville, e con la quale Poe interrompe bruscamente il romanzo.
«Fu allora che la nostra imbarcazione si precipitò nella morsa della caterrata dove si era spalancato un abisso per riceverci. Ma ecco sorgere sul nostro cammino una figura umana dal volto velato, di proporzioni assai più grandi che ogni altro abitatore della terra. E il colore della sua pelle era il bianco perfetto della neve».
La nave e il mare erano già stati messi in evidenza da alcuni capolavori della letteratura romantica, e non mancano nemmeno nella produzione di Poe. Nel racconto Manoscritto trovato in una bottiglia, il protagonista vive una vicenda molto simile alle disavventure di Pym: il naufragio, la nave misteriosa, il mistero della provenienza dell'equipaggio, il viaggio verso Sud e l’improvviso arresto della narrazione. Il tema del mare, dello spazio sconfinato, del viaggio verso territori sconosciuti, si sposano qui con la convinzione – particolarmente diffusa all’epoca grazie alle teorie di John Cleve Symmes – che la Terra fosse cava e che di conseguenza sarebbe stato possibile discendere al suo interno attraverso le aperture situate ai due poli. È probabile, dunque, che nella scrittura di questo romanzo Poe sia stato influenzato in egual misura dall’interpretazione romantica del mare quale figurazione dell’ignoto e dalle teorie sulla presunta cavità della Terra, un tema, quest’ultimo, che si accorda bene a quello della catabasi (della discesa inesorabile) che caratterizza buona parte della produzione dell’autore.


Edgar Allan Poe (1809 – 1849) fu uno scrittore statunitense, tra le figure più importanti della letteratura americana non solo dell’Ottocento, padre riconosciuto del racconto poliziesco e della letteratura horror a sfondo psicologico. Fu autore di critica letteraria, poesie, poemetti, novelle e di un unico romanzo. La sua produzione scrittoria, densa di temi che anticipano in certo qual modo le inquietudini che saranno alla base del Decadentismo, sarà poi decisiva per il processo di formazione della letteratura europea fin de siècle.

WALL STREET INTERNATIONAL
Salvatore Incardona
Salvo Incardona è nato a Vittoria. Formatosi accademicamente presso l'Università di Pisa, dove ha conseguito la laurea in lettere moderne, si è successivamente specializzato in letteratura tedesca e filologia moderna presso l'Università di Augsburg, in Germania, e dottorato infine in letterature comparate. Ha iniziato la propria carriera collaborando con alcuni periodici di filosofia e critica letteraria (Studi Germanici, Ctonia), in qualità di consulente per numerose case editrici (fra cui ArteStampa e Carocci) e come pubblicista per la rivista Tratti. Ha firmato numerosi articoli per il Wall Street International Magazine, partecipando attivamente alla nascita della testata. Ha tradotto e curato, fra gli altri, il saggio «Antropologia delle immagini» di Hans Belting, alcuni testi di André Malraux e tutte le ultime pubblicazioni di Gianni Salvaterra. Nella città di Imola, dove ha trascorso gli ultimi anni, è stato attivo sia come insegnante di lingua tedesca che in qualità di docente di scrittura e scrittura creativa. Rientrato di recente in Sicilia, lavora in qualità di direttore artistico presso l'associazione culturale Démodé.

domenica 28 agosto 2016

Elias Canetti, un cronista insolito / I suoni visibili di Marrakech

Venditori di lampade nel suq di Marrakech

I suoni visibili di Marrakech

Elias Canetti, un cronista insolito


26 MAR 2012
di
SALVATORE INCARDONA



Nel 1954, sospesa per breve periodo la decennale elaborazione di Massa e Potere, il trattato socio-antropologico cui dedicò buona parte della sua vita, Elias Canetti decise di compiere un viaggio in Marocco a seguito di una troupe cinematografica. Contestualmente, non volendosi rassegnare a una consueta forma di turismo passivo, da grande scrittore mise nero su bianco la propria esperienza, dando vita così a Le voci di Marrakech, un’opera forse sottovalutata fra quelle del suo corpus letterario, ma che certo non sfigura di fronte a libri più celebrati come Auto da fé o La lingua salvata.
Vita quotidiana a Marrakech

In questo resoconto di viaggio, nonostante già dal titolo venga messa in evidenza la parola «voci», ciò che a un primo impatto Canetti restituisce al lettore è una serie di suggestioni prettamente visive, una sequenza efficacissima di istantanee in grado di fissare un mondo lontano da quell’Europa che aveva fatto e che farà da sfondo alle sue opere, un mondo che proprio in quel momento attraversava una fase politica complessa e delicata che nel volgere di pochi mesi lo avrebbe portato poi al riconoscimento della sua indipendenza. Attraverso questi fotogrammi, esibiti mediante l’artificio letterario in forma di piccoli racconti, sfilano davanti ai nostri occhi, fra le bancarelle della città marocchina, le più svariate mercanzie, dalle stoffe alle spezie, fino ad arrivare ai cammelli.
Donna per le vie di Marrakech

