domenica 30 giugno 2019

Sandro Pertini / Intervista a Playboy

  • Sandro Pertini - Playboy intervista 1982

    SANDRO PERTINI: INTERVISTA A PLAYBOY 

    (1982)

    Una lunga conversazione esclusiva col presidente italiano, il più amato in tutta la storia della repubblica, che parla apertamente di politica, fascismo, droga, terrorismo, guerra, amore
    Ecco qui Sandro Pertini, il presidente delta Repubblica. Dopo Luigi Preti, dopo Alano Pannella, dopo Giorgio La Malfa (e altri che verranno), possiamo finalmente intrattenerci, a tu per tu, con il nostro presidente più amato e più popolare. La prigione patita in gioventù, la Resistenza, la moglie Carla, Carmelo Bene (il suo attore preferito), gli extraterrestri, il terrorismo, le sue «fughe» dal protocollo e dal Quirinale. In questa intervista si parla di lutto, e qualcosa di più. Il colloquio si è svolto al Quirinale, nello studio del presidente; e anche l’intervistatrice, dobbiamo dirlo, era, net suo ambito, un personaggio d’eccezione: Olga Bisera, la bella e simpatica attrice jugoslava che sta rivelando doti eccellenti di giornalista d’assalto. Ha intervistato e sta intervistando, oltre a Pertini, personaggi politici di tutto il mondo.
    PLAYBOY: Signor presidente, sin da giovane lei si è occupato di politica, senza mai cedere a compromessi. Eppure è un convincimento diffuso che nell’attività politica sia impossibile conservare le mani pulite. Lei come c’è riuscito?
    PERTINI: Non sono del parere che nella politica sia difficile conservare le mani pulite. Conosco molti uomini che da anni si occu­pano di politica e hanno ancora le mani pulite, come lei dice.

    sabato 29 giugno 2019

    Bob Dylan / Intervista a Playboy


    • Bob Dylan performs in Chicago in 1978

      BOB DYLAN: INTERVISTA A PLAYBOY (1978)

      Una candida conversazione con Ron Rosembaum
      Gennaio 1978
      PLAYBOY: Esattamente 12 anni fa abbiamo pubblicato una lunga intervista con te proprio su questo giornale. Ci sarebbero ancora molte cose da approfondire ma possiamo anche tentare di ricominciare da capo. Oltre a essere un cantante, un poeta e ora anche un regista, sei stato spesso definito un visionario. Ricordi qualche esperienza visionaria di quando eri piccolo?
      DYLAN: Ho visto cose stupefacenti quando ero bambino, poi basta. Quelle visioni sono state così forti che continuano a coinvolgermi ancora oggi.

      venerdì 28 giugno 2019

      Joseph Conrad / Coure di tenebra III




      JOSEPH CONRAD 

      CUORE DI TENEBRA

      III
      «Lo guardai, smarrito per lo stupore. Era lì davanti a me, vestito da buffone, come se fosse scappato da una compagnia di saltimbanchi, entusiasta e favoloso. Il solo fatto che esistesse era inverosimile, inspiegabile, assolutamente sconcertante. Era uno di quei problemi che non si risolvono. Impossibile immaginarsi in che modo avesse vissuto, come avesse potuto arrivare tanto lontano, cosa avesse fatto per rimanervi, perché non sparisse sotto ai miei occhi. “Mi sono spinto un po’ più avanti”, disse, “e poi ancora un po’ di più, e un bel giorno mi sono trovato tanto lontano che non so come farò a tornare sui miei passi. Non importa. Ho tutto il tempo. Mi arrangerò. Ma lei porti via Kurtz presto – presto, le dico.” L’incantesimo della giovinezza rivestiva i suoi stracci variopinti, la sua miseria, la sua solitudine, la profonda desolazione di quel suo futile vagabondare. Per dei mesi – per degli anni – la sua vita era stata sospesa a un filo; eppure era là, coraggiosamente, spensieratamente vivo e, secondo ogni apparenza, indistruttibile, grazie ai suoi giovani anni e alla sua audacia irriflessiva. Ero conquistato tanto da provare una specie di ammirazione, di invidia. Un incantesimo lo spingeva avanti, un altro incantesimo lo proteggeva. Lui non si aspettava assolutamente niente dalla landa selvaggia, soltanto uno spazio in cui respirare e in cui addentrarsi sempre più. Il suo unico bisogno era di esistere e di andare oltre, correndo più rischi possibile, con il massimo di privazioni. Se lo spirito d’avventura – allo stato puro, privo di qualsiasi calcolo e di senso pratico – aveva mai dominato un essere umano, era sicuramente quel giovane tutto rattoppato. Quasi gli invidiavo di possedere quella fiamma chiara e modesta. Sembrava aver così ben consumato in lui ogni pensiero personale che anche mentre parlava, ci si dimenticava che era a lui – all’uomo che era sotto i vostri occhi – che erano capitate tutte quelle cose. Non gli invidiavo, però, la sua devozione a Kurtz. Non era deliberata. L’aveva subita e accettata con una specie di ardente fatalismo. Devo dire che ai miei occhi, fra tutte le cose che aveva incontrato, quella era di gran lunga la più pericolosa.

      giovedì 27 giugno 2019

      Joseph Conrad / Cuore di tenebra II




      JOSEPH CONRAD 

      CUORE DI TENEBRA

      II
      «Una sera, mentre me ne stavo lungo disteso sul ponte del mio battello, sentii avvicinarsi delle voci: erano zio e nipote che venivano passeggiando lungo il fiume. Misi di nuovo giù la testa sul braccio e, già mezzo assopito, udii qualcuno dire, quasi dentro al mio orecchio: “Io non faccio del male a una mosca, però non mi piacciono le imposizioni. Sono o non sono il direttore? Mi hanno ordinato di mandarlo là. È incredibile…” Mi accorsi che quei due si erano fermati sulla riva, all’altezza della prora del battello, proprio sotto la mia testa. Non mi mossi. Non mi venne neanche in mente di muovermi: avevo sonno. “È spiacevole”, grugnì lo zio. “È lui che ha chiesto all’Amministrazione di essere mandato lì”, disse l’altro, “per far vedere quello che sa fare e io ho ricevuto le relative istruzioni. Vedi che razza di ascendente deve avere quell’uomo. Non è spaventoso?” Ne convennero entrambi, che era spaventoso; dopo di che all’orecchio mi giunsero delle espressioni bizzarre: “Fare il bello e il cattivo tempo… un uomo solo… il Consiglio… menare per il naso”, frammenti di frasi assurde che ebbero la meglio sul mio torpore, tant’è vero che ero quasi in pieno possesso delle mie facoltà mentali quando lo zio disse: “Potrebbe aiutarti il clima a risolvere queste difficoltà. È da solo là?” “Sì”, rispose il direttore, “ha spedito il suo assistente giù per il fiume con un biglietto per me che diceva: ‘Allontani subito dal paese questo povero diavolo e non si disturbi a mandarmene altri dello stesso stampo. Preferisco star solo piuttosto che avere il genere di uomini che lei mi rifila.’ Questo avveniva più di un anno fa. Si può immaginare una maggiore impudenza?” “E da allora più niente?”, chiese l’altro, con la voce roca. “Avorio”, scattò il nipote, “a mucchi e di prima qualità, mucchi di avorio, molto seccante, provenendo da lui.” “Dopo di che?”, domandò il greve brontolio. “La fattura”, fu la risposta, sparata a bruciapelo, come si suol dire. Poi silenzio. Era di Kurtz che stavano parlando.

