mercoledì 30 maggio 2018

Philip Roth / Tutti gli esordi

Un ritratto di Philip Roth a New York. Lo scrittore americano è nato a Newark, nello stato del New Jersey, il 19 marzo 1933 (foto Reuters/Eric Thayer)

Philip Roth, tutti gli esordi

Le prove giovanili e la nascita del personaggio di Nathan Zuckerman: esce
per i «Meridiani» Mondadori la raccolta dei romanzi dello scrittore dal 1959 al 1986

di EMANUELE TREVI
22 ottobre 2017 (modifica il 23 ottobre 2017 | 22:12)

«Scrivila, per amor di Dio. Scrivi quella storia». Philip Roth non si è mai dimenticato queste parole di incoraggiamento, ascoltate quando era ancora giovanissimo, in una taverna della Chicago University. A pronunciarle fu Richard Stern, Dick per gli amici, critico influente, romanziere lui stesso, e grande educatore di talenti in erba.
È un episodio che Roth ha più volte rievocato, quasi trasformandolo in un piccolo «mito dell’origine», e vale la pena tornarci sopra, perché contiene un’inestimabile lezione di scrittura. Per divertire Stern, durante un pranzo Roth gli aveva raccontato una sua storia d’amore con una ragazza dei sobborghi ricchi di Newark, figlia di un industriale del vetro. Entrambi ebrei, ma divisi da un abisso sociale. Gli piaceva raccontare storie di famiglia e di quartiere. La comunità ebraica di Newark, in effetti, con i suoi tipi umani, le sue leggende, i suoi pettegolezzi, era una miniera narrativa inesauribile. Ma tutti i giovani commettono lo stesso errore iniziale, credono che una cosa sono i racconti che si fanno agli amici, un’altra ciò che si dovrebbe scrivere. È così che la letteratura diventa una falsa vocazione, una specie di sordità che impedisce di ascoltare la propria voce, di affidarsi al suo ritmo, di riprodurlo sulla pagina.



 Romanzi 1959-1986 (pp. CXXVIII-1.888, e 80) è il primo di tre volumi che saranno dedicati a Philip Roth (Newark, Stati Uniti, 1933) nella collana dei «Meridiani» Mondadori in vendita dal 24 novembre
Romanzi 1959-1986 (pp. CXXVIII-1.888, e 80) è il primo di tre volumi che saranno dedicati a Philip Roth (Newark, Stati Uniti, 1933) nella collana dei «Meridiani» Mondadori in vendita dal 24 novembre