La città descritta dallo scrittore si popola così di figure affascinanti e cariche di mistero, donne velate, strani mendicanti, cantastorie, saltimbanchi e venditori. Una folla viva, palpitante, fiera della propria appartenenza eppure non diversa. Saranno infatti i turisti europei osservati nei dintorni a sembrargli estranei, mentre a proposito degli abitanti del luogo dirà: «Gli altri, la gente che ha sempre vissuto là e che non capivo, erano per me come me stesso». Fra le molte tappe, c’è spazio anche per una doverosa visita alla Mellah, il quartiere ebraico – non è superfluo ricordare qui che Canetti era nato in una famiglia sefardita – dove all’interno del “macrocosmo” arabo coesiste in maniera del tutto armonica un “microcosmo” giudaico inaspettatamente integrato. E qui, in una piazza al centro della Mellah, sembra compiersi d’improvviso un miracolo e annullarsi ogni distacco, ogni differenza, il miracolo del sentirsi a casa contro ogni possibile distanza in una terra sconosciuta ma non per questo estranea, anzi talmente e intimamente prossima da essere un posto già noto, e forse addirittura parte di sé: «Davvero in quel momento mi sembrò di essere altrove, di aver raggiunto la meta del mio viaggio. Da lì non volevo più andarmene, ci ero già stato centinaia di anni prima, ma lo avevo dimenticato, ed ecco che ora tutto ritornava in me. Trovavo nella piazza l’ostentazione della densità, del calore della vita che sento in me stesso. Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza. Credo di essere sempre quella piazza».
Gli uomini blu nel deserto marocchino

Ma il termine «voci» di cui l’autore si è servito nel titolo è tuttavia ben giustificato, poiché, nel definirsi del processo testuale, all’immediatezza dell’istantanea vanno sommandosi gradualmente le suggestioni uditive, fino al raggiungimento di una completa e ideale fusione fra suono e immagine, a una sinestesia continua e inevitabile: «Si trattò di avvenimenti, immagini, suoni il cui senso si formò allora ma che non furono percepiti né definiti per mezzo delle parole […]». E fra i resoconti del brulicare incessante che anima ogni angolo della città, ecco imprimersi nella mente del lettore l’immagine indimenticabile di alcune inafferrabili voci di Marrakech: «Ogni sera il mio cuore si fermava non appena snidavo quel suono, e poi tornava a fermarsi quando lo scorgevo».

Elias Canetti

Elias Canetti (1905 - 1994) nacque in Bulgaria, a Ruse, in una famiglia di ricchi mercanti ebraici. La lingua della sua infanzia fu il giudeospagnolo, ma determinante si rivelò per lui la conoscenza del tedesco, per mezzo del quale scrisse poi tutte le proprie opere, fra cui: Auto da fé (1936), Massa e Potere (1960), Le voci di Marrakech (1968),La lingua salvata (1977). Nel 1981 venne insignito inoltre del premio Nobel per la letteratura.

WALL STREET INTERNATIONAL
Salvatore Incardona
Salvo Incardona è nato a Vittoria. Formatosi accademicamente presso l'Università di Pisa, dove ha conseguito la laurea in lettere moderne, si è successivamente specializzato in letteratura tedesca e filologia moderna presso l'Università di Augsburg, in Germania, e dottorato infine in letterature comparate. Ha iniziato la propria carriera collaborando con alcuni periodici di filosofia e critica letteraria (Studi Germanici, Ctonia), in qualità di consulente per numerose case editrici (fra cui ArteStampa e Carocci) e come pubblicista per la rivista Tratti. Ha firmato numerosi articoli per il Wall Street International Magazine, partecipando attivamente alla nascita della testata. Ha tradotto e curato, fra gli altri, il saggio «Antropologia delle immagini» di Hans Belting, alcuni testi di André Malraux e tutte le ultime pubblicazioni di Gianni Salvaterra. Nella città di Imola, dove ha trascorso gli ultimi anni, è stato attivo sia come insegnante di lingua tedesca che in qualità di docente di scrittura e scrittura creativa. Rientrato di recente in Sicilia, lavora in qualità di direttore artistico presso l'associazione culturale Démodé.


Salvatore Incardona

RIMBAUD

DANTE
Elias Canetti, un cronista insolito / I suoni visibili di Marrakech

lunedì 22 agosto 2016

Ai Weiwei / In principio era la Cina


Ai Weiwei

Ai Weiwei

In principio era la Cina




di 

ILARIA LEONE
3 MAR 2016 
Anni 55, di cui quattro spesi senza un documento valido per l’espatrio, un arresto con l’accusa di evasione fiscale e 81 giorni di isolamento forzato in prigione. Sembrerebbe il ritratto di un criminale, ma questa è un’altra storia. In realtà questo è il curriculum di un uomo con un’unica colpa (per così dire): quella di aver condotto per più di vent’anni un continuo e accanito attivismo politico a danno dell’intoccabile immagine del governo cinese. Una lotta a favore del libero pensiero, condotta attraverso il media più potente e cross-culturale di tutti, che parla un solo unico linguaggio universale: l’arte.
Definito da molti come il più umano degli artisti concettuali, Ai Weiwei è anche il più libero (concettualmente parlando) tra gli artisti contemporanei. La non libertà di espressione in Cina, è qualcosa che noi occidentali possiamo solo vagamente concepire, ma nonostante una forte difficoltà a raccontare la verità, per Ai Weiwei la censura non ha mai costituito una barriera alla sua missione di denuncia sociale, espressa a colpi di dissidenza e opere d’arte controverse.

