martedì 30 giugno 2015

Rubem Fonseca / Racconto d'amore

René Magritte
Rubem Fonseca

RACCONTO D’AMORE 



Quando ero nell’Esercito, avevo il grado di artificiere. So confezionare qualsiasi tipo di bomba a mano, come quelle usate dai terroristi.

L’ordigno che stavo preparando doveva avere un effetto fulminante, affinché la vittima non soffrisse. E prima dell’esplosione, era necessario che emanasse un raggio di luce abbagliante che facesse percepire alla vittima l’imminenza dell’esplosione.

La persona che volevo uccidere era mio figlio João.

Mia moglie Jane era incinta quando fui inviato all’estero con un contingente dell’Esercito al servizio delle Nazioni Unite. Rimasi via quasi due anni. Scrivevo costantemente a Jane e lei mi rispondeva. Quando mio figlio nacque e gli misero nome João, le lettere di Jane divennero strane. Mi riferiva che aveva bisogno di parlarmi di una cosa molto seria, ma non sapeva come farlo. Io le rispondevo impaziente di dirmelo comunque, ma lei si ostinava ad essere poco chiara, il che non faceva che peggiorare la situazione.

Ad un certo punto Jane smise di rispondere alle mie lettere.

Quando tornai dalla missione ONU, mi precipitai verso casa non appena sceso all’aeroporto. Jane mi aprì la porta. Il suo aspetto mi sorprese. Era invecchiata, pallida, sembrava malata.

“Dov’è João?”, le chiesi.

Jane scoppiò in un pianto convulso, indicando la porta della stanza dove lui si trovava.

Entrai nella stanza, seguito da Jane.

João era sdraiato nel lettino. Un bel bambino che nel vedermi sorrise. Lo presi in braccio.

In quel momento fui colto da una sorpresa che mi lasciò attonito. João aveva una sola gamba e un solo braccio, gli unici arti che possedeva.

Jane mi diede un foglio tutto spiegazzato, una ricetta medica con su scritto: questo bambino è affetto da focomelia, una anomalia congenita che impedisce lo sviluppo di braccia e gambe.

Jane si prendeva cura di João con infinita dedizione. Ma era sempre più stremata e morì quando João aveva sei anni.

Lasciai l’esercito per poter accudire mio figlio. Quando gli chiedevo se volesse qualcosa, mi rispondeva “Voglio andare in guerra”.

Il suo deficit fisico si era aggravato con l’età. Aveva quindici anni, ma non poteva camminare, ed era impossibilitato a svolgere qualsiasi attività fisica. “Voglio andare in guerra papà”, mi chiese ancora una volta.

Allora decisi che sarebbe andato in guerra. Così ho preparato la bomba.

Con la bomba in mano dissi:

“Figlio mio, sei stato convocato per andare in guerra”.

“Grazie, papà adorato, ti amo tantissimo”.

Io lo amavo ancora di più.

Gli misi la bomba in mano.

“Questa bomba esploderà. È la guerra”, gli dissi.

“È la guerra”, ripeté felice.

Uscii dalla stanza dove mi trovavo. Poco dopo vidi il bagliore.

Anche João vide quel bagliore, felice, prima dell’esplosione che lo uccise.

Amavo mio figlio.

Rubem Fonseca
Amálgama
Editora Nova Fronteira, Rio de Janeiro, 2013

Rubem Fonseca (Juiz de Fora, 1925) è considerato il più grande scrittore di narrativa vivente in Brasile. 



lunedì 29 giugno 2015

James Salter / The Art of Fiction / Un'intervista




James Salter
The art of fiction
No. 133
Intervista di Edward Hirsch 

The Paris Review No. 127
Summer 1993


James Salter è un narratore consumato. I suoi modi sono precisi ed eleganti: si passa le mani tra i capelli grigi, ride come un fanciullo e ha uno splendido accento di New York. A sessantasette anni ha la compostezza di un ex-militare. Racconta aneddoti facilmente, appassionatamente, ma conserva anche un alone di riservatezza. C'è una zona di privacy in lui che non si può violare.

Salter (James Horowitz) è nato nel 1925 ed è cresciuto a New York City. Si è laureato a West Point nel 1945 e fu assegnato al US Army Air Force come pilota. Ha servito gli Stati Uniti per dodici anni nel Pacifico, in Europa e Corea, dove ha volato per oltre un centinaio di missioni di combattimento come pilota di caccia. Si dimise dalla Air Force dopo che, nel 1957, uscì il suo primo romanzo, e si stabilì a Grand View-on-Hudson, a nord di New York. Da allora si è guadagnato da vivere come scrittore. Da un precedente matrimonio ha avuto tre figli, un maschio e due femmine. Adesso vive con la scrittrice Kay Eldredge e il loro figlio di otto anni, Theo. Dividono il loro tempo tra Aspen, Colorado e Bridgehampton, Long Island.


The Art of Fiction No. 133 Manuscript

Salter ha pubblicato cinque romanzi: The Hunters (1957), The Arm of Flesh (1961), A Sport and a Pastime (1967), Light Years (1975), and Solo Faces (1979). Ha ricevuto un premio dalla American Academy e Institute of Arts and Letters nel 1982. Cinque dei suoi racconti sono apparsi in raccolte di O. Henry e uno in Best American Short Stories. La sua collezione Dusk & Other Stories (1988) ha ricevuto il PEN / Faulkner Award.

Nel mese di agosto del 1992, durante i quattro giorni che ho visitato Bridgehampton, è piovuto continuamente, ma a malapena mi sono reso conto del clima; il nocciolo di quel poco tempo era sedersi al tavolo della sala da pranzo, cercare di formulare domande interessanti e soprattutto ascoltare le risposte espresse in maniera molto accurata da Salter. Anche nelle giornate grigie, la tradizionale casa a due piani di scandole in cedro, con le sue numerose porte e finestre francesi, sembrava immersa nella luce. Di giorno abbiamo bevuto tè freddo, e un Martini, preparato squisitamente, ogni notte (Salter ad un certo punto ha calcolato di aver bevuto 8700 Martini nella sua vita). Successivamente, la piccola compagnia si riuniva a cena dove si consumavano molte bottiglie di vino; l'intervistatore gironzolando esaminava i menù incorniciati sul muro, l'incisione di due bagnanti di Andrè De Segonzac e la pittura in miniatura del paesaggio vicino alla casa, di Sheridan Lord.