Quell’esortazione di Stern ebbe il valore di un orientamento decisivo. Ciò che cercava a tentoni, l’ambizioso apprendista che era Roth lo aveva sotto il naso, come la famosa lettera rubata. «Scrivi quella storia» non ha un significato diverso da «vivi la tua vita», così come i grandi maestri, Conrad o James o Flaubert, avevano vissuto la loro. «Scrivila, per amor di Dio». Lo ha detto benissimo Alessandro Piperno: la lettura del Lamento di Portnoy gli ha insegnato che bisogna lavorare con il «poco» che la sorte ci ha riservato. Il «tanto» degli altri non vale nulla. Ci vollero un paio d’anni, ma nella primavera del 1959 il libro d’esordio di Roth, Goodbye, Columbus, realizzò nel modo più incantevole e sorprendente che si potesse immaginare l’auspicio di Dick Stern. Iniziò così, a ventisei anni, una carriera tra le più ricche, complesse, coinvolgenti che la storia della letteratura moderna ricordi.
Di fronte a tanti capolavori, a un senso così acuto e profondo della natura umana, a un umorismo così irresistibile, si stenta davvero a credere che il «Meridiano» dei Romanzi di Philip Roth curato da Elèna Mortara sia solo il primo dei tre che verranno dedicati all’opera del gigante (come altrimenti definirlo?) di Newark. Eppure è proprio così: questo grosso volume è solo l’inizio, e arrivati alla Controvita, il libro del 1986 che chiude l’indice, non possiamo dimenticare che il meglio deve ancora venire, che la strada che porta, tanto per fare un esempio, alle ultime pagine di Pastorale americana è ancora lunga e accidentata.
L’opera di certi scrittori fa pensare a una crescita arborea, tanto è saggiamente calibrato il rapporto tra le energie e i risultati. Bernard Malamud, tanto adorato da Roth, procedeva in questo modo. Ma Roth appartiene a tutt’altra razza: non amministra saggiamente il capitale, va avanti per strappi, lacerazioni. Quanto più lo si legge e lo si ama, tanto più si è consapevoli che è capace di imboccare strade sbagliate. L’esperimento soverchia sempre l’esperienza. Se dovessi esprimere il senso profondo della sua arte in una formula sintetica, la prenderei a prestito dal più grande critico russo del Novecento, Viktor Sklovskij, che intitolò il suo ultimo libroL’energia dell’errore. La conseguenza più emozionante di questo atteggiamento è che, di fronte a una raccolta dei suoi libri, proviamo l’inebriante sensazione di leggere uno scrittore che, in virtù di un singolare sortilegio, sia riuscito a esordire molte volte: da giovane, da vecchio, durante la mezza età. A dieci anni esatti da Goodbye, Columbus, e dopo due libri scarsamente riusciti, Il lamento di Portnoy non è forse un nuovo, dirompente inizio?
In un modo o nell’altro, dai romanzi migliori di Conrad a quelli di Bernhard,passando per i monologhi di Beckett, tutti i massimi capolavori letterari del Novecento sono un omaggio alla voce umana: alla sua capacità di persuasione e mistificazione, al suo carattere demiurgico, alla sua doppia natura corporale e spirituale. La lunga confessione di Alexander Portnoy presuppone un solo interlocutore, muto fino all’ultima pagina: il dottor Spielvogel, psicoanalista di presumibile scuola freudiana. È in questa particolare situazione che il gesto narrativo rivela le sue vocazioni più nascoste e represse: la profanazione, la dissacrazione. Nel primo libro, l’evocazione della famiglia ebraica era tutta giocata sul filo di un’ironia arguta e malinconica. Nel Lamento, l’impareggiabile maestria dello stile è messa al servizio di una tonalità grottesca che non conosce più cautele o censure. Lo scandalo fu tale che addirittura Gershom Scholem, l’eminente filosofo e studioso della Cabala e del misticismo ebraico, professore all’Università di Gerusalemme, scese in campo definendo quello di Roth «il libro auspicato da tutti gli antisemiti». Ma cosa è possibile tradire, se non ciò che amiamo ? E come può un artista essere se stesso e rispettare le regole dell’appartenenza? Sembra quasi naturale che tutti i conflitti che Roth si è trovato ad affrontare abbiano preso corpo in un personaggio narrativo destinato a svolgere un ruolo decisivo nella sua opera. Sto parlando, ovviamente, di Nathan Zuckerman, l’intrepido e disgustato esploratore dell’«egosfera», scrittore ebreo di Newark, che con Roth condivide lo scandalo e il successo, oltre alla passione per le avventure erotiche.
Solo molto superficialmente si potrebbe definire Zuckerman un semplice «alter ego dello scrittore». A partire dal 1979, quando compare come protagonista del suo primo romanzo, Lo scrittore fantasma, Zuckerman, quest’«uomo diviso dagli altri», è diventato il personaggio più ricco e complesso della letteratura dei nostri tempi. Libro dopo libro, Roth lo ha sottosposto all’azione del tempo, usurandone il corpo ed esacerbandone i difetti del carattere, ma anche rendendolo capace di lucidità, compassione, senso esatto del destino umano e dei suoi innumerevoli scherzi. Sin dai primi libri che Roth gli dedica (noi italiani abbiamo la fortuna di leggerli nelle bellissime versioni di Vincenzo Mantovani), ci rendiamo conto che Zuckerman è sì uno scrittore, ma che la sua portata umana eccede di gran lunga un particolare mestiere, una particolare origine o condizione sociale. È un’immagine comica e disperata della natura umana quella che ci si rivela in libri come Zuckerman scatenato o La lezione di anatomia. È la storia di tutti nella misura in cui dobbiamo affrontare la solitudine necessaria a diventare noi stessi, e lo spavento che ne consegue. Senza che tutta questa fatica approdi necessariamente a una qualche forma di illusoria saggezza. «L’anima», osserva Zuckerman in un lampo di vertiginosa consapevolezza, «affonda nel ridicolo proprio nel momento in cui lotta per la propria salvezza».
Ci fosse stato un Dick Stern ad ascoltarlo, non avrebbe potuto che dirgli: scrivi di questo, per l’amor di Dio, scrivi questa storia, lascia perdere tutto il resto.










sabato 26 maggio 2018

Luca Marinelli dà voce a Philip Roth / «Lo sentivo con me»