Crabs

Una scelta di attivismo e di lotta per i diritti umani lunga più di vent’anni, sin da quando nel 1992, dopo gli anni di studi di design a New York, Ai decide di fare ritorno in Cina per stare vicino al padre ammalato, il poeta Ai Qing. Anche quest’ultimo anni prima fu vittima di un arresto, per aver difeso l’amico e scrittore Ding Ling dall’accusa di essere un uomo di destra, durante la grande repressione del 1957-’59. Gli anni seguenti al suo rientro in Cina vedono Weiwei nell’ordine protagonista di una comunità di artisti d'avanguardia, cofondatore e direttore artistico dell'Archivio delle arti cinesi (CAAW) e di numerosi progetti di architettura assieme il gruppo di architetti svizzeri Herzog & de Meuron con il quale partecipa anche alla progettazione del padiglione della Serpentine Gallery di Londra.
Nel 2003 fonda il suo studio, il «FAKE Design». È proprio qui, nel suo laboratorio, che inizia a prendere forma un’officina fatta di idee, passione per la materia e l’artigianato. Nel suo laboratorio, Ai impiega fabbri, carpentieri, falegnami ma li priva dei loro strumenti di lavoro. I chiodi e le viti spariscono, la colla sparisce e i materiali (tutti di riciclo) vengono montati solo con scappello, martello e mortasa, un’antica tecnica di montaggio.
Coloured vases

Ciò che resta del suo studio, demolito nel 2011 dalle autorità cinesi, è stato esposto sotto forma di una scultura fatta di pezzi di muro e legno intagliato alla Royal Academy di Londra che ha ospitato, assieme a diversi suoi lavori, una personale dell’artista conclusasi lo scorso dicembre 2015. Una mostra molto attesa a Londra, nonché la prima alla quale Weiwei ha potuto assistere di persona dopo la riconsegna del suo passaporto (sequestrato per più di 4 anni) e il tanto atteso visto inglese, un nulla osta prezioso quasi come gli equilibri diplomatici tra Cina e Inghilterra.
Ogni opera esposta ricorda momenti legati alla sua storia personale e a quella cinese. I racconti tra le sale si intrecciano e si fondono come i suoi materiali, tra concettualismi duchampiani, (tanto cari all’artista), utilizzo di media moderni come video e documentari, ideologia politica, iconoclastia e memoria. È in questo contesto che antichi vasi di terracotta della dinastia Han vengono ricoperti con colori pop e vivaci, o firmati con il logo Coca-Cola, a simbolo del consumismo degli USA. Il legno recuperato dagli antichi templi distrutti diventa una scultura in segno di onore e rispetto delle tradizioni artigianali cinesi. E ancora degli sgabelli di legno appartenenti alla dinastia Qing sono tra di loro incastrati e irradiati a formare un’unica scultura che sfida la gravità e che ricorda nuovamente Duchamp, anche se umanizzato all’estremo. Una pila di tremila granchi di porcellana accumulati in un angolo sono invece il simbolo dell’He Xie, parola che in cinese significa sia granchio di fiume ma anche ‘armonia', parola di cui la propaganda di regime ha abusato e che nel linguaggio di internet indica ora anche ‘censura'.
Straight

Tra le opere più toccanti, ospitata nelle magnifiche sale della Royal Accademy, c’è anche Straight: novanta tonnellate di ferro contorto e pazientemente raddrizzato a mano proveniente dai resti delle scuole distrutte dal terremoto di Sichuan nel 2008, dove persero la vita più di cinquemila bambini. I loro nomi: tutti scritti a mano sulle pareti della sala. Un’opera di denuncia, dove il materiale e il suo utilizzo è di nuovo protagonista, ma questa volta in chiave di colpevole e complice di un sacrificio umano. Infatti i materiali impiegati per la realizzazione delle scuole erano scadenti e non resistettero all’impeto della scossa.
Nella mostra anche una meticolosa ricostruzione delle celle che raccontano con spirito voyerista e l’utilizzo di mini sculture di cera i giorni della sua prigionia, durante i quali Ai veniva sorvegliato a vista, anche durante il sonno, e recluso in un luogo segreto dove nessuno, neanche sua moglie, poteva fare visita. Un momento triste e di riflessione anticipa la chiusura della mostra con un’ultima opera, la più spettacolare: The Bicycle Chandelier. In una magnifica sala a pianta ottagonale, si dirama dal soffitto un enorme, fascinoso candelabro fatto interamente di biciclette, un popolare mezzo di spostamento in Cina, presente nelle strade cinesi e spesso usato come mezzo anche nelle sue opere.

The Bicycle Chandelier

Un mezzo che racconta il passato e il presente di un paese con una lunga storia come la Cina, uniti al racconto di un’altra storia, quella umana e personale dell’artista, fatta di rispetto e venerazione per le tradizioni ma anche di ribellione e provocazione nei confronti di un regime ossessionato dalla censura ad ogni costo, come è tutt’ora oggi quello cinese.


