domenica 31 luglio 2016

Fenomenologia degli Orchi / E se fossero esistiti?


L'orco e la moglie
Gustave Doré

Fenomenologia degli Orchi

E se fossero esistiti?


Di Giacomo Maria Prati
28 GIU 2016
Ucci ucci sento odor di cristianucci
O ce n’è o ce n’è stati
O ce n’è di rimpiattati

(Refrain in molte fiabe con gli orchi)
Un numero notevole di fiabe di ogni regione italiana e di tutta Europa presenta quali protagonisti o comparse personaggi celebri ma non ancora a fondo studiati: gli orchi, sia nella loro versione maschile che femminile.
Compaiono nelle fiabe anche comportamenti tipici degli orchi ma attribuiti nominalmente a streghe, stregoni, fate cattive, “regine madri” spietate. Orchi espliciti e impliciti. Questo dato culturale è tipico di una lunga stratificazione storica. Siccome lo studio dell’etimo non risolve (in quanto orcus/ogre spazia dal greco al latino fino all’antico inglese) la domanda semplice che dobbiamo porci è questa: quali sono i connotati degli Orchi fiabeschi?
Se confrontiamo centinaia di fiabe il risultato è questo: gli orchi sono sempre gli stessi, assumono i medesimi comportamenti che possiamo riassumere: 1) hanno ottimo fiuto 2) non sono cristiani e hanno disprezzo e ostilità verso i cristiani 3) mangiano i cristiani, sia crudi che cotti, in particolare i bambini. Estremamente importante è anche il contesto ambientale tipico degli orchi seppur le fiabe siano sempre abbastanza indeterminate nel loro spaziotempo. Il tempo e luogo della fiaba è sempre lontano, per esigenze narrative e per la stessa natura della fiaba.
Possiamo dire che gli orchi abitano un “lontano” dentro il “lontano della fiaba”. L’habitat che rivela l’orco è connotato da pochi tratti: boschi, terre selvagge, luoghi isolati, zone attraversate dai loro appetiti immensi e da una certa passione per la caccia. Non a caso nella Bella addormentata il popolo del contado crede che nell’isolato bosco di rovi che circonda il castello ci vivesse un orco. L’orco ama la selvaggina, non distinguendo fra quella animale e quella umana, trattata quale selvaggina prediletta per la sua prelibatezza. Un habitat quindi normale, anche se più selvatico del solito.
Il Gatto con gli stivali
Gustave Doré

Questi tratti confermano l’antichità dell’origine del personaggio: l’orco sta poco in casa, esce presto e torna alla sera stanco e con appetiti immensi, tanto da mangiarsi una pecora intera. Se l’orco entra in tutte fiabe e compare descritto sempre nel medesimo modo ed è un tipo di umanità non possiamo, proprio per essere razionali, non chiederci: e se fossero esistiti? Gli orchi sono come noi, non sono mostri o demoni, ma persone umane. Questo li rende ancora più inquietanti, proprio perché tengono un piede nei mondi fiabeschi e uno nella storia umana. Certo, alcune fiabe indulgono ad aspetti più folcloristici, come Le tre fate di G. Basile dove l’orco appare come un “uomo-cinghiale”, enfatizzando la mostruosità etica degli orchi nel trasporla in una visualizzazione caricaturale, ma a un'analisi più attenta notiamo come nella maggior parte delle fiabe l’orco si riconosce solo quando emergono dallo svolgersi della vicenda i tratti che abbiamo ricordato, mentre i protagonisti della fiaba non si accorgono mai da soli di trovarsi a che fare con un orco.
Di solito è la moglie dell’orco, che non è orchessa come in Pollicino e nell’Orco con le penne, che avverte il protagonista per aiutarlo oppure dell’“orchità” se ne accorge il servo, il cuoco o il cacciatore o la guardia come nei casi delle orche “regine madri” che cercano in ogni modo di mangiarsi gli odiati nipotini. Gli orchi o le orchesse hanno di solito la nostra stessa apparenza umana. Gli orchi sono tali per comportamento, quale categoria socio-etica e non per differenza ontologica, ci insegnano le fiabe. In altre fiabe gli orchi appaiono in coppia, moglie e marito, come nella fiaba toscana di Pochettino.
Rari sono i casi in cui l’orco viene descritto quale figura anomala in senso visivo (pelosità, coda, grandezza, deformità, ecc.) e sono casi in gran parte facilmente spiegabili con la confusione e sovrapposizione avvenuta nei secoli tra la figura dell’orco e altre distinti personaggi mitici come l’uomo selvatico, tradizione in realtà di origine assai differente, o come il gigante, se ricordiamo la fiaba del Fagiolo magico, o come figure magico-mitiche alla Proteo, se ricordiamo l’orco proteiforme del Gatto con gli stivali. Nella fiaba bolognese del Gobbo Tabagninol’orco viene chiamato “uomo selvatico”, ma è un orco imbuonito, cannibale ma ormai svogliatamente, e certamente descritto come ingenuo, stupido, come appartenente a un’etnia più primitiva, come pure imborghesito appare l’orco nell’omonimo racconto nel Cunto de li cunti.
Altra tipica contaminazione, questa volta con il mito greco, la troviamo nel tema, spesso orchico, dell’imbandire le carni umane a mensa, quale forma massima di vendetta contro un avversario. Dopotutto il ritualizzare la carne umana compare più volte nel mito greco: nei titani che divorano Dioniso Zagreo bambino, primi orchi europei, nel sacrificio umano di Dolone imbastito da Odisseo (Canto X dell’Iliade) e nello smembramento rituale che Menelao compie a Ilio su Deifobo.
Analogo fenomeno linguistico di sopravvivenza/contaminazione accade nella parallela casistica, anch’essa ampia, dell’“orco implicito”, fatto che dimostra il tardo confluire dell’antica figura dell’orco nella più generale, fluida, “rassicurante” categoria della strega o fata cattiva. Tutto ciò porta a poter formulare una ragionevole ipotesi: l’origine del racconto degli orchi da sopravvivenze tribali indigene. Possiamo anche azzardare una prima localizzazione, per quanto ampia e imprecisa: piccoli nuclei autoctoni nel nord europa e nell’Europa dell’est fra il 600 e il 1000 d.C. circa. Gli orchi potrebbero essere reali gruppetti tribali che resistettero alla civilizzazione in quelle regioni europee che più tardi furono cristianizzate: paesi baltici, Scandinavia, foreste russo-ucraine.
Una conferma ex post potrebbe trovarsi nel monumento all’orco divoratore di bambini, il Kindlifresserbrunnen, che campeggia a Berna, in Kornhausplatz. Forse non è un caso: la Svizzera è rimasta anch’essa per secoli isolata (e romanizzata solo a macchia di leopardo), tanto che vi perdurarono culti mitraici ancora in epoca teodosiana, anche se questo bizzarro monumento può essere letto in modo alternativo quale cinquecentesco strumento di accusa antisemita, nel solco di una possibile operazione di “semitizzazione degli orchi” tramite il racconto dell’omicidio rituale di bambini o ragazzi cristiani (Ariel Toaff, Pasque di sangue).
L'orco delle fiabe