      mercoledì 26 giugno 2019

      Joseph Conrad / Coure di tenebra I


        JOSEPH CONRAD 

        CUORE DI TENEBRA

        I
        La Nellie ruotò sull’ancora senza far oscillare le vele, e restò immobile. La marea si era alzata, il vento era quasi caduto e, dovendo ridiscendere il fiume, non ci restava che ormeggiare aspettando il riflusso.
        L’estuario del Tamigi si apriva davanti a noi, simile all’imbocco di un interminabile viale. Al largo, il cielo e il mare si univano confondendosi e, nello spazio luminoso, le vele color ruggine delle chiatte che risalivano il fiume lasciandosi trasportare dalla marea, sembravano ferme in rossi sciami di tela tesa tra il luccichio di aste verniciate. Una bruma riposava sulle sponde basse, le cui sagome fuggenti si perdevano nel mare. L’aria era cupa sopra Gravesend, e più indietro ancora sembrava addensarsi in una desolata oscurità che incombeva immobile sulla più grande, e la più illustre, città del mondo.

        martedì 25 giugno 2019

        L'intervista di Playboy / Stanley Kubrick

        • Playboy interview - Stanley Kubrick

          L’INTERVISTA DI PLAYBOY: STANLEY KUBRICK (1968) 

          di Eric Nordern
          PLAYBOY: La maggior parte delle polemiche a proposito di 2001 riguardano il significato dei simboli metafisici che abbondano nel film: i monoliti neri e lucidi, la congiunzione dell’orbita di terra, luna e sole a ogni ricorrenza dell’intervento dei monoliti sul destino dell’umanità, l’impressionante e caleidoscopico vortice finale di tempo e spazio che avvolge l’astronauta superstite e fa da sfondo alla sua rinascita come «figlio delle stelle» che vaga verso la terra in una placenta semitrasparente. Un critico ha persino definito 2001 «il primo film nietzschiano», asserendo che il suo tema essenziale è il concetto di Nietzsche dell’evoluzione dell’uomo da scimmia a umano a superuomo. Qual è il messaggio metafisico di 2001?
          KUBRICK: Non è un messaggio che intendo esprimere a parole, né oggi né mai. 2001 è un’esperienza non verbale: in due ore e diciannove minuti di film ce ne sono solo una quarantina di dialoghi. Ho cercato di creare un’esperienza in tutto e per tutto visiva, che oltrepassi le categorizzazioni verbali e penetri direttamente nel subconscio con un contenuto emotivo e filosofico. Per ribaltare la frase di McLuhan, in 2001 il messaggio è il mezzo. Ho voluto che il film fosse un’esperienza intensamente soggettiva che raggiunge lo spettatore a livelli di consapevolezza interna, proprio come fa la musica: «spiegare» una sinfonia di Beethoven equivarrebbe a infiacchirla, erigendo una barriera artificiale tra concetto e comprensione. Uno è libero di fare tutte le speculazioni che vuole sul significato filosofico e allegorico del film (e quelle speculazioni sono indicative del fatto che è riuscito ad avvincere profondamente il pubblico), ma non ho alcuna intenzione di tracciare per 2001 un percorso verbale ideale che ogni spettatore si senta obbligato a seguire, pena il timore di non avere capito il film. Credo che, se si può parlare di riuscita per 2001, questa consiste nel raggiungere un vasto spettro di persone che di per sé non penserebbero spesso al destino dell’uomo, al suo ruolo nel cosmo e al suo rapporto con forme di vita più elevate. Ma anche nel caso di chi è molto intelligente, alcune idee che si trovano in 2001, se presentate come astrazioni, rimangono inanimate e vengono assegnate automaticamente a certe categorie intellettuali. Vissute in un contesto visivo ed emotivo in movimento, invece, possono andare a toccare le corde più profonde di un essere umano.

          lunedì 24 giugno 2019

          Il Trono di Spade / Emilia Clarke racconta di come sia sopravissuta a due quasi-fatali aneurismi

          Il Trono di Spade: Emilia Clarke racconta di come sia sopravissuta a due quasi-fatali aneurismi

          Traduzione di Chris Montanelli
          April 4th, 2019


          L’attrice Emilia Clarke, 32 anni, ha rivelato di aver subito due aneurismi dopo aver registrato la prima stagione di Il Trono di Spade. L’interprete che ha il ruolo di Daenerys Targaryen nella serie di successo della HBO ha scritto un articolo in prima persona sulla rivista americana The New Yorkerin cui rivela come, dopo aver cominciato a vedere i suoi sogni di diventare una famosa attrice diventare realtà, abbia rischiato di perdere la sua mente prima e la vita poi. “Non ho mai raccontato questa storia in pubblico, ma ora è il momento”, dice nella sua testimonianza.
          di Emilia Clarke
          Proprio quando tutti i miei sogni d’infanzia sembravano essersi avverati, ho quasi perso la testa e poi la vita. Non ho mai raccontato questa storia pubblicamente, ma ora è arrivato il momento di farlo.
          Era l’inizio del 2011. Avevo appena terminato le riprese della prima stagione de Il Trono di Spade, una nuova serie della HBO basata sui romanzi di Cronache del ghiaccio e del fuoco (in lingua originale A Song of Ice and Fire) di George RR Martin. Con quasi nessuna esperienza professionale alle mie spalle, mi era stato assegnato il ruolo di Daenerys Targaryen, nota anche come Khaleesi del Grande Mare d’Erba, La Signora di Dragonstone, Distruttrice di catene, Madre dei Draghi. Daenerys, giovane principessa, viene venduta in matrimonio a Khal Drogo, un muscoloso signore della guerra Dothraki. È una lunga storia, lunga otto stagioni, ma è sufficiente dire che lei cresce in statura e forza. Diventa una figura di potere e di autocontrollo. In poco tempo le ragazze indosseranno parrucche di platino e tuniche per essere Daenerys Targaryen ad Halloween.