Ilaria Leone
Autrice, giornalista freelance e scrittrice editoriale, Ilaria ha un’ampia formazione in comunicazione, media e giornalismo unita a un forte interesse (e studi paralleli) in storia dell'arte, design, e fotografia.
Subito dopo gli anni di formazione universitaria, spesi tra diversi soggiorni in Inghilterra, una lunga permanenza a Perugia e Milano e i primi incarichi lavorativi, Ilaria si trasferisce per un breve periodo a Parigi dove approfondisce gli studi di lingua francese e fotografia; una passione, quest’ultima, scoperta tempo prima a Milano, dopo un lungo percorso dedicato alla pittura.
Al momento vive a Londra dove lavora per un noto brand di interior design e contemporaneamente collabora con diversi magazine online, scrivendo di arte, design, cultura e lifestyle. Nel tempo libero visita spesso mostre d'arte e si diletta nella pratica del collage.


domenica 21 agosto 2016

Elvira Ardalani / La treccia





Elvira Ardalani

LA TRECCIA

Quasta notte, amore, mi taglierò i capelli,
tesserò una corda con quello che tanto hai amato
e mi troverai volando
sui miei piedi,
ombrosa,
sul tappeto
che qualche volta ci ha visto illuminati nell’oscuritá,
ubriachi
eterni.
Non bere fino ad allora.
che sia il dolore chi ti serve.





venerdì 19 agosto 2016

Hans Christian Andersen / La principessa sul pisello



La principessa sul pisello
C'era una volta un principe che voleva sposare una principessa, ma doveva trattarsi di una principessa vera! Perciò si mise a viaggiare in lungo e in largo per il mondo, ma ogni volta non riusciva a decidersi: principesse ce n'erano un po' dappertutto, ma erano principesse vere? Non si riusciva mai a saperlo con sicurezza: ogni volta sembrava mancare qualche cosa. Alla fine decise di tornare a casa sua, ma era pieno di tristezza per non essere riuscito a trovare una principessa vera.

Una notte che c'era un tempo orribile, con fulmini, tuoni, e acqua a catinelle, qualcuno bussò alle porte della città, e il vecchio re andò ad aprire.

Fuori dalle mura c'era una principessa: Dio mio, la pioggia e il brutto tempo l'avevano conciata proprio bene! L'acqua le picchiava sui capelli e sui vestiti, entrava nelle scarpe dalle punte e ne usciva dai tacchi: eppure lei sosteneva di essere una vera principessa.

"Questo si vedrà," pensò la vecchia regina, ma non disse nulla: andò in camera, tolse il materasso dal letto e mise sul fondo un pisello; poi prese venti materassi e li mise sul pisello, e sopra i materassi mise ancora venti grossi cuscini di piume.

Quella sera la principessa dormì lì.

La mattina dopo le chiesero come aveva dormito.

"Malissimo!" si lamentò la fanciulla, "non ho praticamente chiuso occhio per tutta la notte! Chissà cosa c'era in quel letto! Ero coricata su qualcosa di duro e mi sono fatta un enorme livido blu e marrone. È stato terribile!"

Così capirono che era una principessa vera, perché aveva sentito il pisello attraverso venti materassi e venti grossi cuscini di piume. Solo una principessa poteva avere una pelle così sensibile!

Così il principe la prese in sposa, convinto finalmente di avere incontrato una vera principessa, e il pisello andò a finire in un museo, dove, se nessuno è venuto a rubarlo, lo si può vedere ancora.

E questa è una storia vera, sapete?




Fiabe di Andersen



giovedì 18 agosto 2016

Hans Christian Andersen / Il piccolo Claus e il grande Claus





C'erano una volta in un villaggio due uomini con lo stesso nome, entrambi si chiamavano Claus, ma uno possedeva quattro cavalli, l'altro ne possedeva solo uno, quindi, per poterli distinguere, quello coi quattro cavalli veniva chiamato grande Claus e quello che aveva solo un cavallo piccolo Claus. Adesso sentiamo come se la passavano, perché questa è una storia vera.



Per tutta la settimana il piccolo Claus doveva arare il campo del grande Claus e gli prestava il suo unico cavallo, poi il grande Claus lo aiutava con i suoi quattro cavalli, ma questo avveniva solo una volta alla settimana e precisamente di domenica. Hup! Come agitava il piccolo Claus la frusta sui cinque cavalli; quel giorno era come se fossero tutti suoi! Il sole splendeva così bello e le campane della chiesa suonavano a festa, la gente era ben vestita e si avviava col libro dei salmi sottobraccio per sentire la predica del pastore e vedeva il piccolo Claus che arava con i cinque cavalli e era così contento che agitava la frusta gridando: "Hup, cavalli miei!"



"Questo non lo devi dire" gli disse il grande Claus "perché solo uno del cavalli è tuo."


Ma passò ancora qualcuno che andava in chiesa, e il piccolo Claus dimenticò che non doveva dirlo e gridò ancora: "Hup cavalli miei!"

"Ti chiedo di smetterla" gli disse il grande Claus. "Se lo dici ancora una volta, colpisco il tuo cavallo alla fronte così che cada morto all'istante: almeno è finita con lui."

"Non lo dirò più" replicò il piccolo Claus, ma quando passò dell'altra gente che lo salutò, fu molto contento al pensiero che era così evidente che possedeva cinque cavalli per arare il campo; quindi agitò la frusta e gridò. "Hup, cavalli miei!."

"Li incito io i tuoi cavalli" disse il grande Claus e prese il maglio e colpì sulla fronte l'unico cavallo del piccolo Claus, che cadde a terra morto.

"Ahimè, adesso non ho più cavalli!" esclamò il piccolo Claus e cominciò a piangere. Poi spellò il cavallo, prese la pelle, la lasciò seccare al vento, la mise in un sacco che si gettò sulle spalle e andò in città per vendere la pelle del suo cavallo.

La strada da percorrere era molto lunga, si doveva attraversare un enorme bosco buio e improvvisamente venne brutto tempo; il piccolo Claus vagò per qualche tempo e quando finalmente ritrovò la strada giusta era già sera e si trovava troppo lontano sia per arrivare in città, sia per tornare a casa prima che venisse la notte.