Salter scrive in uno studio al secondo piano, una piccola stanza ariosa con un soffitto a punta e una finestra a mezza luna. La sua scrivania è un grande tavolo di campagna in legno di pino vecchio. Ovunque ci sono segni rivelatori del memoir su cui ha lavorato negli ultimi anni; le buste da lettera scarabocchiate, i pezzi di carta interamente ricoperti dalla sua grafia minuta. La mattina che mi ha lasciato solo in studio, ho trovato le copie consunte dell'autobiografia di Nabokov, Speak, Memory e quella di Isak Dinesen, Out of Africa, poggiati su una mappa della Francia con i luoghi segnati da un cerchio. Ho scoperto una cartina aeronautica, un fascio di una dozzina di pagine estremamente dettagliate con note in inchiostro rosso, blu e nero, un giornale dal 1955 con la frase scritta sul davanti: "Ogni anno sembra il più terribile." Sul piccolo tavolo di legno accanto alla scrivania giaceva un gruppo di cahiers, piccoli bloc notes numerati, con morbide copertine grigie, ciascuno contenente un possibile capitolo del libro di memorie. Queste cartelle di lavoro fatte in casa sono molto dense, con le istruzioni e gli appunti dell'autore a se stesso, citazioni di altri scrittori, frammenti che sono scritti con un codice di colore a seconda del luogo in cui potrebbero essere utilizzati. "La vita passa nelle pagine se passa in qualsiasi cosa" ha scritto Salter, e leggere queste note riconferma quello che si sapeva da sempre: quanto meticolosamente ogni sua pagina sia scritta, quanto scrupolosamente ognuno dei suoi capitoli sia costruito. Tutto viene controllato e ricontrollato, scritto e rivisto e poi di nuovo rivisto fino a quando i bagliori della prosa sono raggianti e indistruttibili.

Scendendo le scale e superando la fotografia di Isaac Babel, ancora una volta, istintivamente, mi è cresciuto l'entusiasmo per l'autobiografia di Salter. Lui esita: "Per lo scrittore è più appropriata la speranza dell'esaltazione."




INTERVISTATORE 
Come scrivi?

SALTER 
Scrivo a mano. Sono abituato a questa prossimità, a questa sensazione fisica di scrittura. Poi successivamente mi siedo e batto a macchina. E poi riscrivo, correggo, riscrivo, e vado avanti finchè non è finito. Molte volte mi è stato dimostrato che vi è una certa inefficienza in questo processo, ma trovo che la facilità di spostamento di un paragrafo non è proprio tutto quello che mi serve. Ho bisogno della possibilità di scrivere ancora una volta questa frase, per pronunciarla a me stesso ancora una volta, guardare il paragrafo ancora una volta, ed effettivamente rilevare attraverso l'intero testo, riga per riga, con molta attenzione, la scrittura eccedente. Ci può essere anche una sorta di impulso mimetico in questo, scrivendo come io solitamente faccio, per così dire.

INTERVISTATORE 
Quindi è fondamentale il processo di revisione? 

SALTER 
Odio la prima stesura, è inesatta, espressione inadeguata delle cose. Tutta la gioia della scrittura deriva dalla possibilità di ritornarci e levigarla, regolarla bene, in un modo o nell'altro. 

INTERVISTATORE 
Revisioni mentre scrivi? 

SALTER 
Dipende, ma normalmente, no. Scrivo grandi sezioni e poi le faccio sedimentare. È pericoloso non lasciare che le cose invecchino, e se qualcosa è veramente buono, lo puoi accantonare per un mese. 

INTERVISTATORE 
Pensi alla frase o al paragrafo come unità organizzativa? 

SALTER Di solito mi basta procedere una frase alla volta. Trovo che la parte più difficile della scrittura sia di ottenere già inizialmente quello che avevi in mente. Perchè ciò che hai scritto è di solito così terribile che diventa sconfortante, non si vuole andare avanti. Questo è quello che penso dello scoraggiamento che deriva dal vedere ciò che hai fatto. Questo è tutto quello che sai fare? 

INTERVISTATORE Dai un sacco di attenzione al peso e al carattere delle singole parole. 

SALTER 
Sono un frotteur (da Frotteurismo, sfregatore sessuale ndt), qualcuno che ama strofinare le parole in mano, girarci intorno e soppesarle, chiedersi se è davvero la migliore parola possibile. Ritengo che la parola, in questa frase, abbia un certo potenziale elettrico? Smuove qualcosa? D'altro canto troppa elettricità renderà crespi i capelli del vostro lettore. C'è una ricerca di ritmo. Voglio frasi lunghe e poi brevi, ogni scrittore dovrebbe conoscere questa musica. E' necessario sviluppare una certa semplicità di comunicazione e rendere la vostra scrittura gradevole da leggere.

INTERVISTATORE 
Trovo il tuo stile di prosa del tutto caratteristico: bellissimo e implacabile. Come lo hai ottenuto?

SALTER Mi piace scrivere. Sono commosso mentre scrivo. Non si può analizzare oltre.

INTERVISTATORE Hai bisogno di molta solitudine per scrivere? 

SALTER Completa solitudine. Anche se ho preso appunti per le cose, scritto sinossi, sulle panchine del parco o sui sedili del treno. Per la composizione completa ho bisogno di solitudine assoluta, preferibilmente in una casa vuota. 

INTERVISTATORE 
Il viaggio aiuta la tua scrittura? 

SALTER 
È fondamentale per me. Non vi è alcuna situazione come la strada aperta, da percorrere, e vedere cose completamente nuove. Sono abituato a viaggiare. In particolare non è una questione di conoscere o di vedere facce sconosciute, o sentire storie inedite, ma di guardare la vita in un modo diverso. È il sipario che si apre su un altro atto. Non sono il primo a pensare che la vera occupazione dello scrittore sia viaggiare in generale. In un certo senso, uno scrittore è un esiliato, un outsider, che sta sempre registrando le cose che gli capitano attorno, ed è parte della sua vita mantenersi in una sorta di movimento. Viaggiare è naturale. Inoltre, molti uomini dei tempi antichi sono morti sulla strada: è un'immagine forte. I re d'Arabia, non sono stati sepolti in grandi e magnificenti tombe. Sono stati sepolti sul ciglio della strada, sotto normali pietre. Tempo fa ho visto una cosa in Inghilterra che mi ha colpito molto. Stavo andando a visitare qualcuno in un piccolo villaggio, andavo a piedi dalla stazione ferroviaria attraverso i campi, e ho visto un uomo vecchio, forse sulla settantina, con uno zaino sulle spalle. Sembrava un vagabondo, dignitoso, un po' logoro, che marciava con la sua compagnia: un cane che trotterellava alle calcagna. Pensai che fosse un'immagine finale di una vita. Un viaggio continuo.










INTERVISTATORE 
Una volta hai detto che la parola fiction è una parola cruda. Perchè?