Luca Marinelli dà voce a Philip Roth
«Lo sentivo con me» 

Il supercattivo di «Lo chiamavano Jeeg Robot» interpreta «Lamento di Portnoy»

di CECILIA BRESSANELLI
25 gennaio 2017



Luca Marinelli (Roma, 1984); nel riquadro, lo scrittore americano Philip Roth (Newark, 1933)Luca Marinelli (Roma, 1984); nel riquadro, lo scrittore americano Philip Roth (Newark, 1933)
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«Sarebbe bello leggerli sempre così i libri, ad alta voce». Luca Marinelli è uno degli attori del momento, protagonista nel 2015 dell’ultimo film di Claudio Caligari (1948-2015), Non essere cattivo, e interprete dello Zingaro, il supercattivo del film rivelazione dello scorso anno Lo chiamavano Jeeg Rogot, di Gabriele Mainetti. È lui a dar voce al protagonista del Lamento di Portnoy di Philip Roth nell’audiolibro in uscita giovedì 26 gennaio per Emons (1cd mp3, versione integrale, e 15,90/download euro 9,54; durata 8 ore e 1 minuto).


Ironico e dissacrante, Alex Portnoy/Luca Marinelli ripercorre sul divano dell’analista le ossessioni morbose della sua vita. In un monologo che è un pirotecnico inno alla libertà. Lamento di Portnoy è il secondo titolo di Philip Roth pubblicato da Emons dopo Pastorale americana, letto da Massimo Popolizio (2016). «In sala di registrazione non ero solo — racconta Marinelli, nel video che ci accompagna dietro le quinte della realizzazione dell’audiolibro — con me c’era il grande autore americano, che mi guardava perché mi aveva dato in mano la sua opera».

CORRIERE DELLA SERA



giovedì 24 maggio 2018

Morto Philip Roth, dissacrava con le armi del sesso e dell’ironia

Philip Roth

Morto Philip Roth, dissacrava

con le armi del sesso e dell’ironia

Lo scrittore americano è scomparso a 85 anni. Eterno candidato al Nobel 
se ne va proprio nell’anno in cui il Nobel per la Letteratura viene sospeso


23 maggio 2018 (modifica il 23 maggio 2018 | 09:11)