Vicino alla strada c'era una grande casa di campagna, le persiane erano chiuse, ma la luce filtrava fuori. "Avrò sicuramente il permesso di passare la notte qui" pensò il piccolo Claus, e andò a bussare.

La padrona di casa aprì la porta, ma una volta saputo cosa voleva, disse che se ne doveva andare, perché suo marito non era in casa e lei non poteva ospitare sconosciuti.

"D'accordo, allora mi sdraierò qui fuori" disse il piccolo Claus, e la donna gli chiuse la porta in faccia.

Lì vicino c'era un grande mucchio di fieno e tra questo e la casa avevano fatto un deposito con un tetto di paglia.

"Posso sdraiarmi lassù" pensò il piccolo Claus quando vide il tetto "è un ottimo letto, purché la cicogna non venga a beccarmi le gambe." Infatti c'era una cicogna col suo nido proprio sopra il tetto.

Così il piccolo Claus si arrampicò sul tetto, si sdraiò e si girò per stare proprio comodo. Le persiane davanti alle finestre non coprivano la parte più alta, così egli poteva vedere nel soggiorno.

C'era un grande tavolo apparecchiato con vino e arrosto e con uno splendido pesce, la padrona di casa e il sacrestano sedevano a tavola, e non c'era nessun altro; la donna gli riempiva il bicchiere e lui si serviva il pesce, perché era una pietanza che gli piaceva molto.

"Beato chi lo può mangiare!" pensò il piccolo Claus e avvicinò la testa alla finestra. Dio mio, che meravigliosa torta riusciva a vedere lì dentro! Sì, era una bontà!

Sentì che qualcuno cavalcava lungo la strada maestra verso la casa, era il marito della donna che tornava.

Era un ottimo uomo, ma aveva un terribile difetto: non poteva sopportare la vista dei sacrestani. Se un sacrestano gli si presentava davanti, diventava furibondo. E proprio per questo il sacrestano era andato a salutare la donna perché sapeva che il marito non era in casa, e la brava donna aveva preparato tutto il cibo migliore per lui. Ma ora, sentendo che l'uomo stava rientrando, si spaventarono e la donna pregò il sacrestano di nascondersi in una grande cesta vuota che era lì in un angolo, e il sacrestano si nascose perché sapeva che quel pover'uomo non sopportava i sacrestani.

La donna nascose tutto quel buon cibo e il vino nel forno, perché se il marito lo avesse visto avrebbe naturalmente chiesto per quale motivo l'aveva preparato.

"Che peccato!" sospirò il piccolo Claus dal tetto, quando vide che tutto il cibo veniva portato via.

"C'è qualcuno lassù?" chiese il contadino e guardò verso il piccolo Claus. "Perché stai li sdraiato? Vieni piuttosto in salotto."

Così il piccolo Claus raccontò come si era perso e gli chiese se poteva restare lì per la notte.

"Certamente" disse il contadino "ma prima dobbiamo mangiare qualcosa."

La donna accolse con gioia i due, apparecchiò la tavola e offrì un grande piatto di farinata. Il contadino era molto affamato e mangiò con appetito, ma il piccolo Claus non poteva fare a meno di pensare al delizioso arrosto, al pesce e alla torta che si trovavano nel forno. 

Sotto il tavolo, vicino ai suoi piedi, aveva messo il sacco con la pelle del cavallo; ricordate che stava andando in paese a venderla? La farinata non gli piaceva affatto, così mosse il sacco e la pelle secca scricchiolò forte.

"Ssst!" disse il piccolo Claus al suo sacco, ma nello stesso momento lo colpì più forte e quindi questo scricchiolò più di prima.

"Ah, che cosa hai in quel sacco?" gli chiese il contadino.

"Oh, è un mago" disse il piccolo Claus "dice che non dovremmo mangiare la farinata, perché ha compiuto una magia e il forno ora è pieno di arrosto, pesce e torta." - "Cosa?" chiese il contadino e aprì immediatamente il forno, dove poté vedere tutto quel buon cibo che la moglie aveva nascosto, ma che lui credeva fosse stato magicamente portato dal mago. La donna non poté dire nulla, ma portò il cibo in tavola e così mangiarono pesce, arrosto e torta. Il piccolo Claus colpì di nuovo il sacco e la pelle scricchiolò.

"Che cosa dice adesso?" chiese il contadino.

"Dice" rispose il piccolo Claus "che ha anche preparato tre bottiglie di vino per noi e che si trovano nel forno." Così la donna dovette tirar fuori il vino che aveva nascosto e il contadino bevve e divenne molto allegro, certo gli sarebbe proprio piaciuto possedere un mago come quello che il piccolo Claus aveva nel sacco.

"Può anche far comparire il diavolo?" chiese il contadino "mi piacerebbe proprio vederlo, ora che sono così allegro!"

"Sì" disse il piccolo Claus "il mio mago può fare tutto quello che io gli chiedo. Non è vero? Tu!" chiese, e colpì il sacco finché non scricchiolò. "Senti che dice di sì? Ma il diavolo è così brutto che non vale la pena di vederlo."

"Oh, non ho affatto paura; e quale sarebbe il suo aspetto?"

"Ah, apparirebbe esattamente come un sacrestano!"

"Uh!" disse il contadino "è proprio brutto! Dovete sapere che io non sopporto la vista dei sacrestani. Ma ora non fa niente, so che è il diavolo e quindi mi sento già meglio. Adesso ho il coraggio; ma non mi deve venire troppo vicino."