          I creatori dello show, David Benioff e D.B. Weiss, hanno affermato che il mio personaggio è una miscela di Napoleone, Giovanna d’Arco e Lawrence d’Arabia. Eppure, nelle settimane successive alla conclusione delle riprese della prima stagione, nonostante l’incombente eccitazione di una campagna pubblicitaria e della prima serie, non mi sentivo affatto addosso uno spirito di conquista. Ero terrorizzata. Terrorizzata dall’attenzione, terrorizzata da un’impresa che a malapena capivo, terrorizzata dal cercare di far valere la fiducia che i creatori del Trono avevano riposto in me. Mi sono sentita, in ogni modo, esposta. Nel primo episodio sono apparsa nuda e, dalla prima presentazione alla stampa in poi, mi sono sempre posta la stessa domanda: qualche variante di “Tu reciti una donna così forte, eppure ti togli i vestiti. Perché?” Nella mia testa, rispondevo: “Quanti uomini dovrei uccidere per dimostrare il mio valore?”
          Per alleviare lo stress cominciai ad allenarmi con un personal trainer. Dopotutto, ero un’attrice televisiva, ed è quello che fanno gli attori televisivi. Ci alleniamo. La mattina dell’11 febbraio 2011 mi stavo vestendo negli spogliatoi di una palestra a Crouch End, a nord di Londra, quando iniziai a sentire un forte mal di testa in arrivo. Ero così stanca che riuscivo a malapena a indossare le mie scarpe da ginnastica. Quando ebbi iniziato il mio allenamento, dovetti fare forza su me stessa per completare i primi esercizi.
          Poi il mio allenatore mi fece assumere la plank position, e immediatamente sentii come se una fascia elastica mi stesse stringendo il cervello. Cercai di ignorare il dolore e di andare avanti, ma non ci riuscii. Dissi al mio allenatore che dovevo fare una pausa. In qualche modo, quasi strisciando, arrivai nello spogliatoio. Raggiunto il bagno, mi piegai sulle ginocchia e iniziai a star violentemente e immensamente male. Nel frattempo, il dolore, un dolore tremendamente lancinante, stava peggiorando. In un certo senso, sapevo cosa stava succedendo: il mio cervello era danneggiato.
          Per alcuni istanti, cercai di tener lontani il dolore e la nausea. Dissi a me stessa: “Non rimarrò paralizzata”. Mossi le dita delle mani e dei piedi per assicurarmi che fosse vero. Per mantenere viva la mia memoria, provai a ricordare, tra le altre cose, alcune battute de Il Trono di Spade.
          Sentii la voce di una donna provenire dal bagno a fianco, la quale mi chiedeva se stavo bene No, non stavo bene. Venne ad aiutarmi e mi rivoltò nella posizione laterale di sicurezza. Poi tutto divenne, allo stesso tempo, confuso e sfocato. Ricordo il suono di una sirena, un’ambulanza; sentii nuove voci, qualcuno che diceva che il mio polso era debole. Stavo vomitando la bile. Qualcuno trovò il mio telefono e chiamò i miei genitori, che vivono nell’Oxfordshire, dicendo loro che mi avrebbero trovata al pronto soccorso dell’ospedale di Whittington.
          Una nebbia di incoscienza si posò su di me. Da un’ambulanza, fui trasportata su un lettino in un corridoio pieno di odore di disinfettante e rumori di persone in difficoltà. Poiché nessuno sapeva cosa c’era che non andava in me, i medici e le infermiere non potevano darmi alcun farmaco per alleviare il dolore.

          Alla fine, fui inviata a fare una risonanza magnetica, una scansione del cervello. La diagnosi fu rapida e inquietante: un’emorragia subaracnoidea (SAH), un tipo di ictus che può essere fatale, causato dal sanguinamento nello spazio circostante il cervello. Avevo un aneurisma, una rottura arteriosa. Come appresi in seguito, circa un terzo dei pazienti SAH muore immediatamente o subito dopo. Per i pazienti che sopravvivono, è necessario un trattamento urgente per sigillare l’aneurisma, in quanto vi è un rischio molto elevato di un secondo sanguinamento, spesso fatale. Se dovessi vivere ed evitare deficit terribili, avrei bisogno di un intervento urgente. E, anche allora, non c’erano garanzie.
          Fui portata in ambulanza al National Hospital for Neurology and Neurosurgery, un enorme edificio vittoriano in mattoni rossi situato nel centro di Londra. Era notte. Mia madre dormiva nel mio reparto ospedaliero, accasciata su una sedia, mentre io continuavo ad alternare stati di sonno e veglia, sentendomi come drogata, con dolori lancinanti e incubi persistenti.
          Ricordo che mi fu detto che avrei dovuto firmare una liberatoria per un intervento chirurgico. Un intervento al cervello? Ero nel bel mezzo di un periodo della mia vita ricco di impegni, non avevo tempo per un intervento al cervello. Ma alla fine mi calmai e firmai. E poi persi conoscenza. Durante le tre ore successive, i chirurghi si misero a ripararmi il cervello. Questo non sarebbe stato il mio ultimo intervento chirurgico, e non sarebbe stato il peggiore. Avevo ventiquattro anni.
          Sono cresciuta a Oxford e raramente ho pensato alla mia salute. Quasi tutto ciò a cui pensavo era recitare. Mio padre era un tecnico del suono. Aveva lavorato a produzioni di “West Side Story” e “Chicago” nel West End. Mia madre era, ed è, una donna d’affari, il vicepresidente del settore marketing per un’azienda di consulenza globale. Non eravamo ricchi, ma io e mio fratello andammo alle scuole private. I nostri genitori, che volevano darci il massimo, faticavano a tenere il passo con le tasse scolastiche.
          Non ricordo bene quando decisi di fare l’attrice. Mi è stato detto che avevo circa tre o quattro anni. Quando andai con mio padre ai teatri, rimasi incantata dalla vita dietro le quinte: i pettegolezzi, i materiali di scena, i costumi, tutto il borbottio incalzante e sussurrato nella quasi completa oscurità. Quando avevo tre anni, mio ​​padre mi portò a vedere una produzione di “Show Boat”. Sebbene fossi normalmente una bambina rumorosa e ansiosa, rimasi per più di due ore silenziosa e rapita tra gli spettatori. Quando il sipario si abbassò, mi misi in piedi sulla mia poltroncina e applaudii furiosamente.
          Mi aveva conquistata. A casa guardai una videocassetta di My Fair Lady così tante volte che il nastro si spezzò per l’usura. Penso di aver preso la storia di Pigmalione come un segno di come, provando continuamente e avendo un buon regista, puoi diventare qualcun altro. Non penso che mio padre fosse contento quando annunciai che volevo fare l’attrice. Conosceva un sacco di attori e, nella sua mente, erano abitualmente nevrotici e disoccupati.
          La mia scuola, a Oxford, la Squirrel School, era idilliaca, ordinata e dolce. Quando avevo cinque anni, ho ottenuto la parte principale in una commedia. Quando è arrivato il momento di salire sul palco e consegnare le mie battute, ho dimenticato tutto. Mi sono fermato lì, al centro della scena, fermo, prendendo tutto. Nella prima fila, gli insegnanti stavano cercando di aiutarmi mettendo in bocca le mie battute. Ma sono rimasto lì, senza paura, molto calmo. È uno stato mentale che mi ha portato per tutta la mia carriera. In questi giorni, posso essere su un tappeto rosso con migliaia di telecamere che scattano via e sono impassibile. Certo, mettimi ad una cena con sei persone e questa è un’altra questione.