SALTER
L'idea che tutto possa essere creato dal nulla e queste cose inventate siano classificate come fiction e che l'altra scrittura, presumibilmente non confezionata ad arte, è chiamata saggistica, mi sembra una separazione molto arbitraria delle cose. Sappiamo che la maggior parte dei grandi romanzi e racconti non vengano da eventi totalmente inventati, ma dall'esperienza e dall'osservazione minuziosa. È un'ingiustizia dire che sono completamente immaginati. A volte mi dico che non mi invento nulla, ovviamente non è vero. Ma di solito sono disinteressato agli scrittori che dicono che tutto nasca dall'immaginazione. Preferirei essere in una stanza con qualcuno che mi sta raccontando la storia della sua vita, che può essere enfatica o menzognera, ma in sostanza voglio sentire la storia reale.

INTERVISTATORE 
Stai dicendo che tutto è sempre dettato dalla Vita? 

SALTER
Quasi sempre. La scrittura non è una scienza, e naturalmente ci sono eccezioni, ma ogni scrittore che conosco e ammiro, ha essenzialmente tratto materiale dalla propria vita o dalla sua conoscenza delle cose della vita. Un grande dialogo, per esempio, è molto difficile da inventare. Quasi tutti i grandi libri sono abitati da persone reali. 

INTERVISTATORE 
Definiresti impressionista il tuo stile di prosa? 

SALTER
Per essere tecnico, impressionismo significa che gli elementi esterni sono ritratti con ricchezza di colori e con una rottura netta rispetto al classicismo, giusto? Qualcuno ha detto che scrivo nel modo in cui Sargent dipinse. Sargent ha basato il suo stile sull'osservazione diretta e l'uso parsimonioso della vernice, che sì, è vicino al mio metodo. 

INTERVISTATORE 
Pensi che la tua sensibilità sia francese? 

SALTER
Non particolarmente. Ned Rorem ha detto così. Mi piace la Francia, e mi piace il francese, ma no, non è esatto. 

INTERVISTATORE 
Colette è una figura che ha significato qualcosa per te? 

SALTER
Oh, sì. Non mi ricordo quando la scoprii. Probabilmente attraverso Robert Phelps, anche se devo aver letto pezzi qua e là. Phelps è stato un grande studioso di Colette: ha pubblicato una mezza dozzina di libri su di lei in America, tra cui un libro che credo sia sublime, Earthly Paradise. È un libro meraviglioso. Ne avevo una copia, dedicatami da lui. Mia figlia più grande è morta in un incidente, e l'ho sepolta con lei, perchè lei l'amava molto. Colette è una scrittrice di cui si dovrebbe sapere di più. Ammiro i francesi per la loro mancanza di sentimentalismo, e lei, in particolare, è ammirevole in quel modo. Ha calore, non è una scrittrice fredda, ma non è sentimentale. Qualcuno ha detto che si dovrebbe avere uguale quantità di sentimento nella scrittura a quella che Dio ha nel considerare la Terra. Lei mette in risalto questo sentire. 

INTERVISTATORE 
Sembra che una volta Andrè Gide sia stato di grande ispirazione per te.

SALTER
Lo è stato, ma non ricordo esattamente perchè. Ho letto i suoi diari, quando ho iniziato a scrivere sul serio, e poi ho letto, e ne sono rimasto molto impressionato,La porta stretta. Avevo un editor di Harper Brothers, Evan Thomas, che mi ha chiesto quali autori mi interessavano e gli ho risposto che ero impressionato da Gide. Uno sguardo di smarrimento e sgomento attraversò il suo volto, come se avessi detto Epitteto, e aggiunse: Bene, quale suo libro stai leggendo? Ho risposto: La porta stretta. E' semplicemente un libro formidabile. L'hai letto? Mi disse di no e potrei dire dal tono della sua voce che non fosse proprio il genere di cose che avesse letto o che approvasse la mia lettura. La mia impressione di Gide, guardando indietro, è di uno scrittore che non indulgeva nel sentimentale e che fosse molto meticoloso. Direi che le mie attenzioni non sono state attratte dalla persona sbagliata. 

INTERVISTATORE 
Ci sono altri scrittori francesi che hanno particolarmente influenzato? 

SALTER
Ne ho letto molti. Tra coloro che non sono probabilmente molto conosciuti direi Henry de Montherlant, particolarmente interessante. Celine invece è uno scrittore abbagliante. (...) Stiamo parlando di un personaggio dubbio, che ora è considerato, credo giustamente, come uno dei due grandi scrittori del secolo in Francia. È una candidatura perfettamente valida. Anche il suo ultimo libro, Castle to Castle è enorme. Deve essere stato scritto nelle più difficili circostanze immaginabili. Quando si legge qualcosa di buono, l'idea di guardare la televisione, andare al cinema, o anche la lettura di un giornale non è abbastanza interessante per noi. Quello che stiamo leggendo è più seducente di tutto questo. Celine ha questo dono.

INTERVISTATORE 
Cosa ne pensi di Hemingway? 

SALTER
Penso di Hemingway le stesse cose che molti pensano su Celine. Lui è uno scrittore potente, ma personalmente trovo il suo carattere sgradevole. Conosco un sacco di persone che l'hanno conosciuto, e tutti dicono che era meraviglioso. Io non penso così. Una bella cosa della vita è che si può riorganizzare il proprio pantheon e rivalutare certe figure di cui siete insoddisfatti. Non fa male a nessuno. Così l'ho trasferito verso il basso; ora sta raccogliendo polvere in cantina. 

INTERVISTATORE 
Che dire di Henry Miller? 

SALTER
Scrittore glorioso. Sarei molto deluso di un futuro che ci dica, erroneamente, grandi cose di scrittori che non valgono, e che invece non tratti lui con tutte le dovute maniere. Lo trovo irresistibile. Non ci sono distrazioni quando si sta leggendo Miller per la prima volta. Anche se non credo che si dovrebbe leggere tutti i suoi libri: molti sono ripetitivi. Una volta che sei immerso in Sexus, Plexus, Nexus e Black Spring, barcolli in giro come se i personaggi ti colpissero con dei quotidiani arrotolati, come se tu fossi un cane. Ma quando leggi Tropico del Cancro, stai leggendo un libro meraviglioso. Dentro c'è vita, irriverenza, spirito. Non scrivo qualcosa di simile al suo stile. Non posso. Dovrei essere Miller, questo è ciò che lo rende magnifico. Mi sembra che quando lo si legga, quello che si sta realmente ascoltando è la voce dello scrittore. Questo è più importante di qualsiasi altra cosa. Ed è la voce di Miller, naturalmente, la cosa che ti fa attardare al suo fianco, in un bar, fino a quando l'orario di chiusura è passato da un pezzo, e si vuole assolutamente proseguire, tornare a casa con lui e continuare a parlare.

INTERVISTATORE 
Cosa ne pensi della catalogazione di Shaw, quella per cui tu eri uno scrittore lirico e lui uno narrativo? 

SALTER
È stato piuttosto preciso. Ho cercato di fare meno affidamento sul lirismo, perchè, essendo stato pizzicato da un commento immeritato, sono giunto alla conclusione che avrei dovuto snellire un po', forse distillare un po' di più. Questo ha l'effetto di dare alla lirica delle cose maggiore potenza.