"Allora provo a sentire il mago" disse il piccolo Claus, colpì il sacco e tese l'orecchio.

"Che cosa dice?"

"Dice che potete andare a aprire quel baule che c'è nell'angolo, lì dentro troverete il diavolo che sta ammuffendo, ma dovete tenere il coperchio, affinché non scappi fuori."

"Dovete aiutarmi voi a tenerlo" disse il contadino, e andò verso il baule, dove la moglie aveva nascosto il vero sacrestano, che ora stava morendo dl paura.

Il contadino sollevò un po' il coperchio e guardò dentro: "Uh!" gridò, e fece un balzo indietro. "Sì, l'ho visto, ha proprio l'aspetto del nostro sacrestano – che spavento!"

Dovettero berci sopra e così bevvero tutta la notte.

"Adesso mi devi vendere il tuo mago" disse il contadino "chiedimi in cambio tutto quello che vuoi. Ah sì, ti do immediatamente un sacco pieno di denaro." 


"No, non posso assolutamente; pensa quanti vantaggi posso avere da questo mago."

"Ma io desidererei moltissimo averlo" disse il contadino e continuò a pregarlo.

"Va bene" acconsentì alla fine il piccolo Claus. "Tu sei stato così gentile a ospitarmi questa notte, e io te lo cedo. Avrai il mago per un sacco di denaro, ma il sacco dev'essere pieno fino all'orlo."

"È quello che avrai" disse il contadino "ma devi portarti via anche il baule, perché non lo voglio avere qui un minuto di più; non si sa mai, se è ancora dentro!"

Il piccolo Claus diede il sacco con la pelle secca al contadino e ricevette in cambio un sacco stracolmo di denaro. Il contadino gli donò anche una grande carriola per trasportare il baule e il denaro.

"Addio!" disse il piccolo Claus, e se ne andò col denaro e il baule in cui c'era ancora il sacrestano.

Dall'altra parte del bosco c'era un grande e profondo torrente, l'acqua scorreva così forte che uno a malapena avrebbe potuto nuotare controcorrente; avevano costruito un nuovo grande ponte e il piccolo Claus si fermò proprio nel mezzo e disse a voce ben alta, affinché il sacrestano potesse sentirlo dal baule:

"E no! Che cosa ne faccio di questo inutile baule? Pesa tanto che è come se fosse pieno di pietre; mi stancherei troppo a trascinarmelo ancora dietro; quindi è meglio che lo butti nel torrente. Se viene trasportato a casa mia tanto di guadagnato, altrimenti non ci perdo nulla."

Così afferrò il baule con una mano e lo sollevò un po', come se volesse gettarlo in acqua.

"No, lascia stare!" gridò il sacrestano dal baule "fammi uscire!"

"Uh!" disse il piccolo Claus, fingendo di aver paura. "È ancora nel baule! allora è meglio che lo butti subito nel torrente, così annegherà."

"Oh no! Oh no!" urlò il sacrestano. "Se mi lasci andare, ti darò un sacco pieno di denaro!"

"Ah, allora è un'altra cosa!" disse il piccolo Claus e aprì il baule. Il sacrestano uscì subito e gettò il baule vuoto in acqua e se ne andò a casa sua, dove il piccolo Claus ricevette un sacco pieno di denaro. Uno l'aveva già avuto dal contadino e ora aveva la carriola piena di denari!

"Visto, il cavallo me l'han pagato proprio bene!" disse a se stesso il piccolo Claus quando arrivò a casa sua e fece di tutti i soldi un grande mucchio in mezzo al pavimento. "Certo il grande Claus si arrabbierebbe molto venendo a sapere quanto sono diventato ricco col mio unico cavallo, ma non mi va di andare a dirgli la verità."

Così mandò un ragazzo dal grande Claus per farsi prestare un misurino.

"Che cosa mai ci vuol fare!" pensò il grande Claus, e spalmò sul fondo del misurino un po' di catrame, affinché restasse appiccicato qualcosa di quello che veniva misurato. E fu proprio quello che accadde, e quando il grande Claus riebbe il misurino c'erano attaccate tre monete d'argento da otto scellini.

"E questo che significa?" disse il grande Claus, e si precipitò immediatamente dal piccolo Claus. "Da dove vengono tutti questi soldi?"

"Dalla pelle del mio cavallo, che ho venduto ieri sera." 

"Certo che te l'hanno pagata bene!" esclamò il grande Claus; corse a casa, prese una scure e colpì a morte i suoi quattro cavalli, poi tolse la pelle e andò in città.

"Pelli, pelli! chi vuole comprare pelli?" gridava per le strade.

Tutti i calzolai e i conciatori corsero da lui per sapere quanto voleva per le pelli.

"Un sacco pieno di denari per ognuna."

"Sei matto?" dissero tutti "credi che abbiamo tanti denari?"

"Pelli, pelli! Chi vuol comprare pelli?" gridò di nuovo, ma a tutti coloro che chiedevano quanto costassero le pelli, rispondeva: "Un sacco di denari."

"Ci vuol prendere in giro" dissero tutti e così i calzolai presero le loro cinghie di cuoio e i conciatori i loro grembiuli di cuoio e cominciarono a picchiare il grande Claus.

"Pelli, pelli!" lo schernivano "te la diamo noi una pelle che ti si adatti! vattene dalla città!" gridarono, e il grande Claus dovette darsela a gambe a più non posso, perché non ne aveva mai prese tante.