          Con il tempo, la recitazione è migliorata. Riuscivo persino a ricordare le mie battute. Ma ero lontana dall’essere un prodigio. Quando avevo dieci anni, mio ​​padre mi portò a un’audizione nel West End per una produzione di “The Goodbye Girl” di Neil Simon. Quando entrai, mi resi conto che ogni ragazza che faceva il provino per questa parte cantava una canzone di “Cats” “L’unica cosa a cui potei pensare fu una canzone folk inglese, “Donkey Riding”. Dopo aver ascoltato con pazienza, qualcuno mi chiese,” Che ne dici di qualcosa di più. . . contemporaneo? “Cantai il successo delle Spice Girls “Wannabe”. Le mani di mio padre gli coprivano praticamente la faccia. Non ottenni la parte, e penso che sia stata una benedizione. Mio padre disse: “Sarebbe stato difficile leggere qualcosa di negativo su di te sul giornale”.
          Ma decisi di continuare. Nelle produzioni scolastiche, interpretai Anita in “West Side Story”, Abigail in “The Crucible”, una delle streghe in “Macbeth”, Viola in “Twelfth Night.” Dopo la scuola secondaria, mi presi un anno sabbatico, durante il quale lavorai come cameriera e girai l’Asia con lo zaino in spalla. Poi iniziai le lezioni al Drama Center di Londra per seguire il mio BA come attrice alle prime armi, studiammo di tutto, da “The Cherry Orchard” a “The Wire.” Non ricevevo le parti da ingenua. Quelli andavano alle ragazze alte, flessuose, incredibilmente bionde. Fui scritturata come madre ebrea in “Awake and Sing!” Dovreste sentire il mio accento del Bronx.
          Dopo la laurea, mi feci una promessa: per un anno avrei accettato solo ruoli promettenti. Pagavo l’affitto lavorando in un pub, in un call center e in un oscuro museo, dicendo alla gente che “i gabinetti sono sulla destra”. I secondi duravano giorni. Ma ero determinata: un anno di decenti produzioni, nessuno spettacolo al di sopra della media.
          Nella primavera del 2010, il mio agente chiamò per dirmi che a Londra si stavano tenendo le audizioni per una nuova serie della HBO. Il pilot de Il Trono di Spade aveva troppi punti deboli e volevano fare nuove audizioni, tra gli altri per il ruolo di Daenerys. La parte richiedeva una donna bionda tinta, misteriosa e dall’aura ultraterrena. Io sono una piccola donna inglese, dai capelli scuri e formosa. Come volete voi. Per prepararmi, imparai delle strane battute per due scene, una nell’episodio 4, in cui mio fratello mi colpisce, e una nell’episodio 10, in cui vado a fuoco e sopravvivo, illesa.
          In quei giorni, pensavo a me stessa come a una persona sana. A volte avevo dei giramenti di testa, perché spesso avevo la pressione bassa e una bassa frequenza cardiaca. Ogni tanto avevo le vertigini e svenivo. Quando avevo quattordici anni, ebbi un’emicrania che mi tenne a letto per un paio di giorni, e alla scuola di recitazione ogni tanto crollavo. Ma sembrava tutto gestibile, era parte dello stress di essere un attore e della vita in generale. Ora penso che probabilmente stavo sperimentando i primi  segnali di allarme di ciò che sarebbe successo.
          Feci il provino per Il Trono di Spade in un piccolo studio a Soho. Quattro giorni dopo ricevetti una chiamata. Apparentemente l’audizione non era stata un disastro. Mi fu detto di volare a Los Angeles in tre settimane per fare il provino di fronte a Benioff e Weiss e ai dirigenti della rete. Iniziai a lavorare intensamente per prepararmi. Mi fecero viaggiare in business class. Rubai tutto il tè gratuito dalla sala d’attesa. Durante l’audizione cercai di non guardare quando vidi un altro attore – alto, biondo, magro, bello – che camminava. Lessi due scene in un auditorium buio, per un pubblico di produttori e dirigenti. Quando finì, dissi: “Posso fare qualcos’altro?”
          David Benioff disse: “Puoi ballare”. Non volendo mai deludere, feci il ballo del qua-qua e il robot. In retrospettiva, avrei potuto rovinare tutto. Non sono la miglior ballerina.
          Mentre stavo uscendo dall’auditorium, mi corsero dietro e mi dissero: “Congratulazioni, principessa!” Avevo ottenuto la parte.
          Riuscivo a malapena a riprendere fiato. Tornai in albergo, dove alcune persone mi invitavano a una festa sul tetto. “Penso di essere buono!” Ho detto loro. Invece, andai nella mia stanza, mangiai Oreos, guardavo Friends e chiamavo tutti quelli che conoscevo.