Questi relitti di etnie avrebbero potuto resistere in modo camaleontico rispetto ai grandi spostamenti e alla stabilizzazione delle popolazioni di origine asiatica: sassoni, goti, unni, avari, bulgari, longobardi. Gli orchi infatti appaiono “più barbari” dei “barbari” che invasero l’Impero romano, i quali si lasciarono abbastanza facilmente cristianizzare e romanizzare, avendo già una loro forma di civiltà, anche se nomade. I barbari che diedero sostanza al Medioevo avevano codici etici e d’onore, una cultura guerresca, forme sociali, per quanto semplici, e spesso sapevano già lavorare i metalli preziosi. Conferma sociologica di ciò si ha nelle “regine madri” che cercano di annientare i nipotini non orchi cucinandoli per il loro piacere. In questo caso potrebbe trattarsi del ricordo della volontà di preservarsi una stirpe orchica contro il pericolo estinzione per il meticciato (= cristianizzazione) da parte degli ultimi esponenti di queste etnie indigene. Gli orchi quale quale setta esoterica elitaria, forse di origine matriarcale. Ne accenna persino il film Il tredicesimo guerriero.
La metamorfosi narrativa del comportamento orchico è indice di un processo socio-storico credibile che spiegherebbe la genesi di tale immaginario. La fiaba assorbe e perpetua nel tempo. Basti pensare alle tracce derivanti dal mito greco e dalle ritualità latine: nella fiaba piemontese La barba del conte viene evocato un racconto più antico: quello della Masca Micillina, una “strega” che dimostra comportamenti tipici di Medusa, delle Baccanti, e della Medea degli Argonauti di Apollonio Rodio: sguardo rituale che tramortisce e il furto delle mandrie commisto alla magrezza fatturata delle bestie.
Gli stessi gesti li troviamo anche nelle maschere etrusche toscane delle Gorgoni: lingua in fuori tipo dea Kalì e occhi strabuzzanti. E non a caso nel racconto il protagonista, Masino, accenna ai cannibali africani. Lapsus e transfert culturale? Riguardo a una dinamica facciale che magicamente genera un trauma le performance di Miley Cirus avrebbero causato scompensi cardiaci negli uomini antichi!
Tornando ai comportamenti orchici possiamo ricordare la favola monferrina I dodici buoi dove la strega che appare quale principessa tenta di mangiarsi un agnellino che in realtà è uno dei fratelli della principessa, oppureRe Crin dove sono questa volta Vento, Fulmine e Tuono che potrebbero mangiarsi il protagonista e recitano l’"ucci ucci", mentre nella versione calabrese della Bella Addormentata la principessa ha due figli da un giovane re innamorato e la spietata regina madre ordina di cucinare e servire a mensa a suo figlio i corpi dei due suoi figli, che si salveranno per la consueta compassionevole sostituzione che ritroviamo anche in Biancaneve.
Non si comprende mai perché la regina madre odi così tanto i suoi imprevisti nipoti. Perché non sono di stirpe orchica? Oppure vuole dare da mangiare i nipoti al figlio per abituarlo al cannibalismo orchico? Si tratta di un’iniziazione? Sembrerebbe così in quanto il giovane re, all’improvviso misteriosamente ammalato, non può andare più a trovare di nascosto la sua amata e i suoi figli e allora continua a ripetere i loro nomi ma in un modo strano, quasi rituale e allusivo: Sole, Luna e Carola vi avessi alla mia tavola. La citazione della tavola e il tentativo di infanticidio/cannibalismo indotto sembrano dialogare fra di loro quali echi di riti ancestrali, magari sacrificali o ritenuti taumaturgici. Analogo caso di “orchismo postumo, mascherato” lo troviamo nella favola fiorentina diPrezzemolina, variante di Raperonzolo, dove le streghe fanno di tutto per cercare di mangiarsi la ragazza.

L’orco in conclusione non appare un guerriero, né conosce il lavoro, a differenza dei popoli barbari del primo Medioevo, ma si lascia denotare solo quale cacciatore stanziale, cioè la forma sociale più primitiva. Lo stesso fiuto acuto, per la carne viva, sembra attributo tipico di cacciatori quasi preistorici, simili alle loro prede. Anche nei casi in cui l’orco appare peloso, come nella favola abruzzese La finta nonna, che presenta alcuni aspetti simili aCappuccetto rosso, e in quella pugliese Pulcino, simile a Pollicino, questo dato potrebbe rinviare allo status tribale e primitivo degli orchi quale categoria etnico-culturale.
La mostruosità dell’orco, oltre al cannibalismo anticristiano, deriva anche dal suo “non detto”, cioè dal non poter essere qualificato né descritto né normalizzato altrimenti. Orco. E basta.