INTERVISTATORE 
Lei ha iniziato a scrivere nella metà degli anni Trenta. Ha iniziato tardi, non è vero? 

SALTER
Beh, ho cominciato a pubblicare nella metà degli anni Trenta, ma avevo incominciato a scrivere da prima.

INTERVISTATORE Quando hai iniziato? 

SALTER
Ho scritto da studente, poi sono stato in grado di dedicarci un po' di tempo quando ero nella Air Force. Nel 1946 e nel 1947 ho scritto un romanzo, ed era terribile. Non me ne rendevo conto all'epoca. Harper Brothers lo rifiutò, ma dissero che comunque sarebbero stati interessati a vedere qualsiasi altra cosa avessi scritto successivamente. Questo è stato abbastanza come incoraggiamento. Volevo scrivere un altro libro in ogni caso, e quando l'ho fatto, gliel'ho proposto, e hanno accettato. Era Hunters, la prima cosa che avessi mai pubblicato. 

INTERVISTATORE 
Che cosa ti ha spinto a scrivere quel primo romanzo? 

SALTER
È stato un impulso che ho sempre avuto. Non sapevo che cosa mi facesse scrivere all'inizio, ma poi ho capito. E' semplice: chi scrive, custodisce e protegge. Suppongo che fosse questo, anche se non sono in grado di dirlo perfettamente. 

INTERVISTATORE 
Cosa pensi ora di quei primi due libri? 

SALTER
Giovinezza. 

INTERVISTATORE 
Hai parlato delle tue esperienze militari come i grandi giorni della giovinezza. Deve essere stato difficile dimettersi nel 1957 per diventare completamente ed esclusivamente uno scrittore. 

SALTER
Sono riuscito a dimenticare quanto fosse stato difficile. Mi ricordo quando appresi che le mie dimissioni erano state accettate. Eravamo a Washington, con un bambino, in un appartamento preso in prestito che si affacciava sulla città. Era notte, e non si è diffusa in me la stessa emozione di quando vedi, sotto di te, Parigi per la prima volta. Tutto quello che era stato, per me non significava più nulla: il Pentagono, Georgetown, volare fuori Andrews, tutto quello che avevo fatto in vita fino a quel momento, era stato cancellato. Mi sentivo assolutamente infelice, miserabile: un fallimento. 

INTERVISTATORE 
Ho sentito che hai detto "scrivere o perire." 

SALTER
Sì, era uno o l'altro. Volevo essere uno scrittore, ma d'altra parte avevo dato tutto all'aereonautica. Non ero un ufficiale ribelle. Avevo dato tutto, e molto avevo avuto in cambio. E' stato proprio come un divorzio. L'ordinamento del divorzio, dove due persone oneste semplicemente non possono andare d'accordo tra di loro; non è una questione che uno dei due sia in difetto; solo che non si può continuare. E se sono stati sposati per un po' e hanno figli e tutto il resto, si è ancora coinvolti: è difficile. Ecco come mi sentivo. Sapevo che avrei dovuto divorziare, ma non ero felice. Ero molto preoccupato per il futuro, cosa ci fosse oltre.

INTERVISTATORE 
"Quella persona nell'esercito, che non ero io", ha scritto John Cheever dopo la guerra, ma tu non hai la stessa sensazione.

SALTER
No, come molti prigionieri, si arriva ad amare la prigione e gli altri detenuti. Cheever semplicemente non aveva pagato abbastanza per avere quella sensazione.



INTERVISTATORE 
Se potessi decidere di essere ricordato per due libri , quali sceglieresti? 

SALTER
Mi piace pensare A sport and a pastime e Light Years

INTERVISTATORE 
Light Years è un libro epifanico; in un certo modo anche A Sport and a Pastime lo è. Si compone di una serie di momenti luminosi. 

SALTER
In Light Years, questi momenti, diciamo queste scene, sono essi stessi la narrazione. Servono come successione del racconto.

INTERVISTATORE 
Quale pensi sia il vero merito di Light Years? 

SALTER
Il libro è come le pietre consumate, levigate dalla vita coniugale. Tutto ciò che è bello, tutto quello che è chiaro, tutto ciò che nutre, ma anche le cause che la fanno appassire. Si va avanti per anni, per decenni, e alla fine sembra di aver superato tutto, come si superano le cose intraviste nel tragitto dalla stazione al prato qui davanti: un gruppo di alberi, case con le finestre illuminate nel crepuscolo, città buie, stazioni lampeggianti. Tutto quello che non è scritto, scompare, fatta eccezione per alcuni momenti imperituri, persone e scene. Gli animali muoiono, la casa viene venduta, i figli sono cresciuti, anche la coppia è scomparsa, eppure c'è questa poesia. È stato criticato come un libro elitario, ma non sono sicuro che sia così. Loro due sono davvero ordinari, non persone eccezionali.

INTERVISTATORE 
Un critico ha detto che le imperfezioni della vita o le impurità sono raramente illuminate nella tua narrativa. Mi sembra palesemente sbagliato, anche se c'è una lotta per la perfezione nella vita dei tuoi personaggi, ma è una perfezione di facciata, giusto? 

SALTER
Beh, solo le persone superficiali non giudicano dalle apparenze, come diceva Wilde. Frivolo, ma tocca un importante questione dei tempi attuali, che è il rapporto tra l'apparenza e la sostanza, tra il percepito e la Verità. 

INTERVISTATORE Ho letto che il concetto dietro Light Years proveniva da una frase di Jean Renoir. 

SALTER
"Le uniche cose importanti nella vita sono le cose che si ricordano." Sì, mi piace l'idea. Mi ci sono imbattuto dopo aver iniziato a lavorare sul libro. Ma non importa, la frase sancisce qualcosa che presentivo. Ho voluto comporre un libro di quei momenti che ci si ricorda in vita. Questo era il concetto. Suppongo che la trama del libro sia il passaggio del tempo e come trasformi le persone e le cose.

INTERVISTATORE 
La copertina dell'edizione North Point raffigura il dipinto di Bonnard, The Breakfast Room. Questa pittura sembra cogliere l'atmosfera del romanzo. 

SALTER
A volte scrivo pensando a un certo pittore, e ho scritto Light Years pensando a Bonnard fin dall'inizio. E' un pittore dell'intimità e della solitudine, non faceva parte di nessuna scuola, e la sua vita è stata spesa, in generale, lontano dalle luci e fuori dalla corrente principale. Non solo i suoi dipinti, ma il suo personaggio mi piaceva. 

INTERVISTATORE 
Chi è il tuo scrittore di racconti preferito? 