L’eterno candidato al Nobel per la Letteratura se ne vaproprio nell’anno in cui il Nobel per la Letteratura viene sospeso. E per una storia di prevaricazioni sessuali che solo con molta superficialità può essere associata alle atmosfere e alle ossessioni che trasudano dalle opere di Philip Roth. Nathan Zuckerman, l’alter ego di Roth, non ha né l’arroganza né la volgarità né la miseria del molestatore. Nell’Animale morente, Roth dà voce alle angosce, alla paura della morte, ai fantasmi che avvelenano l’esistenza di un professore sfidato dal tabù della vitalità negata, delle forze che scemano, del desiderio che ti perseguita quando vieni sfidato dalla giovinezza sfacciata e apparentemente (e solo apparentemente) esuberante. I ricatti sessuali di un vecchio laido sulla giovane studentessa non c’entrano niente con questa storia magnifica e tragica. Ma Roth ha sempre subìto la prepotenza dei fraintendimenti. Con il Lamento di Portnoy qualcuno volle vedere, pesantemente giocando sull’equivoco, un’esibizione invereconda di pornografia adolescenziale. Qualcun altro, nel mondo del tradizionalismo ebraico, male interpretò quell’opera tanto scandalosa come un attacco alle fondamenta dell’identità degli ebrei, una derisione crudele e gratuita, manifestazione tipicamente psicopatologica di odio di sé stesso di un giovane ebreo che insulta il suo popolo e lo vuole mettere alla berlina.
Tutto falso, tutto pretestuoso. Ai due estremi della vita, l’animale morente e il ragazzo ossessionato dalla febbre di un erotismo acerbo ma incontenibile raccontano una storia che non può essere ridotta e svilita nella mediocrità di una cronaca, o peggio nella galleria dei cattivi esempi che lettori malintenzionati potrebbero ritrovare nelle pagine di due grandi romanzi. Roth, come personaggio che faceva opinione e aveva costruito nel corso degli anni e dei decenni in tutto il mondo una numerosa legione di fan affezionati e fedeli, sapeva cogliere il grottesco nella seriosità, il lato desolatamente comico della retorica ufficiale, la macchia nascosta nel lindore della correttezza neoconformista. Veniva amato per questo dagli insofferenti, da chi detesta il tribunale delle buone cause, dalla polizia culturale che si annida nei nuovi fustigatori delle parole e dei concetti sconvenienti. Roth era un pilastro della cultura democratica americana, ma nella Macchia umana la sua visione delle cose non gli impediva di ignorare la maschera dell’intolleranza di chi, soprattutto nelle accademie intrise di un fanatismo ideologico sempre più pervasivo, fa di un errore un peccato mortale, di un’ingenuità una perversione morale da punire con il linciaggio e l’esclusione. Roth ha guardato con simpatia ai sommovimenti che hanno scosso l’humus bigotto della vecchia America, ma con Pastorale americana ha saputo descrivere con animo dolente lo sgretolamento tragico di una tradizione che pure si era meritata un rispetto e una solidità di valori destinati tuttavia a svanire. Roth soffriva per le vittore repubblicane ma irrideva il popolo democratico che vaneggiava baloccandosi con i fantasmi di un auto-esilio caricaturale. Anche per questo Philip Roth ogni anno, ogni autunno, veniva immancabilmente indicato come possibile vincitore del Nobel che sistematicamente gli sarebbe stato negato. E forse gli sarebbe stato negato anche quest’anno se il Nobel non si fosse poi negato a sé stesso.
L’Accademia diffidava di uno scrittore così poco accademico, di un pensatore (sì, Roth pensava, studiava, si informava, non si atteggiava a poeta romantico trascinato istintualmente dalla febbre dell’immaginazione scatenata) che non si adeguava al Pensiero tramandato e consacrato. Un’Accademia, come quella svedese, che adesso si è rivelata corrosa dall’ipocrisia e della doppia verità, i difetti che Philip Roth osteggiava e colpiva con il suo sarcasmo e il suo disincanto.
Roth sapeva usare le armi dell’umorismo da esercitare su tutto, anche su Israele e sul sogno sionista, che difendeva con passione, ma senza la cecità del seguace fanatico incapace di vedere le proprie manchevolezze. Roth coltivava la pietas per l’animale morente in lui e in noi. Ma non esitava a definire, contro le melensaggini dell’ottimismo pubblico, la vecchiaia un «massacro». Sì, massacro. Non l’allegro declinare accompagnato dagli incoraggiamenti del giovanilismo ridente ma un cupo, tragico massacro. Da raccontare con le armi acuminate dell’ironia. Ecco perché c’era un esercito di seguaci che lo ammirava e un esercito di detrattori che lo detestava. Con Roth o contro Roth. Anche ora, a battaglia conclusa.




mercoledì 23 maggio 2018

Morto Philip Roth, voce d’America

Morto Philip Roth, voce d’America

Addio allo scrittore più influente e complesso della letteratura contemporanea
Fu autore di opere come «Lamento di Portnoy» e «Pastorale americana»

di Cristina Taglietti
23 maggio 2018 (modifica il 23 maggio 2018 | 15:16)

La morte di Philip Roth, a poche settimane dall’annuncio dell’Accademia di Svezia (travolta dagli scandali) che il premio Nobel 2018 non verrà assegnato, sembra quasi l’ultimo sberleffo di un maestro che a quel riconoscimento è stato candidato quasi ogni anno a furor di popolo senza mai ottenerlo. Se n’è andato lo scrittore forse più influente e complesso della letteratura contemporanea, la voce che più di ogni altra ha saputo frugare con una sincerità spietata, umana ma mai consolatoria, nelle inquietudini della nostra epoca, smascherando ogni infingimento e nello stesso tempo scardinando le regole del romanzo.

Nato a Newark (New Jersey) nel 1933, figlio di una famiglia della piccola borghesia ebraica, Roth ha raccontato, con una forte carica espressiva che domina con assoluta maestria vari registri — dall’ironico al comico al grottesco — quella comunità con i suoi tipi umani, le sue leggende, i suoi pettegolezzi, e più in generale la specificità della condizione ebraica nel contesto dell’America di oggi. Uno sguardo unico, originale, che sarà un modello inarrivabile per molti epigoni, anche per la sua capacità di diventare, suo malgrado, uno scrittore mainstream.