Giacomo Maria Prati
Giacomo Maria Prati (Tortona, 1971) parallelamente ad una formazione giuridica sviluppa un'attitudine e una passione per i linguaggi simbolici, i testi mistici, l'iconologia, i miti e le strutture narrative di determinati linguaggi, prediligendo il ciclo dei romanzi medioevali del Graal,il patrimonio alchemico, i miti di Sparta. Molte le sue passioni: dalla filosofia del diritto al management dei beni culturali. Nell'aprile 2013 esordisce come traduttore con una nuova traduzione del Cantico dei cantici e dell'Apocalisse, accostati ad immagini del Duomo di Milano e del Cenacolo di Leonardo. Dopo aver analizzato in modo innovativo cinque capolavori di arte antica ora sta concludendo un saggio dedicato ad Hermes e uno studio sull'immaginario della deposizione di Cristo al cui interno, non sappiamo come, cita da Gino Paoli a Pinocchio.





sabato 30 luglio 2016

Star Wars forever / La filosofia gnostica quale lato occulto dell’epopea


Star Wars forever

La filosofia gnostica quale lato occulto dell’epopea

Di Giacomo Maria Prati

14 LUG 2016 

di 
Devi disimparare ciò che hai imparato - Yoda
Il successo di Star Wars deriva da tre fattori: 1. la semplicità di un “modulo narrativo base”, moltiplicabile all’infinito come una sequenza di frattali 2. il cocktail romantico delle polarità opposte, tanto amate dai ragazzi: ipertecnologia e primitivismo (esseri cavalcanti, mostri, Chewbecca con la sua balestra, ecc.), ultramodernità ed etica cavalleresca, tecnica ed epica, “alieni e medioevo”, insomma 3. quell’ambiguità e indeterminatezza pop tali da permettere a chiunque di immedesimarsi nella vicenda senza tanta fatica.
Il primo fattore si evidenzia confrontando Una nuova speranza, il numero zero dell’epopea, con tutti gli altri sei episodi: si tratta del medesimo racconto rimodulato variando condimenti e accessori. Star Wars come il bollito alla piemontese: carni semplici e sempre le stesse ma con molte e variegate salse stuzzicanti. In questa variazione continua della matrice originaria è facilissimo notarne le costanti: l’eroe buono che passa al “lato oscuro” (Dooku, Anakin, il figlio di Han Solo), gli Jedi minacciati, l’arma segreta dell’Impero (come quelle di Hitler), il covo nascosto dei ribelli (i partigiani, l’aviazione britannica nella II WW), il passaggio iniziatico dal maestro all’allievo Jedi, e il tema dell’“eletto”, che sarà molto forte, fino all’ossessione non a caso anche nella saga di Harry Potter. Tutto è doppio e duale.
Il secondo fattore lo riscontriamo concretamente nei gusti dei bambini della nostra società di massa. Cosa amano di più fra i 4 e i 7 anni i maschietti? Dinosauri e pirati, mostri e spazi siderali pieni di alieni e astronavi. Gli estremi. Le polarità dell’Astratto e del Selvaggio. Il genio di Lucas è di aver reso più intriganti questi ingredienti da cocktail di prevedibile e programmato successo con alcuni “sfasamenti” etico-estetici ancora più conturbanti e che denotano una logica tipica del pensiero gnostico e del manicheismo e che ritroveremo in parte, in modo più ideologico, anche nella trilogia di Matrix, mentre in Star Wars restano più impliciti, contribuendo all’eleganza quasi neoclassica, arcadica, canoviana di questa magnetica epopea. Notiamone alcune evidenze.

Il male non è un potere/dimensione del tutto opposto o alieno alla Forza, sorta di energia vitale cosmica e impersonale (molto simile allo Spirito o Sostanza divina delle filosofie e religioni orientali) ma ne è il lato oscuro, cioè un rischio degenerativo insito nella stessa Forza per chi non riesce a salire correttamente nell’ascesi iniziatica propria degli Jedi. Evola e Guenon sottoscriverebbero! Si tratta di una versione laica della “via della mano sinistra” rispetto alla vie tradizionali alla partecipazione di uno Spirito e di una Tradizione vista quale Sapienza perenne, sovrastorica. Ebbene questo pensiero è tipico dello gnosticismo e del manicheismo, come pure lo ritroviamo nell’esplosione ottocentesca e novecentesca della Teosofia e delle sue varie diramazioni.
Il lato oscuro viene nutrito da paura, rabbia, odio. Yoda e Obi Uan Kenobi quindi “a contrario” sembrano insegnarci che la via filosofica alla Forza, assai simile al Taoismo e al Buddismo Zen, nel comune culto dell’essenzialità e dello svuotamento depersonalizzante, si percorre praticando l’atarassia e il distacco per accogliere e sentire la Forza universale. Lo stesso Mito della Forza è ben conosciuto nella storia della cultura: l’ideale della Forza unica in alchimia (Tabula smaragdina), il concetto di Vril nella teosofia ariana e nazista, il “campo unificato delle forze”, da sempre ricercato dai fisici nucleari dagli inizi fino ad oggi. Gli Jedi del passato appaiono come i “corpi astrali” delle religioni orientali, ripresi dalla Teosofia. Il maestro di Anakin appare a un Luke arrabbiato per non essere stato avvisato che il nemico è suo padre, insegnando la necessaria relatività delle prospettive di lettura della vita.
Darth Fener non è Anakin Skywalker: la metanoia prevale sul concetto di persona. Se la Forza è un Dio olistico e monistico, panteista, impersonale, il male è tale perché è solo “un lato” della Forza, ossia una sua riduzione, degradazione. In questo resta un lontano eco di Agostino e della sua visione teologia, poi tomistica, del male quale “diminuzione del bene”, privo di una sua ontologia autonoma. Qui non abbiamo però racconti sull’ontologia o la necessità né della Forza e né del Lato oscuro. Il teatro dell’avventura lascia sullo sfondo le domande prime, pur alluse e presupposte, come ogni saga richiede, altrimenti avremmo un trattato di filosofia!
L’icona deve restare “vuota” altrimenti non tutti potranno identificarsi con essa ricreando la “loro idea” della Forza e del suo epos. Lo scopo della Forza sembra perpetuare se stessa; il suo Valore massimo pare l’Equilibrio, non la vittoria definitiva sul Lato oscuro. Comico, involontariamente, il rimprovero dell’Imperatore contro Darth Fener sul suo non avere una visione chiara su Luke (nel Ritorno dello Jedi). Una visione chiara dentro il Lato Oscuro! Sia la Forza che il suo opposto appaiono dialetticamente necessarie per le dinamiche di sviluppo del cosmo.
Un esempio emblematico di questa dualità monistica lo troviamo in Darth Fener e in Luke che si tranciano entrambi le mani fra il terzo e il sesto episodio, e anche nel settimo la ragazza futura Jedi ferisce il figlio di Han Solo. La Forza appare come un oceano calmo e indifferente che garantisce una regolare oscillazione fra male e bene, fra Impero e Repubblica. Altro paradosso: gli Jedi hanno un rapporto passivo con la Forza, mentre i Sith presentano un’etica ascetica attiva nel cercare di usare e manipolare la Forza. Nel primo scontro fra Luke e Darth nell’Impero colpisce ancora Luke sembra un Sith, aggressivo e collerico, mentre Darth Fener mostra la calma e il distacco di uno Jedi! Non solo: Darth Fener cerca di “convertire” Luke più di quanto Luke cerchi di farlo con lui! Lucas ama le inversioni dialettiche! Un Yoda morente infine insegna a Luke che per essere uno Jedi gli manca l’incontro/scontro finale con il nemico/padre. Un Lucas freudiano? Oppure la necessità di un’iniziazione che inverta la contro-iniziazione di Fener?
La bellezza estetica di questa storia è una bellezza per “sottrazione”, per semplificazione di vari altri immaginari e stilemi. Anche nei dettagli abbiamo un sinusoide di ondulazioni, sovrapposizioni riecheggiamenti complementari: le spade Jedi sono di evidente origine samuraika, nonché simili ai bastoni del Kendo, i vestiti degli Jedi ricordano i monaci e gli Jedi sembrano anche una versione futuribile dei monaci guerrieri Templari, mentre i “cattivi” soldati dell’Impero vestono belle ed eleganti armature bianche, colore tradizionalmente tipico dei buoni, e i loro capi sono tutti ex buoni.
Un contrabbandiere e truffatore diventa eroe, Ian Solo, e Dart Fener indossa un casco fra il samurai giapponese e l’elmetto nazista e mostra una sua solennità misteriosa di chiaro fascino, indossando infine il mantello come gli Jedi. L’inversione dialettica appare massima nella sequenza degli episodi. Prima Anakin diventa Dart Fener, poi abbiamo un soldato disertore dell’Impero che si rivela decisivo nell’ultimo episodio. Come far dialogare mondi opposti se non con il tradimento? Non parliamo delle varie “Morti” bianche e nere e delle varie identiche minacce dei “piani di attacco”… fino alla quarta generazione di Jedi con il settimo episodio, del tutto pedantemente ricalcato sul numero zero di Una nuova Speranza, con identico deserto e uso del piccolo robot per celare i piani di attacco.
Il tema fondamentale della saga in realtà non è quindi la sconfitta del male ma la perpetuazione di un’iniziazione da parte di ciascun aspetto della Forza, in modo che l’adepto, l’eletto, continui la catena ascetico-sapienziale e la tramandi nel futuro. In altre parole, mutuando il linguaggio politico, possiamo dire che il tema è l’autoselezione per cooptazione di una classe dirigente. La specularità perfetta fra Impero e Repubblica li legittima reciprocamente. L’Impero è l’Impero, si fonda sull’autoidentificazione. Assomiglia un po’ all’Impero romano e un po’ al nazismo: cerca l’ordine e l’unità, ma si mostra spietato e intollerante, come ogni Impero.
La Repubblica di Lucas è come ogni Repubblica: caotica, multipolare, instabile, corrotta, mercantile-commerciale. Lucas è bravo a giocare pattinando sui modelli-base, archetipali. L’Impero non può che vedere nella Repubblica un fattore di erosione e di ribellione e la Repubblica non può vedere nell’Impero un’oppressione pericolosa. La lotta fra Impero e Repubblica è una lotta fra due distinte utopie internazionali, totalizzanti, tra due distinte ma non separate modalità di gestione sociale di un universo che resta cosmopolita, vario, caotico, multipolare. L’utopia imperiale è quella di conferire un ordine, ossessione di ogni Impero, mentre l’utopia della Repubblica è quella di trovare sempre soluzioni nel mercato dei compromessi del Senato e degli accordi galattici.