          Quel primo intervento chirurgico fu quello che è noto come “minimamente invasivo”, il che significa che non mi aprirono il cranio. Piuttosto, usando una tecnica chiamata avvolgimento endovascolare, il chirurgo introdusse un filo in una delle arterie femorali, nell’inguine; il filo si diresse verso nord, attorno al cuore e al cervello, dove sigillarono l’aneurisma.
          L’operazione durò tre ore. Quando mi svegliai il dolore era insopportabile. Non avevo idea di dove fossi. Il mio campo visivo era ristretto. C’era un tubo in gola e io ero arido e nauseato. Mi hanno spostato dall’ICU dopo quattro giorni e mi hanno detto che il grande ostacolo era di arrivare al traguardo delle due settimane. Se l’avessi fatto così a lungo con complicazioni minime, le mie possibilità di una buona ripresa erano alte.
          Una notte, dopo aver superato quel punto cruciale, un’infermiera mi svegliò e, come parte di una serie di esercizi cognitivi, disse: “Come ti chiami?” Il mio nome completo è Emilia Isobel Euphemia Rose Clarke. Ma ora non riuscivo a ricordarlo. Invece, parole senza senso mi caddero dalla bocca e andai in preda al panico. Non avevo mai provato paura in quel modo – un senso di morte in chiusura. Potevo vedere la mia vita davanti a me e non valeva la pena di vivere. Io sono un’attrice; ho bisogno di ricordare le mie battute. Ora non riuscivo a ricordare il mio nome.
          Soffrivo di una condizione chiamata afasia, una conseguenza del trauma che il mio cervello aveva sofferto. Anche se stavo borbottando sciocchezze, mia madre mi fece la grande gentilezza di ignorarle, cercando di convincermi che ero perfettamente lucida. Ma sapevo che stavo vacillando. Nei miei momenti peggiori, volevo staccare la spina. Chiesi allo staff medico di lasciarmi morire. Il mio lavoro – il mio intero sogno su come sarebbe la mia vita – centrato sulla lingua, sulla comunicazione. Senza quello, ero persa.
          Fui rimandata in terapia intensiva e, dopo circa una settimana, passò l’afasia. Ero in grado di parlare. Conoscevo il mio nome, tutti e cinque i bit. Ma ero anche consapevole del fatto che c’erano persone nei letti intorno a me che non riuscivano a uscire dall’unità di terapia intensiva mi è stato continuamente ricordato di quanto ero fortunata. Un mese dopo essere stata ammessa, lasciai l’ospedale, desiderando un bagno e l’aria fresca. Rilasciai delle interviste per la stampa e, nel giro di poche settimane, avevo in programma di tornare sul set de Il Trono di Spade.
          Ero tornata alla mia vita, ma, mentre ero in ospedale, mi era stato detto che avevo un aneurisma più piccolo all’altro lato del mio cervello, e poteva “scoppiare” in qualsiasi momento. I dottori dissero, tuttavia, che era piccolo ed era possibile che sarebbe rimasto dormiente e innocuo a tempo indeterminato. Vorremmo solo stare attenti. E il recupero è stato appena istantaneo. C’era ancora il dolore da affrontare e la morfina per tenerlo a bada. Ho detto ai miei capi de Il Trono riguardo alle mie condizioni, ma non volevo che fosse un argomento di discussione e dissezione pubblica. Lo spettacolo deve continuare!
          Anche prima di iniziare le riprese della seconda stagione ero profondamente insicura di me stessa. Ero spesso così stordita, così debole, che pensavo di morire. Stare in un hotel a Londra durante un tour pubblicitario, ricordo vividamente il pensiero, non posso tenere il passo, pensare o respirare, e tanto meno cercare di essere affascinante. Sorseggiavo la morfina tra le interviste. Il dolore era lì, e la stanchezza era come la peggiore spossatezza che avessi mai sperimentato, moltiplicata per un milione. E, ammettiamolo, sono un attrice. La vanità arriva con il lavoro. Ho passato troppo tempo a pensare a come guardavo. Se tutto ciò non bastasse, mi è sembrato di battere la testa ogni volta che ho provato a salire su un taxi.
          La reazione alla prima stagione è stata, naturalmente, fantastica, sebbene avessi ben poca conoscenza di come il mondo ha mantenuto il punteggio. Quando un amico mi ha chiamato esclamando, “Sei il numero 1 su IMDb!” Ho detto, “Che cos’è IMDb?”
          Il primo giorno di riprese per la seconda stagione, a Dubrovnik, continuavo a ripetermi: “Sto bene, ho vent’anni, sto bene”. Mi sono buttata nel lavoro. Ma, dopo quel primo giorno di riprese, sono riuscita a malapena a tornare in hotel prima che crollassi di sfinimento.
          Sul set, non persi un colpo, ma faticai. La seconda stagione sarebbe stata la mia peggiore. Non sapevo cosa stava facendo Daenerys. A essere completamente onesta, ogni minuto di ogni giorno pensavo che sarei morta.
          Nel 2013, dopo aver terminato la terza stagione, ho preso un lavoro a Broadway, interpretando Holly Golightly. Le prove furono meravigliose, ma fu presto chiaro che non sarebbe stato un successo. Il tutto durò solo un paio di mesi.
          Mentre ero ancora a New York per lo spettacolo, a cinque giorni dalla mia assicurazione SAG , sono andata a fare una scansione del cervello, qualcosa che ora dovevo fare regolarmente. La crescita dall’altra parte del mio cervello era raddoppiata, e il dottore disse che dovevamo “prendercene cura”. Mi fu promessa un’operazione relativamente semplice, più facile dell’ultima volta. Non molto tempo dopo, mi ritrovai in una stanza privata in un ospedale di Manhattan. I miei genitori erano lì. “Ci vediamo tra due ore”, disse mia madre, e via per andare in chirurgia, un altro viaggio sull’arteria femorale verso il mio cervello. Nessun problema.
          Tranne che c’era. Quando mi hanno svegliato, stavo urlando di dolore. La procedura aveva fallito. Ho avuto un sanguinamento enorme e i medici hanno chiarito che le mie possibilità di sopravvivere erano precarie se non funzionassero di nuovo. Questa volta avevano bisogno di accedere al mio cervello alla vecchia maniera attraverso il mio cranio. E l’operazione doveva accadere immediatamente.
          Il recupero è stato ancora più doloroso di quanto non fosse stato dopo il primo intervento chirurgico. Sembravo aver attraversato una guerra più macabra di quella vissuta da Daenerys. Sono uscita dall’operazione con uno scarico che mi usciva dalla testa. I frammenti del mio cranio erano stati sostituiti dal titanio. In questi giorni, non puoi vedere la cicatrice che curva dal mio scalpo all’orecchio, ma all’inizio non sapevo che non sarebbe stato visibile. E c’era soprattutto la costante preoccupazione per le perdite cognitive o sensoriali. Sarebbe la concentrazione? Memoria? Visione periferica? Ora dico alla gente che ciò che mi ha rubato è il buon gusto negli uomini. Ma, naturalmente, nulla di tutto ciò sembrava remotamente divertente al momento.
          Trascorsi di nuovo un mese in ospedale e, ad un certo punto, persi ogni speranza. Non potevo guardare nessuno negli occhi. C’era una terribile ansia, attacchi di panico. Sono stato educata a non dire mai: “Non è giusto”; Mi è stato insegnato a ricordare che c’è sempre qualcuno che sta peggio di te. Ma, passando attraverso questa esperienza per la seconda volta, tutta la speranza si è ritirata. Mi sentivo come un guscio di me stessa. Tanto che ora ho difficoltà a ricordare quei giorni bui in modo molto dettagliato. La mia mente li ha bloccati. Ma ricordo di essermi convinta che non avevo intenzione di vivere. E, per di più, ero sicura che la notizia della mia malattia sarebbe venuta fuori. E lo fece per un momento fugace. Sei settimane dopo l’intervento, il National Enquirer ha pubblicato una breve storia. Un giornalista mi ha chiesto di questo e l’ho negato.
          Ma ora, dopo aver mantenuto la calma per tutti questi anni, ti sto dicendo la verità per intero. Per favore, credimi: so che non sono certo unico, difficilmente solo. Innumerevoli persone hanno sofferto molto peggio, e con nulla come le cure che ho avuto la fortuna di ricevere.
          Qualche settimana dopo quel secondo intervento, andai con altri membri del cast al Comic-Con, a San Diego. I fan del Comic-Con sono hardcore; non vuoi deluderli. C’erano diverse migliaia di persone tra il pubblico e, proprio prima che avessimo continuato a rispondere alle domande, fui colpita da un orribile mal di testa. Era tornato quel maledetto senso di paura familiare. Pensai, è così. Il mio tempo è scaduto; Ho tradito la morte due volte e ora sta venendo a prendermi. Quando lasciai il palco, il mio addetto stampa mi guardò e mi chiese cosa c’era che non andava. Glielo dissi, ma lei disse che un giornalista di MTV stava aspettando un’intervista. Pensai, se me ne devo andare, potrebbe anche essere in diretta televisiva.
          Ma sono sopravvissuta. Sono sopravvissuta a MTV e molto altro ancora. Negli anni successivi al mio secondo intervento sono guarita oltre le mie più irragionevoli speranze. Ora sono al cento per cento. Al di là del mio lavoro come attrice, ho deciso di gettarmi in un ente di beneficenza che ho contribuito a sviluppare in collaborazione con partner nel Regno Unito e negli Stati Uniti. Si chiama SameYou e ha lo scopo di fornire cure per le persone che si stanno riprendendo da lesioni cerebrali e ictus. Sento infinita gratitudine – a mia madre e mio fratello, ai miei medici e infermieri, ai miei amici. Ogni giorno, mi manca mio padre, che è morto di cancro nel 2016, e non posso mai ringraziarlo abbastanza per aver tenuto la mia mano fino alla fine.
          C’è qualcosa di gratificante, e oltre la fortuna, nel giungere alla fine di Trono. Sono così felice di essere qui per vedere la fine di questa storia e l’inizio di tutto ciò che viene dopo.
          The New Yorker, 21 marzo 2019