SALTER
Direi Isaac Babel. Ha i tre elementi essenziali per la grandezza: stile, struttura, e autorità. Ci sono altri scrittori che lo sono, naturalmente Hemingway: infatti aveva queste tre cose. Ma Babel ha un particolare richiamo in me, a causa dell'elemento aggiunto che è la sua vita: mi sembra dia alla sua opera un'ulteriore pregnanza. Ha vissuto in grandissime difficoltà; alla fine è stato ucciso dallo Stato. È scomparso nei campi. Non sappiamo cosa gli sia successo. Lui era quello che disse, "Non mi hanno dato il tempo di finire." Sono sempre stato sorpreso che qui non abbia avuto più riconoscimenti. Di tutte le storie che ho letto, il maggior numero di quelle che risiedono nei pressi dell'eccellenza sono di Babel e Cechov. 

INTERVISTATORE 
L'argot di Babel è qualcosa che ti può aver influenzato? 

SALTER
Vuoi dire la parola gergale inaspettata, come un knuckleball (il movimento imprevedibile di una palla da baseball ndt). Io resto molto lontano da questa soluzione stilistica, perchè un maestro, Saul Bellow, se n'è appropriato. Forse è ingeneroso dire così, forse era una cosa già innata in lui, ma in ogni caso, è simile a Babel e io non voglio essere il terzo. 

INTERVISTATORE Qual'è il tuo libro preferito di Bellow? 

SALTER
Il re della pioggia è un libro che se metti un segno di spunta accanto alle cose degne di nota, ti ritroverai con quasi tutte le pagine segnate. Si tratta di una performance spettacolare. Bellow, una volta mi ha incoraggiato a scrivere sul paese dei cavalli, la Virginia. E' stato quando gli stavo raccontando della famiglia di mia moglie e di mio suocero, un proprietario terriero. Gli dissi che non sapevo abbastanza della Virginia per scrivere qualsiasi cosa, che ero stato lì solo una dozzina di volte. Allora lui mi ha stupito. Mi ha detto Sì, beh, non ero mai stato in Africa quando ho scritto Il re della pioggia.”

INTERVISTATORE 
Cosa vuoi dire sul New Yorker? 

SALTER
Non ho mai pubblicato una storia sul New Yorker; ogni racconto è stato rifiutato. A un certo punto ebbi un contatto. Avevo scritto un racconto intitolato Via Negativa, e ho ricevuto una nota di Roger Angell che mi chiedeva, La preghiamo di venire a parlarne. Mi sono seduto in un ufficio un po' grigio, e lui mi ha detto che la storia gli piaceva molto. Mi disse, Questo racconto è davvero molto buono, ma ho paura che non lo possiamo prendere. Ero sbalordito. Ho chiesto, Perchè? Mi ha risposto, Al New Yorker abbiamo due regole che non possiamo mai violare: in primis non pubblichiamo mai nulla dove sono presenti oscenità, e in secondo luogo, non pubblichiamo mai eventuali storie di scrittori o di scrittura. Io non sapevo cosa dire. Cosa pensare allora delle storie del ciclo di Bech di Updike? Ho ribattuto. Lui ha replicato, Bene, questa è un'altra questione. Dopo un anno o due stavo parlando di questo episodio con Saul Bellow, e mi ha detto, Ho provato a convincerli a pubblicare una sezione di The victim, ma non hanno accettato. Mi dissero che avevano due regole che non sono mai state violate: in primis non pubblicano mai nulla dove siano presenti oscenità, e due, non hanno mai pubblicato nulla sulla morte o sui moribondi. 

INTERVISTATORE 
Mi ha colpito quanto spesso le morti o i fallimenti degli artisti, come Gaudì o Mahler, figurino nel tuo lavoro. 

SALTER
Prima parlavamo dell'insoddisfazione dei poeti, della loro amarezza perchè la cultura, la nazione, non gli ha dato l'onore e il rispetto che meritavano, sebbene molti dei riconoscimenti solitamente arrivino dopo la morte. La nostra è una cultura che consacra l'effimero, e che esclude, sminuisce certe cose e certe persone. L'istinto più profondo, credo, è quello di voler fare qualcosa di duraturo, qualcosa di utile, e impegnarsi in quella direzione, che ci si riesca o meno. . . Quindi forse è così che gli artisti risaltino dentro il mio lavoro.

INTERVISTATORE 
Mi chiedo quando Nabokov divenne un'influenza importante nella tua scrittura. 

SALTER Ah, ho dimenticato di parlarne. Scrittore ammirevole. Unico. Quando ha scritto Speak, Memory. Ho letto i capitoli sul New Yorker e sono rimasto colpito subito dalla sua voce. Naturalmente qui risiede il Nabokov poeta. Tu dici a te stesso, Vladimir, cerchiamo di essere onesti. Tu sei un poeta, e stai scrivendo un sacco di prosa, piuttosto buona, ma sappiamo quello a cui sei veramente interessato. Speak, Memory mi sembra eminentemente quel tipo di libro. Credo che, tutto sommato, sia la sua cosa migliore. La prima metà di Lolita è molto potente. Anche Fuoco pallido, il romanzo preferito di Mary McCarthy, è un lavoro notevole. Tuttavia, Speak, Memoryè indelebile. Può essere letto e riletto. Le nozioni, i salti d'immaginazione e la lingua sono essenzialmente poetiche. Quando l'ho letto la prima volta mi sono detto, bene, potrei anche interrompermi. Ma un attimo dopo ho ripreso a leggere.

INTERVISTATORE 
Nabokov ha parlato di unire la passione dello scienziato con la precisione del poeta. Mi chiedo se senti come questo possa averti influenzato a livello stilistico

SALTER
Non possiedo il suo genere di mente, molto agile. Sarebbe inutile per me tentare di ballare cercando di mettere i piedi nelle sue impronte di gesso sul pavimento, ma lo trovo comunque di ispirazione. 

INTERVISTATORE 
Non lo hai intervistato? 