Gli universi di Guerre Stellari sono sostenute dal permanente conflitto fra tradizione e tradimento, dalla tensione fra fedeltà e distacco, fra Identità e Ricerca. Libertà di ricerca o difesa dell’identità? Questione sempre attuale. La Forza è come un sismografo che registra le oscillazioni e le ondulazioni nella lotta fra i due aspetti di se stessa, restandone sostanzialmente indifferente. Prova ne è che sia Darth Fener che Luke avvertono reciprocamente la loro presenza e vicinanza percependo una “perturbazione nella Forza”. Ci saranno sempre, nel mondo coerente diGuerre Stellari, reciproci tradimenti che dialetticamente sosterranno la dinamica del cosmo in una sorta di predestinazione semiprovvidenziale e semideterministica. Simile in questo Matrix, dove Zion (cioè: Sion) è previsto che resista fino al suo rifiorire e la storia dell’universo è, come per Star Wars, un ciclo inesausto di nuove albe e nuovi ritorni, continue emanazioni e riassorbimenti, come la concezione gnostico-neoplotiniana degli eoni.
Già Eraclito aveva teorizzato il fuoco e la guerra quali principi creativi del cosmo. Dopotutto anche nel valore simbolico dei nomi troviamo conferme della simile derivazione gnostica di Matrix: i Sith originali erano una specie di umanoidi dalla pelle rossa nativi di Ziost, ancora una volta il Mito di Sion, la Città regale e sacra, il nuovo Eden che ciclicamente rifiorisce o si riocculta.
La bellezza classica e futurista della saga deriva anche da queste modulazioni trasversali di canoni narrativi molteplici. E pluribus unum. Per questo genera un culto feticistico che ricorda il culto per gli oggetti di design.Star Wars è il design dell’Epos, il format totale e totalizzante che permette all’Epos di sopravvivere omologandolo in una dualità gnostica, pragmaticamente adattabile ad ogni contesto tecnico e stilistico. Luke non vince l’Imperatore: è l’Imperatore che perde per la ribellione di Darth Fener. Né la Forza né il Lato oscuro possono vincere definitivamente uno sull’altro, ma restano in continua tensione fra latenza e rivelazione dando così un futuro a due stirpi iniziatiche contrapposte. Star Wars forever!

Giacomo Maria Prati
Giacomo Maria Prati (Tortona, 1971) parallelamente ad una formazione giuridica sviluppa un'attitudine e una passione per i linguaggi simbolici, i testi mistici, l'iconologia, i miti e le strutture narrative di determinati linguaggi, prediligendo il ciclo dei romanzi medioevali del Graal,il patrimonio alchemico, i miti di Sparta. Molte le sue passioni: dalla filosofia del diritto al management dei beni culturali. Nell'aprile 2013 esordisce come traduttore con una nuova traduzione del Cantico dei cantici e dell'Apocalisse, accostati ad immagini del Duomo di Milano e del Cenacolo di Leonardo. Dopo aver analizzato in modo innovativo cinque capolavori di arte antica ora sta concludendo un saggio dedicato ad Hermes e uno studio sull'immaginario della deposizione di Cristo al cui interno, non sappiamo come, cita da Gino Paoli a Pinocchio.


venerdì 29 luglio 2016

La Melancolia di Dürer / L’antico enigma finalmente svelato?