          domenica 23 giugno 2019

          A braccetto con Dostoevskij per le strade di Pietroburgo





          A braccetto con Dostoevskij per le strade di Pietroburgo

          “A questo punto si pose un quesito interessante: perché in tutte le grandi città l'uomo, non per pura necessità, ma per una specie di curiosa inclinazione, è portato a vivere e a stabilirsi prevalentemente in quelle parti della città dove non esistono né giardini né fontane, dove regnano il fango, la puzza e ogni genere di porcherie” // Delitto e castigo, 1866
          Andrej Orekhov
          Se per Dostoevskij San Pietroburgo aveva il volto di una città triste e cupa, nella realtà la capitale del Nord offre scorci affascinanti e luminosi, ben lontani dalle descrizioni potenti che ne fa il padre di “Delitto e castigo”. Rbth ha comunque selezionato alcune citazioni di Dostoevskij, per accompagnarvi in un viaggio tra i canali e i vicoli di San Pietroburgo, in compagnia del grande genio russo
          “ ... Pietroburgo, la città più astratta e premeditata di tutto il globo terrestre” // Memorie dal sottosuolo, 1864
          “È una città di pazzoidi (...) È difficile trovare da qualche altra parte tanti elementi cupi, violenti, inspiegabili che influiscano sull'anima dell'uomo come qui a Pietroburgo” // Delitto e castigo, 1866
          “Le casette di legno color giallo chiaro avevano un aspetto triste e sporco, con le loro imposte chiuse. Il freddo e l'umidità gli penetravano in tutto il corpo, ed egli cominciò a sentire dei brividi. Di tanto in tanto, raramente, gli capitavano sotto gli occhi le insegne di bottegai, di ortolani, e le leggeva con la massima attenzione. Il lastricato di legno finì. Ormai si trovava all'altezza di un grande edificio di pietra” // Delitto e castigo, 1866
          “Fuori faceva un caldo da morire. In più c'era una gran calca; dappertutto impalcature, mattoni, calcina, polvere, e quel particolare tanfo estivo, così familiare a ogni pietroburghese che non abbia i mezzi per affittare una casa in campagna. Tutto ciò, di colpo, diede sgradevolmente sui nervi al giovane, che già li aveva abbastanza tesi per conto suo” // Delitto e castigo, 1866
          “C'era un grande edificio, tutto bettole e rivendite di generi alimentari e alcolici, dal quale uscivano continuamente di corsa delle donne, vestite come ci si veste ‘per andare dalla vicina’, senza niente in testa e senza soprabito. In due o tre punti avevano formato dei gruppi sul marciapiede, perlopiù davanti all'ingresso di certi scantinati dove, scendendo due gradini, ci si trovava in locali di divertimento di varie specie. Da uno di questi locali veniva un fracasso d'inferno, che rimbombava per tutta la strada. Si sentiva strimpellare una chitarra, si cantavano canzoni e, in generale, regnava una grande allegria” // Delitto e castigo, 1866
          “Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani, mio caro lettore. Il cielo era così stellato, così luminoso che, guardandolo, ci si chiedeva istintivamente: è mail possibile che sotto un simile cielo vivano uomini collerici e capricciosi?” // Le notti bianche, 1848
          “‘Lo capite, lo capite, egregio signore, cosa significa quando non c'è più un posto dove andare? Gli tornò in mente a un tratto la domanda rivoltagli da Marmeladov il giorno prima. Già: perché ogni uomo deve pur avere un posto dove poter andare...” // Delitto e castigo, 1866
          “Mi dicono che il clima pietroburghese mi diventa nocivo e che con i miei scarsi mezzi è troppo costoso vivere a Pietroburgo. Tutto questo lo so, lo so meglio di tutti questi esperti e savissimi consiglieri dall'aria saccente. Ma resterò a Pietroburgo; non me ne andrò da Pietroburgo! Non me ne andrò perché... Uff! Ma è assolutamente indifferente che me ne vada oppure no” // Memorie dal sottosuolo, 1864



          sabato 22 giugno 2019

          I tre amori di Dostoevskij

          Dostoevskij
          Fernando Vicente

          I tre amori di Dostoevskij

          L’amore fu per lui come i suoi romanzi: complesso, carico di tensione e di psicologia. E, proprio come nei suoi libri, Dostoevskij diede alle donne amate tutto sé stesso. Tuttavia fu sola una di loro a portare pace e armonia all'anima inquieta dello scrittore