Quella di Philip Roth è una produzione organica e sterminata: oltre trenta romanzi pubblicati in Italia da Einaudi e raccolti in tre Meridiani (il primo, curato da Elena Mortara, è uscito lo scorso novembre). L’esordio è nel 1959 quando, appena ventiseienne, pubblica la raccolta di sei racconti Addio, Columbus. È l’amico e collega Richard Stern, che come lui all’epoca insegna all’università di Chicago e che resterà sempre il suo maestro, a spingerlo a scrivere, dopo avere ascoltato il comico racconto di Roth di un’estate passata a corteggiare la ricca figlia di un commerciante ebreo nel New Jersey. Nasce così il racconto che dà il titolo al libro. La storia d’amore tra due ventenni serve da canovaccio per riflettere su quelli che diventeranno i suoi temi classici: il sesso, l’amore, la religione, le ipocrisie che costituiscono lo zoccolo duro della società americana. È nel 1969 che ottiene il primo grande successo (e il primo vero scandalo) con Il lamento di Portnoy, in cui racconta in modo esplicito la tragicomica conquista del piacere (soprattutto solitario) che un trentenne ebreo, voce narrante dalla grande potenza, destina al proprio psicanalista, interlocutore muto fino all’ultima pagina.Dal 1979 con Lo scrittore fantasma Roth affida le sue ossessioni al suo alter ego letterario più celebre, lo scrittore Nathan Zuckerman, l’esploratore dell’«egosfera» che invecchierà con lui, acquistando in lucidità e visione. Nel 1981 esce Zuckerman scatenato (il riferimento del titolo è al Prometeo liberato di Percy Shelley, e Roth scatenato sarà il titolo che Claudia Roth Pierponty darà alla biografia dello scrittore uscita nel 2014). Il romanzo traccia il ritratto dello scrittore che il successo distrugge, proprio perché tutti lo scambiano per l’eroe del suo libro. Ambientato negli anni degli assassinii di Bob Kennedy e di Martin Luther King, ritrae uno Zuckerman incapace di godersi il successo, ridotto a una vita quasi da recluso, temendo che qualcuno, dopo averlo etichettato come «nemico degli ebrei», decida di vendicarsi.

Zuckerman porta con sé tutta una serie di personaggi, come il fratello dentista, Henry, protagonista de La controvita (1986): deve sottoporsi a un intervento chirurgico che potrebbe renderlo impotente e chiede consiglio al fratello. Qui la scrittura offre diverse voci e diversi scenari e considerare le opzioni equivale a diverse possibilità di fare letteratura.

Osservatore attento e feroce della storia che si svolge intorno a sé, Zuckerman sarà presente, in forma più defilata, anche in quello che viene considerato il capolavoro di Roth, Pastorale americana, del 1997, dove lo scrittore affronta in modo più aperto i temi politico-sociali e che gli vale il premio Pulitzer. Pastorale americana è il primo titolo di una trilogia a cui seguono Ho sposato un comunista (dove Roth ritrae, senza farle sconti, la seconda moglie, Claire Bloom, un’attrice inglese per amore della quale lo scrittore aveva provato a vivere a Londra ) e La macchia umana, dove viene portata al culmine la crociata contro il moralismo puritano nella sua ultima deriva: il politicamente corretto («Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui...»).

La produzione narrativa si ferma nel 2010 con Nemesi: qui Roth chiude il suo orizzonte al quartiere ebraico di Newark dove, nel luglio 1944, scoppia un’epidemia di poliomielite. Quasi un ritorno alle origini per quello che sarà il romanzo dell’addio. Al contrario di molti colleghi, abituati a una routine di lavoro stakanovista, Roth non ha mai nascosto che scrivere per lui fosse uno sforzo a cui dedicava non più di due ore al giorno. «Ho vissuto 50 anni in una stanza silenziosa come il fondo di una piscina, in preda a emozioni contrastanti in una tremenda solitudine» ha detto in una delle ultime interviste, pubblicata dal «New York Times» 

.Dopo aver smesso di scrivere (lo aveva annunciato nel 2012 in un’intervista al magazine «Les Inrockuptibles») Roth si divideva tra il villino nella campagna del Connecticut dove ha scritto molti dei suoi libri, e l’Upper West Side di New York. Convinto di aver composto ormai le sue opere migliori e che qualunque altro libro non sarebbe stato abbastanza buono, ha dato disposizione che i suoi archivi vengano distrutti.


CORRIERE DELLA SERA



DRAGON

PESSOA
Morre Philip Roth, gigante literario norte-americano, aos 85 anos

RIMBAUD
Roth, DeLillo, Adonis / Retour sur les loupés éternels du Nobel de littératureL’écrivain américain Philip Roth est mort à l’âge de 85 ans

DANTE
Sono Philip Roth / Ubriaco di disperazione