Melancolia

La Melancolia di Dürer

L’antico enigma finalmente svelato?


Di Giacomo Maria Prati

28 GEN 2015 
Vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore
(Luca 10,18)

Il quinto angelo suonò la tromba e vidi un astro caduto dal cielo sulla terra. Gli fu data la chiave del pozzo dell'Abisso; egli aprì il pozzo dell'Abisso e salì dal pozzo un fumo come il fumo di una grande fornace, che oscurò il sole e l'atmosfera.
(Apocalisse 9, 1.2)

Warbur, Benjamin, Panosfsky, Calvesi, e alcuni altri fra i migliori iconologici e studiosi dei linguaggi estetici e artistici si sono come smarriti di fronte all’enigma di una delle immagini più ricche di dettagli e nel contempo più semanticamente sfuggente fra tutti i capolavori dell’arte antica: l’incisione Melancolia I di Albrecht Dürer (1514). Cosa la rende così difficile da decrittare? Certamente il coacervo di numerosi ed eterogenei elementi e l’assenza di un riferimento univoco evidente. Cosa c'entra una cometa con un angelo che sembra triste o irato? Perché un cane arrotolato e magro vicino ad una macina? E quel bambino che scrive su una tavoletta? Per non parlare del golfo marino e di quel crogiuolo da fonditura dei metalli! Che senso ha nella sua unità questa rappresentazione?
Nonostante la loro acutezza e la loro sensibilità raffinata gli studiosi sopra citati, eccellenti per i loro studi iconologici di rilievo storico ed universale, si sono però come arresi in una sorta di “malinconia saturnina” di fronte alla sfida della risoluzione del significato di questa singola opera, come assorbendo quell’umore “da bile nera” a cui allude il titolo dell’opera e il sembiante dell’angelo seduto. Cosa è accaduto? E’ accaduto che ci si sia ermeneuticamente autocensurati in rapporto alla possibilità di risolvere il senso complessivo e preciso dell’incisione e ci sia limitati ad “utilizzarla” quale occasione per ragionamenti di filosofia dell’immagine, pur raffinati e profondi, assai interessanti ma altri rispetto alla questione della semantica del racconto visivo.
La Melancolia I è stata così trasformata in un’icona neoromantica, o postmoderna ante litteram, dell’inconoscibilità degli enigmi estetici, del mistero insito in ogni immagine artistica, nella sfuggevolezza intrinseca in ogni racconto simbolico. Un ottimo saggio della studiosa Alice Barale (La malinconia dell’immagine, Firenze University Press, 2009) ha sintetizzato efficacemente la “linguistica” formatasi su questa celebre immagine, la quale ha portato avanzamenti a livello di “teoria del simbolo”, ma ha pure confermato uno scenario pessimistico a livello di metodo/metodologia pratica e a livello di ermeneutica. Warburg è rimasto chiuso nella sua stessa concezione di pathosformulae che in questo caso non si rivela efficace in quanto l’incisione di Dürer rappresenta un apax narrativo, senza altri precedenti. Warburg ha poi ondeggiato verso al sua concezione di “idolo” indugiando a ragionare sul senso di immagine “incantatoria” e “prodigiosa” che sembra essere questo angelo “saturnino”.
Ma anche questa volta si è trattato di un “uso” dell’immagine quale occasione per fare filosofia del linguaggio e non di uno sforzo ermeneutico interno alla specifica opera. Benjanmin è rimasto anch’egli sull’utilizzo pedagogico dell’immagine della Melancolia I quale icona della dialettica ambigua e dinamica fra significato e rappresentazione. Panofsky e Salxs ne hanno indagato comparativamente le analogie e le concordanze con l’immaginario saturnino a livello di gesti, segni, funzioni espressive (pathosformulae) e simboli, ma non hanno risolto la questione centrale dell’identità semantica specifica della rappresentazione. L’artista rinascimentale infatti spesso utilizza e manipola un deposito linguistico ma pure lo rinnova, lo declina, lo usa e modifica al fine di precisare un codice espressivo-comunicativo focalizzante, individualizzante, magari pensato unicamente per quell’opera. Questa circostanza non è stata considerata da nessun iconologo, come se la Melancolia I fosse solo espressione di un deposito immaginale già dato, come fosse solo “saturnina”, e basta!
Eppure l’allegorismo può essere anche materiale di lavoro, oggetto di manipolazione, e non solo risultato finale. Ogni opera d’arte importante è sempre la risultante di una fenomenologia tipologica e di un'invenzione che produce una singolarità nella stessa declinazione del modello citato. L’ipertrofia segnica e allegoristica dell’opera ha sviato l’interprete inducendo l’idea che si trattasse di un allegorismo fine a se stesso, o volutamente paradossale, oppure solo endo-saturnino. Eppure non siamo in presenza del canone rappresentativo proprio dei “trionfi”, né di fronte ad altre forme di “aggregazioni semantiche” già date come le “sacre conversazioni” o i tarocchi. Se per Warbur la Melancolia di Dürer per la sua speciale e “fiera compostezza assorta” diventa icona dell’atto contemplativo, del processo stesso del pensiero, tale da visualizzare lo “spazio del pensiero”, per Benjamin è il fattore “tempo” a trovarsi esaltato dall’incisione quale dimensione naturale delle forme simboliche che sintetizzano più tempi assorbendo il dinamismo dell’“onda” temporale nella sua dinamica dialettica fra il “già” e il “non ancora”.
Leggere l’angelo di Dürer in senso psicologico o come visualizzazione di un’atmosfera, di una suggestione è un operazione moderna, appropriativa, manipolativa. Tutti cadono nel “vizio” di un andamento ermeneutico centrifugo che elude il suo stesso oggetto annichilendone la singolarità, mentre andrebbe operato un movimento euristico opposto, cioè focalizzante l’unicità della rappresentazione quale composizione narrativa e oggetto semantico specifico. Non solo: tutti danno per scontato che il senso dell’opera sia da ricercarsi solo all’interno dell’immaginario saturnino, della fenomenologia immaginativa degli umori aristotelici. Ma l’analogia tipologica può annullare l’indubbia singolarità di un’opera così originale? Il simbolo può anche fissare una varianza, una declinazione, rispetto ai modelli già conosciuti.