          Il primo amore
          Il primo amore importante di Dostoevskij risale al periodo immediatamente successivo ai lavori forzati (fu l’unico scrittore russo del XIX secolo a essere condannato ai lavori forzati). Mai come allora Dostoevskij, logorato e disabilitato da quattro anni di privazioni e duro lavoro, necessitava di calore e coinvolgimento. Per la felicità o il dolore di Dostoevskij, fu proprio in questo momento della sua vita che apparve Maria Dmitrievna Isaeva. Il loro rapporto fu piuttosto complicato: quando si conobbero, Maria Isaeva era già sposata con un sottufficiale in cattiva salute e aveva un figlio. Ma Dostoevskij la amava. E la aspettò doverosamente.
          Maria Isaeva (Foto: Ria Novosti)
          Alla fine arrivò il momento: il marito di Maria Isaeva morì e il modesto scrittore, praticamente privo di mezzi di sussistenza, chiese apertamente a Maria Isaeva di diventare sua moglie. Ma il tardivo primo amore di Dostoevskij doveva superare ancora nuovi ostacoli: la donna lo mise alla prova. Maria Isaeva tormentò lo scrittore con delle lettere in cui chiedeva consigli su come chiedere a un uomo anziano e benestante di sposarla. Ma se Dostoevskij era abile al gioco, non lo era di certo in amore. Si sposarono ugualmente, ma per la donna Dostoevskij fu più un fratello, che un marito. I coniugi non potevano competere né da un punto di vista spirituale né fisico. Marc Slonim, uno dei più grandi filologi russi del XX secolo, scrisse nel suo libro "I tre amori di Dostoevskij”: Dostoevskij la amò per tutte le sensazioni che ella suscitò in lui, per tutto quello che lui ripose in questo amore, per tutto ciò che era ad esso collegato e per la sofferenza che questo causò. Fino all'ultimo giorno di vita di Maria (morta nel 1864 per il protrarsi di una malattia), a legare i due coniugi fu più la grande sofferenza reciproca che un vero e proprio sentimento d’amore.
          Fu proprio Maria Isaeva a ispirare l'eroina del romanzo di Dostoevskij "Umiliati e offesi": Natasha, una donna martirizzata da un dolore insopportabile ma che allo stesso tempo amava con rassegnazione.
          L’amore eterno
          Dostoevskij incontrò la giovane universitaria Apollinaria Prokofyevna Suslova nel corso di una delle serate di letture pubbliche dello scrittore. Lui aveva 42 anni, lei 22. Appolinaria diede a Dostoevskij quello che mai gli diede Maria: i due condividevano i gusti letterari e la passione fisica.
          Apollinaria Suslova (Foto: Wikipedia.org)
          Lei non era una donna mite e dolce, ma un’amazzone, seducente e temuta allo stesso tempo. Ma Dostoevskij non poteva dare ad Appolinaria ciò che lei avrebbe desiderato poiché lui era ancora sposato con Maria e il suo rapporto con la giovane Appolinaria era clandestino. A un certo punto, dopo una serie di tradimenti della Suslova, dopo la più lunga delle loro separazioni, durata due anni, Appolinaria non era più la ragazza giovane e inesperta, pronta a tornare sempre dallo scrittore.
          Appolinaria disse freddamente allo scrittore che non lo avrebbe sposato. Se è vero che Appolinaria Suslova fu fonte di grande dolore nella vita di Dostoevskij, non si può negare che questa donna lasciò un’impronta eterna anima dello scrittore. “Trasaliva quando si faceva il nome di lei, mantenne una corrispondenza segreta con lei, di nascosto dalla giovane moglie, ripetute volte si riferiva a lei nei suoi scritti e fino alla morte portò i ricordi delle sue carezze e delle sue ferite. Egli rimase sempre, nel profondo del suo cuore, fedele alla sua ragazza seducente, crudele, sbagliata e tragica”, scrive Marc Slonim.
          Appolinaria lasciò un segno profondo nella vita di Dostoevskij e praticamente in ognuna delle sue opere si trovano alcune caratteristiche di questo eterno amore. Qualcosa della Suslova lo troviamo nel personaggio eroico di Dunya ("Delitto e castigo"), qualcosa nell'appassionata ed eccentrica Nastasya Filippovna ("L’idiota"), qualcosa nell’orgogliosa e nervosa Lisa ("Demoni"). Appolinaria ispirò infine il personaggio di Polina, l'eroina principale del “Il giocatore".
          L’amore felice
          Anna Grigorievna Snitkina fu la stenografa che aiutò lo scrittore durante la stesura del romanzo "Il giocatore". Lo scrittore aveva 25 anni più di lei.
          Anna Snitkina con i figli (Foto: Ria Novosti)
          Lavorarono al romanzo a tal punto che dopo un paio di giorni dalla sua conclusione non riuscirono a immaginarsi l’uno senza l'altro e così nel 1867 Anna divenne la moglie di Dostoevskij. Ci si chiede quale significato abbia avuto per lo scrittore il romanzo “Il giocatore”: L’ eroina principale del romanzo è riconducibile all'amata Appolinaria, lo scrisse letteralmente sul letto di morte della moglie Maria e lo redasse con l’aiuto della stenografa e futura moglie, Anna.
          Dopo il matrimonio con Anna, Dostoevskij sentì una necessità piuttosto pratica: aveva bisogno di costanza, di un terreno solido sotto i piedi. E inizialmente il loro matrimonio somigliò al rapporto di Dostoevskij con le sue ex amanti, ma poi Anna fece un passo che nessuna prima aveva osato fare: gli chiese di tenere unita la famiglia, cambiare l'atmosfera e andare all'estero. Un anno dopo il matrimonio nacque la seconda figlia, che lo scrittore amò sinceramente. Ma presto nella casa dei coniugi arrivò un grande dolore: la piccola Sonia morì. Più tardi ebbero altri tre figli. In 14 anni di matrimonio con Dostoevskij, Anna provò dolore e angoscia: la morte di due bambini, la gelosia del marito, la sua dipendenza dal gioco, ma non si lamentò mai del destino e fino all'ultimo giorno rimase una compagna fedele.
          Probabilmente fu proprio perché Anna si rivelò l’unica donna ad accettare Dostoevskij così com’era, senza cercare di cambiarlo, che l’amore per questa ragazza fu il più felice e armonioso nella vita dello scrittore.