"Ah" disse una volta giunto a casa "adesso il piccolo Claus la deve pagare, lo pesterò a morte per questo."

Ma al piccolo Claus era morta la nonna; in realtà era stata cattiva con lui, ma ne era comunque addolorato e prese la morta e la mise nel letto ben caldo, per vedere se non riusciva a resuscitare. Sarebbe rimasta lì tutta la notte, e lui si sedette in un angolo e dormì su una sedia, come aveva del resto già fatto altre volte.

Mentre dormiva, la porta si aprì e il grande Claus entrò con la sua scure: sapeva bene dov'era il letto del piccolo Claus, andò direttamente lì e colpì in fronte la nonna che era già morta, pensando che fosse il piccolo Claus.

"Ecco qua!" gridò "ora non mi prenderai più in giro!" e così se ne andò di nuovo.

"È proprio un uomo malvagio e cattivo!" disse il piccolo Claus "mi voleva colpire a morte; per fortuna la vecchia nonna era già morta, altrimenti l'avrebbe uccisa lui."

Vestì la nonna con gli abiti della festa, prese in prestito un cavallo dal vicino, lo attaccò al suo carro e mise la vecchia nonna sul sedile posteriore, perché non potesse cadere durante il viaggio; infine partirono passando per il bosco; quando il sole sorse, erano giunti a una locanda; lì si fermò il piccolo Claus e entrò per mangiare qualcosa.

L'oste aveva moltissimi soldi e era un brav'uomo, ma era iracondo, come se in lui ci fosse pepe e tabacco.

"Buon giorno" disse al piccolo Claus "hai avuto premura di indossare i vestiti belli oggi!"

"Sì" rispose il piccolo Claus "devo andare in città con la nonna, lei è rimasta sul carro, non vuole assolutamente entrare. Non volete portarle un bicchiere di idromele? Parlatele a voce alta, perché non ci sente molto bene."

"Certamente!" replicò l'oste e riempì un grande bicchiere di idromele, che portò fuori alla nonna morta che stava sulla carrozza. 

"Qui c'è un bicchiere di idromele da parte di vostro nipote!" disse l'oste, ma la morta non disse neanche una parola.

"Non sentite?" gridò l'oste più che poté. "Ecco dell'idromele da parte di vostro nipote!"

Di nuovo gridò lo stesso e poi ancora, ma dato che lei non si muoveva affatto, si arrabbiò e le gettò il bicchiere in faccia, così che l'idromele le si versò sul naso e lei cadde riversa nel carro, perché non era stata legata saldamente.

"Come!" gridò il piccolo Claus, si precipitò fuori e afferrò l'oste: "Hai ucciso mia nonna! Guarda che grande buco ha sulla fronte!."

"Oh, è stata una disgrazia!" gridò l'oste e congiunse le mani. "È tutta colpa del mio caratteraccio! Povero piccolo Claus; ti darò un sacco di denaro e farò seppellire tua nonna come se fosse la mia, ma tu non devi dirlo a nessuno, perché altrimenti mi taglieranno la testa, e l'idea è così disgustosa!"

Così il piccolo Claus ebbe un sacco di denari e l'oste seppellì la vecchia nonna come se fosse stata la sua.

Non appena il piccolo Claus fu a casa con tutti quei soldi, mandò un ragazzo dal grande Claus, per farsi prestare il misurino .

"Come?" esclamò il grande Claus "non l'avevo colpito a morte? Devo andare io stesso a controllare!" e così si recò dal piccolo Claus col misurino.

"E dove hai ottenuto tutti questi soldi?" gli chiese, e sgranò gli occhi quando vide quanti altri soldi c'erano!

"Tu hai ucciso mia nonna e non me!" disse il piccolo Claus. "Ora l'ho venduta e ne ho ricavato un sacco di denari."

"Ne vale proprio la pena!" disse il grande Claus; si affrettò a casa, prese la scure e uccise la nonna, poi la mise sul carro e andò in città a casa del farmacista e chiese se voleva comprare un cadavere.

"Chi è e da dove arriva?" chiese il farmacista.

"È mia nonna" rispose il grande Claus "l'ho uccisa per un sacco di denari."

"Dio ci salvi!" disse il farmacista. "Voi parlate troppo! Non dite una cosa simile, altrimenti perderete la testa!" e poi gli spiegò quale cosa terribile aveva commesso e che uomo cattivo era e che doveva essere punito; ma il grande Claus si impressionò talmente che saltò sul carro, frustò i cavalli e volò a casa.

Il farmacista e gli altri credevano che fosse matto e lo lasciarono andare dove pareva a lui.

"Me la pagherai!" disse il grande Claus una volta raggiunta la strada maestra. "Sì, me la dovrai pagare, piccolo Claus!" e non appena fu a casa prese il sacco più grande che aveva, si recò dal piccolo Claus e gli disse: "Mi hai preso in giro un'altra volta. Prima ho ucciso i miei cavalli, poi mia nonna e tutto per colpa tua, ma non mi ingannerai mai più!" e così lo prese per la cintola e lo cacciò nel sacco, se lo mise sulle spalle e gli gridò: "Adesso ti affogo."