L’artista potrebbe usare un immaginario per raccontare qualcosa d’altro, così come Porfirio allude commentando Omero. L’allegorismo cioè potrebbe non solo essere oggettivizzato nei dettagli ma pure reggere uno specifico racconto visivo, tutto da ricostruire. Il caos della scena potrebbe essere solo apparente e dato dalla non evidenza della chiave di lettura e non rappresentare un limite irrisolvibile e indicibile, né voluto. Perché sovrapporre contesto e intenzione? Perché dimenticare la narratività dell’arte rinascimentale? Il simbolo poi è in una certa misura sempre ambiguo ma la sua indeterminatezza non è mai assoluta e indefinita, in quanto il simbolo è anche sempre un determinato corpo narrativo, con un suo tessuto connettivo e una sua struttura, non permeabile a indefinite potenzialità ma compatibile con un numerus clausus di declinazioni e possibilità semantiche e valoriali.
Se ci limitiamo poi ad esaltare l’ambiguità dialettica di questa incisione ne facciamo sì un simbolo universale di tipo linguistico ma sarà un simbolo “vuoto”, come una funzione matematica o come lo stesso denaro quale funzione simbolica di rapporto e di scambio. Non andrebbe invece posto un postulato senza prima tentare in ogni modo la strada più semplice della decrittazione narrativo-semantica. Qui vogliamo infatti superare il pessimismo estetizzante e proponiamo invece un percorso di lettura del tutto diverso. Procediamo per piccoli passi nella speranza di poter giungere, ragionando dentro l’immagine, e senza farci prendere dal demone dell’analogia (Mario Praz), ad una tesi che possa risolvere positivamente il primo e basilare quesito posto: che cosa significa?
Non pretendiamo di spiegare tutto, e rimandiamo agli autori citati per approfondire i singoli dettagli dell’opera, ma siamo convinti di aver centrato l’obbiettivo principale fino ad ora eluso, cioè risolvere e chiarire con precisione il senso generale della rappresentazione. I grandi studiosi di fronte a quest’opera di Dürer hanno avuto la loro stessa grande cultura ed erudizione quale forza di resistenza e di ostacolo ad uno sguardo lucido e penetrante sull’opera stessa! Chi invece accetta, ma in modo socratico, la propria ignoranza, quale istanza di partenza, quale postulato metodologico, invece di giungervi quale irrisolutezza finale, forse in certi casi può aprire nuovi scenari di analisi e di senso! Prima spieghiamo il senso specifico della rappresentazione, dopo concentriamoci su certi dettagli, quando il dettaglio non è essenziale alla ricostruzione del senso unitario dell’opera. Ecco il mio stile. Non solo: i grandi studiosi sono riusciti a dirci cose sensibilissime e acutissime sui singoli dettagli di questa rappresentazione ma non sono riusciti a riportarla alla sua genetica unità. Ottimi nello sviscerare la grammatica dell’immagine (come Calvesi sul quadrato numerico), ma troppo pessimisti nel non volere fino in fondo affrontare la “sintassi” dell’immagine stessa e la sua radice motivazionale-comunicativa.
Da cosa sono partito per rileggere la Melancolia di Dürer? Dal centro, cioè dal problema cardinale dell’identità dell’angelo, la figura principale della scena, attorno a cui tutto sembra ruotare. Siccome esistono intere gerarchie e fenomenologie angeliche mi sono chiesto molto semplicemente: di che angelo si tratta? Aderisco all’opinione di Warburg: il volto non è triste, possiede una sua fierezza. Anzi per me il volto è semplicemente arrabbiato, irato, scuro per la rabbia. L’umore della bile nera, che produce, già per Aristotele, il carattere “malinconico” non coincide del tutto con il concetto moderno di tristezza/malinconia, ma si rivela un insieme di stati più sfumati e più profondi dove alla stasi si mescola una “quasi follia”. Perché questo angelo è arrabbiato? E ancora: perché è immoto?
L’altra stranezza propria di quest’angelo infatti è data dal fatto che è seduto. Non compie alcuna operazione. Eppure è tipico degli angeli un perpetuo dinamismo tanto che si identificano ontologicamente con una precisa sacra funzione. Sono spiriti, non si stancano. Il loro nome indica il loro essere. L’angelo irato di Dürer invece non solo sta seduto e fermo ma mostra vicino alla sua persona altre immagini di stasi: attrezzi per lavorare il legno gettati per terra e un cane sonnacchioso, ad esempio. Che attributi possiede questa figura angelica? Un compasso, delle chiavi e un incensiere, anch’esso stranamente posto, quasi empiamente a terra! Un angelo misuratore. La “misurazione quale atto sacro e rituale è presente nell’immaginario angelico in quanto lo troviamo nelle tradizioni ebraiche relative a Metraton (Libro di Enoch, Talmud) quale potenza di vigilanza e sapienza, e lo troviamo in due importanti passi dell’Apocalisse di Giovanni. Prima nell’angelo che dà a Giovanni una canna per misurare l’atrio del Tempio: "Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: 'Alzati e misura il santuario di Dio e l'altare e il numero di quelli che vi stanno adorando' (Ap.11,1) in una precisa visione profetica di un 'tempo dei pagani' che calpestano la 'città santa'".
E poi nell’episodio, simile ma traslato a livello della “Gerusalemme celeste”, dell’angelo che lui stesso si fa mistico misuratore: "Colui che mi parlava aveva come misura una canna d'oro, per misurare la città, le sue porte e le sue mura" (Ap. 21,15). La “misura” è operazione sacra, divina, già in Ezechiele (Ez. 40,3 ss.) e fin dall’antico Egitto con le sue psicostasie e la sua agricoltura ritualizzata sacralmente. Lo strumento di misura infatti simbolicamente può misurare sia uno spazio sacro che un tempo sacro, da Dio definito. Un angelo quindi che sembra inserirsi in uno scenario profetico in cui il fattore tempo sembra un elemento decisivo, risolutivo. Non solo: nella scena vediamo altri segni di misurazione: una bilancia, una clessidra, una campana. Lo stesso bambino che scrive potrebbe computare un lasso di tempo. Lo stesso quadrato “magico” e “gioviale” può alludere, con i suoi numeri, ad una misurazione. Se l’angelo seduto è la figura principale, fatto pacifico, allora non possiamo non dare importanza connettiva al tema della stella che cade dal cielo in modo plateale, quasi teatrale.