SALTER
È capitato che uno dei miei primi pezzi di giornalismo sia stato un colloquio con Nabokov. Prima di tutto mi hanno detto, dà solo interviste scritte. È necessario inviare le vostre domande in anticipo. Così mi sono seduto e ho elaborato dieci domande che supponevo fossero penetranti, ma che non mi piacerebbe rileggere di nuovo, e gliele mandai. Nessuna risposta, ovviamente. Ma organizzammo che se fossi andato in Europa sarei stato in grado di incontrarlo e parlargli. Sono arrivato in Europa, a Parigi, era inverno, e io risiedevo in uno di quei vecchi alberghi dove avevano ancora telefoni con la cornetta separata. Ero in contatto con il corrispondente del Time a Ginevra, l'uomo che aveva organizzato l'incontro con Nabokov, e che adesso mi dava la notizia angosciante che l'intervista era saltata. Nabokov aveva cambiato idea. Ho supplicato, come può farlo? Sono venuto in Europa apposta. Beh, lui ha cancellato l'impegno. Non sapevo cosa fare. Il giornalista mi detto, Perchè non lo chiami? L'idea era praticamente impensabile. Era come se qualcuno mi dicesse Perchè non chiami il Papa? Sembrava che non ci fosse nessuna alternativa, così ho chiamato. La voce all'altro capo della linea rispose, Montreux Palace Hotel, e ho chiesto, signor Nabokov, per favore. Il telefono squillava e, naturalmente, non sapevo quello che stavo per dire. Rispose una donna. Era Vera Nabokov. Le ho spiegato chi ero e che cosa era successo. Disse, Oh no, mio ​​marito non può fare un'intervista. Non sta bene. È necessario inviare le vostre domande per iscritto. Le ho detto che l'avevo fatto ma che non vi era stata alcuna risposta, e lei ha ripetuto che lui rispondeva solo per iscritto. Mio marito non improvvisa. Tuttavia l'ho implorata, visto che ero arrivato in Europa, che lei fosse tanto buona da chiedere al marito qualche istante, così da aggiungere qualche sensazione fisica alle risposte delle domande scritte. Mise giù il telefono, e immaginai il suo sguardo perso oltre la finestra qualche istante per poi riprendere in mano la cornetta e annunciarmi che non era possibile. Ma rimasi sorpreso quando invece rialzò la cornetta e mi disse, Mio ​​marito vi incontrerà alle cinque del pomeriggio domenica al Green Bar del Montreux Palace. Ha ripetuto la data e l'ora per essere sicura che avessi capito. Alle cinque della domenica la porta dell'ascensore si aprì e uscì fuori un uomo alto, in blazer e pantaloni grigi che ho riconosciuto immediatamente, e una donna con i capelli bianchi in un bel vestito Rodier. Erano i Nabokov. Sono venuti al tavolo. Ero un po' nervoso. Non ero un giornalista esperto e affermato; Sapevo che Nabokov non improvvisava le risposte o permetteva la registrazione della conversazione; Quindi non potevo portare un registratore e, per la stessa ragione, nemmeno prendere appunti. Il mio unico incoraggiamento - ne sono certo - fu un'intervista di Truman Capote , che aveva trascorso una notte a Tokyo bevendo e parlando con Marlon Brando e il giorno dopo aveva riportato esattamente l'intera conversazione. E' apparsa sul New Yorker. Ho pensato: se Capote è riuscito a farlo bevendo tutta la notte, io potevo certamente ricordare trenta minuti, astemio, con Nabokov. Ho invocato tutte le mie forze e mi sono detto: concentrati su tutto quello che dice, ascolta, e non cercare di essere brillante per forza; semplicemente ascoltalo. L'incontro durò circa 45 minuti. Eravamo andati piuttosto d'accordo, e alla fine disse, Bene, prendiamo un altro Julep? Si riferiva eccentricamente al drink di scotch e soda. Ma ebbi timore che un altro drink rischiasse di annebbiarmi la memoria. Così mi congedai. Ho avuto la netta impressione che avremmo potuto ancora andare avanti e cenare insieme, ma avevo paura di dimenticare tutto. Mi scusai per aver preso così tanto tempo e andai subito alla stazione ferroviaria, dove scrissi tutto quello che ricordavo. Non era in ordine, naturalmente, ma erano quattro o cinque pagine, e da questo materiale ho ricostruito il colloquio. Tutto risultò abbastanza esatto, devo dire. Ho perso il treno, ma avevo a cuore i dettagli dell'intervista.



INTERVISTATORE 
Come ne pensi della tua carriera come sceneggiatore? 

SALTER
Nel 1950 all'improvviso i registi europei irrompono sulla scena: Truffaut, Fellini, Antonioni, Godard. Sembravano gettare una nuova luce sull'intera idea di film. Il New York Film Festival, iniziò a metà degli anni Sessanta. Tutto questo era seducente. Era come la banda che marcia, le bandiere, il ritmo dei tamburi, e, naturalmente, in quel periodo della vita mi sentivo come se fossi in grado di scrivere qualunque cosa, un sonetto, un libretto, un copione. Qualcuno è arrivato e mi ha chiesto, Ti andrebbe di scrivere un film? E da lì siamo partiti.

INTERVISTATORE 
Il tuo film "Tre", basato su un racconto di Irwin Shaw, ha incontrato un sacco di successo al Festival di Cannes. Ti sei sorpreso? 

SALTER
È stata una piacevole sorpresa. Alla fine, però, era come tutto quello che ho fatto. Aveva i suoi ammiratori, alcuni di loro ardenti, ma d'altra parte, la risposta del pubblico fu di completa indifferenza. È stato descritto da qualche parte, o forse io stesso l'ho detto, come sia essenzialmente un film sui pasti e sul vino. Questo non è forse vero, ma ora riconosco che ero un po' inadeguato come regista. Avrei dovuto spendere molto più tempo con gli attori e la psicologia di quello che stava succedendo. 

INTERVISTATORE 
Hai avuto forti ambizioni di essere un auteur? 

SALTER
Sì, è quello che tutti volevano essere. 

INTERVISTATORE 
Hai speso circa dieci anni dentro e fuori del mondo del cinema, ma sembra che tu ne abbia molto disprezzo ora.

SALTER
Si è guadagnato questa considerazione. 

INTERVISTATORE 
Ti sei pentito per il tempo speso? 

SALTER
Non completamente. Ho guardato il cuore di tanti posti che altrimenti non avrei mai visto. 

INTERVISTATORE
È stato liberatorio decidere di non lavorare più nel mondo del cinema? 

SALTER
Non è stata una decisione brusca. Ho solo detto, Ne vorrei fare di meno. Ne vorrei fare molto di meno. Non ne vorrei fare niente. 

INTERVISTATORE 
Il giornalismo era un'alternativa migliore? 

SALTER
La scala salariale non è esattamente la stessa. Gli sceneggiatori, come diciamo io e Lorenzo Semple, sono tra le persone più strapagate sulla terra. In un certo senso si potrebbe fare un film per niente, solo per il divertimento di farlo. In aggiunta a ciò, si è sontuosamente pagati. 

INTERVISTATORE 
Scrivere film causa il cancro? 