C'era un bel pezzo di strada prima di arrivare al torrente e il piccolo Claus non era tanto leggero da portare. La strada passava vicino alla chiesa, l'organo suonava e la gente cantava proprio bene, lì dentro; così il grande Claus appoggiò il sacco col piccolo Claus vicino all'ingresso della chiesa e pensò che era una buona cosa andare a sentire un salmo prima di proseguire. Il piccolo Claus non poteva certo fuggire e tutta la gente era in chiesa. Cosi entrò anche lui.

"Ah, ah!" gemeva il piccolo Claus chiuso nel sacco; continuava a rigirarsi, ma gli era impossibile sciogliere il nodo che lo legava.

In quel mentre passò di lì un vecchio mandriano con i capelli bianchi come il gesso e un grosso bastone tra le mani, guidava una grande mandria di mucche e tori che, passando sul sacco dove il piccolo Claus era rinchiuso, lo rovesciarono.

"Ah" gemette il piccolo Claus "sono così giovane e già devo andare in cielo!"

"Oh, povero me!" disse il mandriano "io invece sono così vecchio, ma ugualmente non posso andarci ancora."

"Apri il sacco" gridò il piccolo Claus "mettiti qui al mio posto e sarai subito in cielo."

"Certo che mi piacerebbe molto" disse il mandriano e liberò il piccolo Claus che saltò fuori dal sacco.

"Ci pensi tu alla mandria?" chiese il vecchio, e entrò nel sacco che il piccolo Claus legò di nuovo, poi il piccolo Claus se ne andò con le mucche e i tori.

Poco dopo uscì dalla chiesa il grande Claus e si mise il sacco sulla schiena; sentì che il sacco era più leggero, perché il mandriano pesava la metà del piccolo Claus. "Com'è leggero ora! forse perché ho sentito un salmo!" e così arrivò al torrente che era grande e profondo, e vi gettò il sacco col vecchio mandriano gridando: "Visto? ora non potrai più ingannarmi!"; pensava che dentro ci fosse il piccolo Claus.

Poi se ne tornò a casa, ma quando giunse a un crocicchio, incontrò il piccolo Claus che stava guidando la mandria.

"Ma come?" disse il grande Claus. "Non ti avevo affogato?"

"Sì. Mi hai gettato nel torrente, ma era mezz'ora fa."

"E dove hai ottenuto quella splendida mandria?" gli chiese il grande Claus.

"È una mandria di mare!" spiegò il piccolo Claus. "Ora ti racconto com'è andata. E grazie a te, che mi hai annegato, adesso sto proprio bene, sono ricco, e lo puoi credere! Avevo molta paura, là nel sacco, e il vento mi fischiava nelle orecchie quando tu mi gettasti giù dal ponte nell'acqua gelida. Raggiunsi subito il fondo; ma non mi feci nulla, perché laggiù cresce l'erba più tenera. Vi caddi sopra e subito il sacco venne aperto, e la più graziosa delle creature, vestita di bianco con una corona verde sui capelli bagnati, mi prese per mano e mi disse: "Sei qui, piccolo Claus? Ora hai per la prima volta una mandria! e un miglio più in su ce n'è un'altra che io ti voglio donare." Allora vidi che per la gente del mare il torrente era la strada maestra. Sul fondo andavano a piedi o in carrozza dal mare fino a dove il torrente finisce. Era così bello con i fiori e l'erba freschissima, e i pesci che nuotavano nell'acqua mi sfioravano le orecchie come fanno gli uccelli nell'aria. Che gente simpatica e quanto bestiame camminava lungo le siepi e i fossi!"

"Ma perché allora te ne sei tornato quassù?" gli chiese il grande Claus. "Io non l'avrei fatto se laggiù fosse stato così bello!"

"Sì" rispose il piccolo Claus "ma sono stato furbo. Tu hai sentito quello che ti ho detto: la ragazza del mare disse che un miglio più su – dunque lungo il torrente, perché lei non può arrivare da altre parti – c'è un'altra mandria per me. Ma io so che il torrente è pieno di insenature, una qui, una là, è tutto un lungo giro, quindi è più veloce, quando si può fare, tornare sulla terra e attraversare il torrente; in questo modo risparmio quasi mezzo miglio e arrivo più in fretta alla mia mandria di mare."

"Come sei fortunato!" disse il grande Claus. "Credi che anch'io avrei una mandria di mare, se arrivassi sul fondo del torrente?"

"Sì, credo di sì, ma io non riesco a portarti nel sacco fino al torrente, sei troppo pesante per me; se vai fin là da solo e poi ti infili nel sacco, ti butterò giù io con grande piacere."

"Grazie infinite!" disse il grande Claus. "Ma se poi non avrò la mia mandria di mare, una volta giù, allora te ne buscherai tante! Ne puoi star certo."

"Oh, no! non essere così cattivo!" e così andarono al torrente. E la mandria, che era assetata, non appena vide l'acqua corse più che poté per avere da bere.

"Vedi come si affrettano?" disse il piccolo Claus. "Non vedono l'ora di raggiungere il fondo di nuovo."

"Sì, ma ora aiutami, altrimenti ti pesto!" e così si infilò nel grande sacco che si trovava sulla schiena di un toro. "Mettici dentro anche una pietra, così sono sicuro di annegare."

"Va bene così" rispose il piccolo Claus, ma mise ugualmente una grande pietra nel sacco, lo legò bene e diede una spinta: plump! il grande Claus cadde nel torrente e raggiunse subito il fondo.

"Temo proprio che non troverà mandrie!" esclamò il piccolo Claus, e si avviò verso casa con quello che aveva.