Esiste una connessione fra l’inquietante segno celeste, tale era considerata nel medioevo e nel rinascimento la cometa, e il volto irato del nostro essere celeste? E’ possibile. Questa è stata la mia ipotesi/traccia iniziale. Siamo di fronte ad una scena catastrofica, come già aveva intuito Panofsky, e “catastrofica” anche in senso etimologico-letterale, cioè alludente ad un cambio radicale di prospettiva. L’angelo è irato, cade una stella sulla terra, ma notiamo anche un generale senso di attesa. Può un angelo stare seduto a lungo? Può il suo incensiere (non può appartenere ad altri) restare eccezionalmente posto per terra per molto tempo? Qualcosa deve accadere che possa poi portare ad un cambio repentino della situazione descritta. L’unica cosa che sta realmente accadendo nella scena è proprio la caduta della cometa, colta nel suo spettacolare ed evidente fieri. Una stella sta cadendo e tutto è pronto per misurare simbolicamente lo “spaziotempo”: compasso, campana (che può segnare un inizio/fine), clessidra, un orologio (sopra la clessidra), una bilancia.
Alla scena simbolica corrispondono degli strumenti simbolici. Un fatto/segno importante accade (celeste, simbolico, profetico) e un angelo misuratore, che in quanto angelo deve essere in una certa misura anche “profeta”, cioè conoscitore in anticipo, per volontà di Dio, di ciò che sta accadendo e che accadrà entro breve, sta paradossalmente fermo e immoto. E’ arrabbiato in quanto non può intervenire? Vorrebbe subito agire? E’ quindi terribile l’evento che la cometa annuncia o a cui allude? Le stesse “chiavi” dell’angelo le possiamo valutare a livello di segno, di simbolo, quale immagini che possono essere apprezzate a livello temporale. La “chiave” apre e chiude un tempo, uno scenario di vita. Colui che ha la chiave di Davide: "Quando egli apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre" (Ap. 3,7): è l’autorivelazione stessa di Cristo nella sua lettera alla Chiesa di Filadelfia!
Nell’incisione abbiamo poi un cane, arrotolato come un serpente, altra allusione, insieme alla sfera, ai cicli dei tempi apocalittici. Il cane è segno di fedele vigilanza. E’ un cane magro, un levriero, un assai dantesco Veltro. Il cane appartiene, come la chiavi, l’incensiere e gli altri strumenti di misurazione, ai mondi dell’angelo seduto e irato. Il volto angelico non è solo oscurato dalla rabbia. I suoi occhi sono attenti, svegli, fissi, prontissimi, a dispetto di un corpo comodamente adagiato. Questa contraddizione di polarità potrebbe alludere al fatto che l’angelo sa quando dovrà intervenire ma sa pure che questo tempo deve ancora venire. Deve prima passare il tempo della stella caduta? Questa dialettica fra fissità e travaglio, forma e lavorìo interiore, la troviamo visualizzata nel crogiolo metallurgico dove il fuoco sfavilla fra i due pesanti e rigidi contenitori. L’oggetto allude ad una trasformazione radicale della materia, della natura.
Lo stesso poligono platonico in evidenza appartiene a quelle forme studiate da Luca Pacioli (I Mistici dell’Occidente, Elemire Zolla) e illustrate da Leonardo e che erano considerate dal famoso matematico allegorie degli elementi naturali. Il genio di Dürer sta nell’aver mescolato due poligoni platonici (compaiono infatti triangoli e pentagoni), cioè il dodecaedro e icosaedro, alludendo ad una mistura di acqua e di aria. Allusione alchemica o segno dello sconvolgimento anticristico degli elementi e del diavolo quale principe delle potenze dell’aria? La cometa introduce un tempo nuovo, eccezionale, fatidico, attraverso il quale avverrà una trasformazione persino cosmica. Se le domande che dobbiamo farci sono a questo punto due ("Che angelo è? Di che 'tempo' stiamo parlando?") dobbiamo pure farci l’altra domanda ermeneutica spesso complicata dalla domanda sul senso, cioè la domanda sul tipo di linguaggio implicato. In che lingua parla la Melancolia? Di che linguaggio è declinazione? Dato per pacifico che si tratta di opera saturata di allegorie dobbiamo meditare sul fatto che non esistono in arte allegorie “pure”, cioè neutrali rispetto ad un determinato tipo di linguaggio culturale. Esisteranno allegorie letterarie, mitologiche, politiche, religiose, scientifiche, ma mai allegorie “fine a se stesse” o autoreferenziali.
La scelta di campo che l’approccio scelto, induttivo, ci induce è quello del linguaggio mistico-religioso. Solo il linguaggio mistico, così ricco di simboli, allegorie, aspetti temporali, e raffinate sfumature, potrebbe esserci utile per rispondere alla nostra esigenza di qualificare l’identità dell’angelo e il tempo simbolico alluso dalla nostra incisione. Potrà allora essere utile allora cercare una soluzione nell’Apocalisse di Giovanni, che abbonda di angeli e di svolte temporali (sia cicliche che progressive), una chiave interpretativa almeno iniziando dal tema dell’identità del nostro angelo. Ci sono angeli con le chiavi e angeli con incensieri nella visione di Giovanni? Sì, ci sono! Uno di essi viene descritto come “angelo che ha potere sul fuoco” ed esso scaglierà la brace divina contro la terra in una delle bibliche punizioni di cui è ricco il racconto apocalittico. "Angeli con incensieri poi prestano servizio perenne nel Tempio celeste di Dio. Poi venne un altro angelo e si fermò all'altare, reggendo un incensiere d'oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull'altare d'oro, posto davanti al trono. E dalla mano dell'angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi. Poi l'angelo prese l'incensiere, lo riempì del fuoco preso dall'altare e lo gettò sulla terra: ne seguirono scoppi di tuono, clamori, fulmini e scosse di terremoto" (Ap. 8,3-5).