SALTER
I film sono essenzialmente destinati ad essere distrazioni, intrattenimento. È molto raro il film che ha il potere di consolare. Che tu ti prenda il cancro o no è difficile da dire. Ci sono figure come Graham Greene. . . a cui penso il cinema non abbia causato nessun danno, e lui ci ha lavorato abbondantemente. Ci sono persone come John Sayles, sia romanzieri e registi a tempo pieno, che sembrano sopravvivere. Ma parlando in generale, alla fine arriva il conto da pagare. Se hai scritto film, ti sei adeguato ad altre persone. Un film è una singola prestazione, ed è ricordata come una performance. I film non sono mai rieseguiti. Non sono vivi. A volte, anni più tardi, sono rifatti, ma tutto in loro è assolutamente determinato e saranno sempre fissi, cristallizzati. Non sono come la grande prosa, che, come un critico ha sottolineato, sembra prendere fuoco prima in un posto e poi in un altro. Tendo a parlare di loro in maniera tranchant, ma davvero non conta che si dica abbiano assunto la posizione di primaria importanza nella cultura americana. Essi sono senza dubbio il nemico della scrittura, questo è qualcosa d'irrisolvibile. Questa è la realtà dei fatti. Ogni tanto parlo con gli studenti delle scuole di scrittura creativa e, naturalmente, è la prima cosa a cui sono interessati. Discuto anche con scrittori affermati e insegnanti di scrittura il cui sogno è quello di scrivere un film. Sappiamo bene perchè hanno questo sogno. Buona parte è per una questione di denaro, il resto appartiene a una camminata in un ristorante affollato affianco ad un attore famoso. . . forse è la stessa sensazione che si ha viaggiando con il Presidente. L'illusione è quella di una sorta di autenticità, di riconoscimento. Ma in generale tutto scompare, e il tempo che hai trascorso a farlo, se sei interessato a scrivere, è tempo sprecato. 

INTERVISTATORE 
Scrivere un libro di memorie è il segno che sei arrivato ad una certa età? 

SALTER
Dicono che l'autobiografia si dovrebbe scrivere durante la gioventù dei capelli bianchi. Forse ho aspettato un po' troppo a lungo. 

INTERVISTATORE 
C'è un impulso a ripensare le esperienze del passato? 

SALTER
Sento la gioia nel pensare a quello che è successo, a cosa realmente significava ed essere in grado di farlo ritornare in vita. C'è tutta la questione della Verità. Hai tutto il diritto di inventare la tua vita e dichiarare che è vera. Abbiamo già subito l'offuscamento dei fatti ma anche dell'immaginifico. Abbiamo avuto scrittori che hanno spiegato come i loro libri sono romanzi-nonfiction, che vale a dire saggi-fictions. Io sottoscrivo una visione più classica. Credo che ci sia una cosa come la verità oggettiva, nella misura in cui ci sia dato saperlo. Choses vue di Victor Hugo è un esempio. Nessuno può conoscere la verità di Dio, ma non è la verità di Dio ciò che stai scrivendo; è la verità come la conosci, le cose che hai osservato. Posso sbagliare, sono fallibile; lo siamo tutti. Ci può essere qualche errore, ma non sono errori voluti o negligenza. Sono semplicemente gli errori che si insinuano dalla parte sconosciuta della vita. 

INTERVISTATORE 
Ma perchè un libro di memorie? 

SALTER
Per ricostruire quegli anni, quando uno dice: Tutto questo mi appartiene - queste città, queste donne, le case, i giorni. 

INTERVISTATORE 
Quale pensi sia l'urgenza fondamentale che spinga a scrivere? 

SALTER
Per scrivere? Perchè tutto questo sta per svanire. L'unica cosa che rimarrà sarà la prosa e le poesie, i libri, ciò che è stato svalutato. L'uomo è molto fortunato ad aver inventato il libro. Senza, il passato sarebbe completamente svanito, non ci sarebbe rimasto niente, e saremmo nudi sulla terra.

Intervista di Edward Hirsch, The Paris Review, Summer 1993
Traduzione di Luca Tanchis (con i preziosi consigli di Laura Anfossi)

James Salter, nato James Horowitz: Burning the days, una piccola galleria di immagini

Salter a 14 anni

Salter a Parigi, 1973

Salter con la figlia Nina, 1982

Salter con la seconda moglie Kay e il figlio Theo, 1989 

Salter con la madre, 1937

Salter con la prima moglie, Ann, e i due gemelli James e Claude, 1962

Salter in Corea, davanti al suo F-86, 1952




2O47 WAYS


domenica 28 giugno 2015

James Salter / Niente paura se si vende poco

James Salter
Poster di T.A.

James Salter: niente paura se si vende poco

Stefania Vitulli - Mar, 21/03/2006 - 00:00

In un racconto di Colette, che James Salter ha riletto almeno una dozzina di volte, si narra la storia della piccola Nana Bouilloux, la ragazza più bella del paese. Tutti la desiderano. Tutti vorrebbero essere come lei. Ma la bellissima non si sposerà mai, perché nessuno sarà mai abbastanza per lei. E quando Colette trentottenne tornerà in paese, vedrà una donna della sua stessa età attraversarle la strada: è Nana, la più bella ragazza della scuola. Sta aspettando il principe azzurro che non arriverà mai a portarla via.
Lo scrittore americano James Salter - del quale Rizzoli traduce ora in Italia per la prima volta un romanzo del 1967, Un gioco e un passatempo - e la giovane Nana hanno molto in comune: Salter è un grande. Molti lo ammirano, affermano di volergli assomigliare: l’estate scorsa, in un lungo articolo sulla New York Review of Books in occasione dell’uscita di Last Night, la sua nuova raccolta di racconti, Joyce Carl Oates scrive che si vorrebbe che le sue storie fossero più lunghe, allo stesso modo in cui si desidera che la vita, attraverso l’arte, acquisti in vastità. E nella postfazione di John Irving a Un gioco e un passatempo, si legge: «In James Salter ogni frase è intima e discreta: l’effetto finale è di esattezza elegante, una cifra di scrittura che, tristemente, ora non usa più, difficilissima da imitare».
Come Nana, Salter si è mosso così lentamente da apparire fermo: in cinquant’anni ha scritto soltanto cinque romanzi e due raccolte di racconti. Più che scrivere, rivede incessantemente: «un processo mimetico in cui vado alla ricerca di me stesso», perché la scrittura, spiega nella sua straordinaria autobiografia Burning the days, «serve a mettere in salvo la vita dal tempo». A differenza della giovane Nana, però, Salter ha portato la bellezza a completa fioritura e per farlo ha diviso la sua vita in due. Nato James Horowitz nel 1925 e cresciuto a New York, si diploma a West Point, come suo padre. Dodici anni da ufficiale nell’Air Force, cento missioni come pilota da combattimento nella guerra di Corea. «Ma il tempo trascorso in volo non conta - ha raccontato più volte -. Non mi sono ribellato, non rinnego nulla. Ho soltanto divorziato. Ci si accorge di non poter più continuare insieme. Non ci sono vere colpe. Si divorzia». E per sancire il taglio col passato, cambiò persino nome.
Forse accadde perché prese a coltivare la sua parte femminile: «La mascolinità pura è tedio e inadeguatezza. Le mancano arte e bellezza. E i veri eroi sono le donne». Forse accadde perché sentì uno strappo violento: «Percepii che dovevo scrivere o la parte più importante di me sarebbe morta per sempre». Fatto sta che accadde: dopo un paio di romanzi d’avviamento in cui narra di piloti e missioni, inizia il suo capolavoro, Un gioco e un passatempo, languido love affair ambientato in Borgogna tra una commessa francese diciottenne e uno studente di Yale. «Un romanzo esplicitamente erotico, che parla del desiderio bruciante di un voyeur», scrive sempre Irving. Il romanzo in cui si ritrova uno dei più strepitosi parallelismi tra sesso e scrittura: «Nella stanza si svestono separatamente, come russi che dividono lo scompartimento di un treno. Poi si girano faccia a faccia. “Ah” mormora lei. “Cosa?” “È una grossa machine a écrire”».
Così, con quello che divenne un cult book per Philip Roth e Susan Sontag, iniziò per Salter il quarto di secolo in cui il numero totale di Martini bevuti teneva il passo con la media di copie vendute da ciascuno dei suoi libri: ottomilasettecento nel 1993. «La speranza, non l’entusiasmo, è lo stato d’animo appropriato per uno scrittore», ama sussurrare. In quello stesso periodo si arrangiò in molti altri modi per mantenere i tre figli avuti dai due matrimoni: vendette piscine, scrisse copioni per Hollywood. Nel 1977 anche Robert Redford gliene commissionò uno, sui rocciatori, ma non gli piacque. Il copione divenne poi un libro, Solo Faces, il più amato da Peter Mathiessen. «Redford non si vedeva nel ruolo - racconta Salter -. E d’altra parte, anche gli anni nel cinema furono tempo perso. Lo sceneggiatore è come una party girl. Finché sei una novità, sempre in forma, le possibilità sembrano infinite. Ma non dura. E in un attimo, ti scartano».