          RUSSIA BEYOND



          venerdì 21 giugno 2019

          Come Dostoevskij ha influenzato l’arte di Edvard Munch

          DOSTOEVSKIJ

          Come Dostoevskij ha influenzato l’arte di Edvard Munch

          Il norvegese amava lo scrittore, e anche quando è morto aveva un suo libro sul comodino. Una grande mostra dei suoi dipinti alla Galleria Tretjakov di Mosca (dal 17 aprile al 14 luglio) è l’occasione per approfondire il tema dell’influsso dell’autore russo sul pittore che ha dipinto “L’urlo”
          Il 17 aprile, alla Galleria Tretjakov di Mosca ha aperto le porte la prima grande mostra in Russia dell’artista norvegese di fama mondiale Edvard Munch (1863-1944). Nonostante qui la sua opera non sia nota come in Occidente, i quadri di Munch hanno forti connessioni con la Russia, più di quanto non si possa immaginare. Il suo mito e ispiratore era infatti Fjodor Dostoevskij (1821-1881) e il suo dipinto più noto, “L’urlo” (in tre versioni: 1893, 1895 e 1910) sembra quasi un personaggio de “I Demoni” finito sulla tela.

          La direttrice della Galleria Tretjakov, Zelfira Tregulova, che ha condotto una trattativa lunga anni con il Museo Munch di Oslo, ha sottolineato come Munch abbia fatto nel campo della pittura quello che Dostoevskij ha fatto nella letteratura: “Ha rivoltato l’anima umana e mostrato tutte le profondità e gli abissi delle passioni che dilaniano l’uomo e la complessità della sua natura”. 

          Munch ammirava il talento letterario di Dostoevskij 

          La bohème norvegese degli anni Ottanta dell’Ottocento, di cui il giovane Munch faceva parte, si viveva come un insieme di giovani artisti anarchici, e leggeva avidamente le opere di Dostoevskij, che allora erano già state tradotte in norvegese. 

          “Qualcuno un giorno potrà forse descrivere quei tempi? Servirebbe Dostoevskij, o quantomeno un mix di Krohg [Christian Krohg, 1852-1925, pittore, scrittore e giornalista norvegese, che influenzò molto Munch, ndr], di Jæger [Hans Henrik Jæger, 1854-1910, scrittore, filosofo e anarchico, ndr] e forse anche di me, per fare in modo così convincente, come riuscì a Dostoevskij nel caso di una città siberiana, la descrizione di quanto vegetasse Kristiania [nome di Oslo dal 1878 al 1924, ndr] non solo allora ma anche oggi”, scrisse Munch.

          L’opera preferita? Il racconto “La mite” 

          È un lavoro di Dostoevskij poco noto (o comunque messo in ombra dalla fama di altre opere) quello che maggiormente influenzò Munch. Si tratta del racconto del 1876 “La mite” (a volte tradotto in italiano anche come “La mansueta”; titolo originale in russo: “Krotkaja”). Si tratta della storia di una ragazza infelice che si suicida, dopo che, per sfuggire alla povertà, ha accettato di sposare uno strozzino che disprezza e che la tratta con cattiveria.

          Gli esperti ritengono che uno dei più celebri autoritratti di Munch, “Tra l’orologio e il letto” (1940-43), nel quale sullo sfondo è rappresentata una ragazza nuda, sia una sorta di illustrazione per “La mite”. 

          Il debole artistico nei confronti dei pazzi e delle ragazze povere è un tratto che accomuna Munch e Dostoevskij. Uno dei dipinti più celebri di Munch, in sei versioni realizzate tra il 1885 e il 1927, “La fanciulla malata” (noto anche come “Bambina malata”), che suscitò una raffica di critiche perché considerato “un abbozzo non finito”, rappresenta il lutto del pittore per la morte di tubercolosi dell’amata sorella.
          E come diceva Raskolnikov in “Delitto e castigo”: “Non so perché mi fossi così legato a lei, probabilmente perché era sempre malata. Se fosse stata zoppa o gobba, mi sembra che le avrei voluto ancora più bene”. 

          I quadri di Munch hanno sofferto come i protagonisti di Dostoevskij

          Il biografo di Munch, Rolf Stenersen (1899-1978) ha descritto lo strano metodo per il quale il pittore, considerando i suoi dipinti come suoi figli, riteneva di dover “punire” quelli che non erano riusciti come voleva. Li esponeva alla pioggia, al vento, alla neve e li rimetteva dentro solo dopo del tempo. È noto con certezza che così l’artista si comportò con “Separazione” (1896), e questa tela ne ha molto sofferto. Delle chiazze comparse per caso, tra cui degli escrementi di uccello, sono diventati parte dell’opera. 

          Questo insolito procedimento era chiamato da Munch “hestekur”; cura da cavallo. Gli esperti ritengono che si tratti di un rimando al sogno di Raskolnikov, nel quale il protagonista, da piccolo, vede come un contadino picchia la sua debole cavalla solo perché è “sua”. E la folla grida di dargliene fino ad ammazzarla.

          Munch associava se stesso allo scrittore russo


          È probabile che Munch abbia praticato quella che oggi chiameremmo “fan art” (opere create dai fan di un artista, o ispirate alle sue creazioni e ai suoi personaggi). In uno dei suoi tanti autoritratti, una litografia del 1895, il pittore norvegese si raffigurò con un braccio di scheletro. C’è l’ipotesi che questo lavoro sia stato ispirato da un ritratto di Dostoevskij realizzato in quello stesso anno in xilografia dal pittore svizzero Félix Vallotton (1865-1925).

          Munch fu trovato morto con accanto un libro di Dostoevskij 
          Nella mostra alla Galleria Tretjakov c’è anche un libro appartenuto a Munch. È in una teca assieme a una lettera al pittore dell’impresario teatrale Sergej Djagilev (1872-1929). Il libro è la traduzione norvegese de “I Demoni” di Dostoevskij. Proprio con questo libro sul comodino, Munch fu trovato morto nella sua tenuta di campagna, poco fuori Oslo, il 23 gennaio 1944, all’età di ottant’anni.