sabato 27 giugno 2015

Addio allo scandaloso James Salter / Un autore amato dagli scrittori

James Salter

Addio allo scandaloso James Salter Un autore amato dagli scrittori

Scomparso a novant’anni una delle voci più significative d’America
di Matteo Persivale
21 giugno 2015 | 18:47
James Salter, ora è chiaro, poteva morire soltanto come è morto: a 90 anni appena compiuti, in palestra, accasciandosi all’improvviso mentre si allenava, vicino alla sua bella casa sul mare di Sag Harbor, dove aveva passato tanti anni a chiacchierare e bere dopo una partita a tennis con i suoi amici-scrittori del cuore (Peter Matthiessen, William Styron, George Plimpton e E.L. Doctorow: ora è rimasto solo Doctorow, ultimo moschettiere di quel cenacolo irripetibile). Nel 1945, a 19 anni, quando Salter ancora si chiamava con il suo vero cognome, Horowitz, aspirante pilota di caccia appena uscito da West Point, nella fretta di farsi mandare a combattere al fronte della guerra che stava per finire, durante un’esercitazione si schiantò con l’aereo da addestramento in una cascina del Massachusetts. Era il V-E Day, 8 maggio 1945, il giorno della cessazione del conflitto in Europa. Riuscì non solo a non farsi congedare con disonore, ma diventò pilota di caccia e alla fine al fronte ci finì davvero, in Corea, qualche anno dopo. E l’esperienza di quelle missioni passate a duellare con i Mig sovietici sul fiume Yalu lo spinse a scrivere un romanzo, di nascosto da commilitoni e ufficiali per evitare il disprezzo riservato agli intellettuali (una lezione imparata a West Point dove lui, tra i pochissimi cadetti ebrei, andava di venerdì sera a celebrare lo Shabbat di nascosto nel ginnasio con altri correligionari carbonari, finendo regolarmente punito al sabato mattina). Il ragazzo Horowitz non era mai stato un intellettuale. 

Leggeva riviste pulp dedicate alla guerra, meglio ancora se di aviazione. Ma nel 1956 ecco The Hunters, il debutto che ancora oggi appare abbagliante nella bellezza e precisione della sua prosa, e che fece scoprire all’America un nuovo scrittore. Dieci anni dopo esce Un gioco e un passatempo (Bur), subito stroncato dai critici e di fatto bandito dalle università per le numerose e allora scandalose scene di sesso: è riconosciuto ora come un classico. Salter fu amico di tanti scrittori, e dagli scrittori amatissimo: tra i suoi ammiratori Richard Ford e Edna O’Brien, John Irving e Jhumpa Lahiri, Joyce Carol Oates e Reynolds Price, John Banville e Bret Easton Ellis. A tenerlo lontano dal cuore dei critici americani (a parte il maestro Harold Bloom, che l’ha incluso nel Canone) fu anche la scelta di lavorare, molto ben pagato, per il cinema. Come sceneggiatore di film non memorabili e che lui anni dopo liquidò come «spazzatura» (Gli spericolati, La virtù sdraiata, Noi tre soltanto, A cuore aperto). Ma nel 1975, con il romanzo Una perfetta felicità (edito in Italia da Guanda), il primo capolavoro riconosciuto: la storia di un matrimonio in lenta e inevitabile dissoluzione raccontato con una prosa inimitabile, di semplicità hemingwayana, ma attraversata da lampi di intuizione e osservazione proustiana. Salter racconta il sogno americano in modo poco americano: attraverso la delusione, i sogni infranti contro la mediocrità. 

Analizzando i fallimenti umani come pochissimi scrittori americani — Richard Yates, John Cheever — hanno fatto. Nel 1988, con i racconti di Dusk, l’unico premio importante in patria, il Pen/Faulkner; l’autobiografia Burning the Days nel 1997 e ancora i racconti di Last Night nel 2005 per il suo ottantesimo compleanno, quando escono anche una raccolta dei suoi articoli di viaggio (Salter ha raccontato la Francia come nessun americano: oltre il romanticismo un po’ finto di Parigi) e un libro di cucina firmato con la moglie. Una straordinaria vecchiaia, nella quale Salter pur avendo abbandonato il romanzo, dimostrò di essere diventato sempre più bravo, voce profondamente americana, maestro del dettaglio (un suo personaggio fissa l’interlocutore tenendo la testa un po’ arretrata, «come se fosse un menu»), immune al sentimentalismo ma capace di commuovere con la semplice morte di un uccellino, quando si ferma «quel cuore non più grande d’un seme d’arancia». Due anni fa, quando pareva aver abbandonato il romanzo, pubblicò Tutto quel che è la vita (Guanda), che secondo molti è il capolavoro — alla vigilia del novantesimo anno — e il passo d’addio della sua vita e della sua carriera straordinarie. Salter, a un intervistatore della «Paris Review» (fondata dai suoi amici Matthiessen e Plimpton) che gli chiedeva perché scrivesse, rispose: «Perché tutto questo sta per scomparire. Resteranno solo la prosa, la poesia, i libri. Senza libri il passato scomparirebbe, e non ci resterebbe nulla. Ci ritroveremmo soli, e nudi, su questa terra».