E’ tramite angeli incensieri che l’Apocalisse divina si dispiega quale evento cosmico di punizione e di purificazione. C’è un momento nell’Apocalisse in cui questi angeli, i sette più vicini a Dio, smettono di prestare questa divina liturgia? Sì: quando il fumo dell’ira di Dio riempie il Tempio e i sette Spiriti/angeli devono uscire fuori: nessuno poteva entrare nel tempio finché non avessero termine i sette flagelli dei sette angeli. (Ap., 15.8) A questo straordinario tempo divino sembra corrispondere la mezz’ora di silenzio in Cielo e il dispiegarsi degli ultimi castighi contro la bestia antichistica e i suoi empi adoratori. La stessa Apocalisse quale manifestazione delmysterium iniquitatis viene conclusa dalla figura dell’angelo clavigero che chiude il dragone per mille anni nel pozzo dell’abisso che lui stesso sigilla (Ap, 20,1-3). Il crogiolo allude proprio a questo: al sigillamento delle porte del male, evento angelico che conclude l’apertura profetica segnata dal disigillamento cristico dei sette sigilli delLibro, (Ap. 5,5) che è segno del Tempo stesso, visto da Dio.
Questo scenario precisato con chiarezza dal Libro dell’Apocalisse permette di spiegare con esattezza molti aspetti dell’angelo e della scena descritta dall’incisione. La stella che cade rovinosamente sarà allora il dragone, analogamente alla caduta di Lucifero: Il serpente antico, colui che chiamiamo il Diavolo e Satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. (Ap. 12,9) Non solo: l’angelo con le chiavi che chiuderà il dragone nel pozzo per mille anni è lo stesso che al momento del suono della quinta tromba ha aperto per divino decreto lo stesso pozzo e lo ha fatto in concomitanza con la caduta di un astro sulla terra. Ecco un'altra mistica ragione per l’ira nel volto dell’angelo clavigero: deve liberare il Nemico, affinché sia castigo per purificare la terra, quel nemico che vorrebbe invece distruggere e che, ad una semplice logica creaturale, andrebbe subito distrutto.
La nostra incisione alluderà anche alla vittoria di Michele nella divina e celeste guerra. L’angelo è irato in quanto non può intervenire durante il tempo dell’anticristo e si trova come in uno spaziotempo paradossale e unico fra l’uscita forzata dal Tempio celeste e il momento in cui dovrà chiudere il dragone nel pozzo dell’abisso. La stella cade fra terra e mare per alludere alle due bestie apocalittiche, una che sorge dal mare e una dalla terra. (Ap. 13, 1 e 11). Possiamo trovare conferma di questa nuova lettura della Melancolia nella scala a sette pioli che compare nella scena e nell’allusione alla “metà di un tempo” data dalla bilancia quasi in pareggio, dalla clessidra quasi a metà, dalla campana che taglia in due il quadrato numerico, e dall’orologio-meridiana che segna un'ora fra la prima e la dodicesima. Il preciso tempo simbolico a cui tutto ciò allude è il tempo del dominio dell’anticristo: tre anni e mezzo, cioè 42 mesi (Ap. 11,2; 13,5), cioè 1260 giorni cioè due tempi, un tempo e la metà di un tempo (Ap. 12,14), a sua volta parodia anticristica del divino e cristico numero sette.
Se il sette va associato a Dio il massimo male storico va associato alla metà del sette, quale segno di empia superbia e infera incompletezza e instabilità a fronte della stabile pienezza del sacro numero. La straordinarietà mistica di questo simbolico e mistico “tempo” spiega così tutta l’anomalia della rappresentazione: un angelo inattivo e irato, i segni del lavoro sparsi, una sapienza come congelata. Lo stesso rapporto fra Giove e il quadrato numerico può rileggersi quale allusione alla congiunzione Giove-Saturno tradizionalmente connessa con l’Incarnazione del Figlio di Dio e qui ripresa nella resa allusivo-parodistica dell’incarnazione del “figlio della perdizione”. Restano allusivi ed enigmatici alcuni dettagli: la mola su cui è posto il bambino, che potrebbe però alludere all’immagine del castigo apocalittico su Babilonia (Ap.18,21: "Poi un potente angelo sollevò una pietra grossa come una grande macina, e la gettò nel mare dicendo: 'Così, con violenza, sarà precipitata Babilonia, la gran città, e non sarà più trovata'"), lo stesso bambino, che potrebbe alludere al concetto vangelico dello scandalo, della mole asinaria, e dei “piccoli” (Luca 17,2: "è meglio per lui che gli sia messa una pietra da mulino al collo e sia gettato in mare piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli"), il crogiuolo sul fondo, lo stesso edificio alle spalle dell’angelo, che nessuno ha mai considerato e che bisognerebbe invece interrogare nella sua identità (una torre? una fornace? un altare?).
La grandezza di questa incisione è proprio data dalla sublime armonia fra immagine, significato e rappresentazione per cui l’opera anche nella sua struttura appare una vera e propria “realtà aumentata” (augmented reality), come si evince dal raffinato rimando e rispecchiamento fra la sfera a terra e il globo dell’arcobaleno celeste e dal dialogo intenso fra le forme geometriche del braciere, l’ibrido poligono platonico e la sfera stessa. Riguardo al crogiuolo è facile verificare come si tratti di una rappresentazione geometrizzante già conosciuta nell’immaginario alchemico. La figura di un triangolo rovesciato inscritta in una figura tondeggiante quale braciere-crogiuolo si trova ad esempio nelle Dodici chiavi della filosofia di Basilio Valentino, visualizzata all’interno della raffigurazione della prima chiave, e la ritroviamo anche in due manoscritti, uno del 1464, citati da Giovanni Carbonelli nel suo Sulle fonti della chimica e dell’alchimia in Italia (pg. 153-155).
I rapporti fra linguaggio mistico e linguaggio alchemico sono sempre stati reciproci e frequenti, basti pensare all’Aurora consurgens, al Libro della Santa Trinità, all’Apocalisse chimica di Basilio Valentino, alle colorate immagini dei cavalieri apocalittici in Flamel. Il triangolo rovesciato è emblema alchemico dell’acqua, (aqua ardens) ma pure geroglifico del cuore e un cuore su un braciere è sua volta ideogramma dell’Egitto, cioè della Terra di Kemi, o Alchimia, cioè l’“Apocalisse” nel microcosmo.

Giacomo Maria Prati
Giacomo Maria Prati (Tortona, 1971) parallelamente ad una formazione giuridica sviluppa un'attitudine e una passione per i linguaggi simbolici, i testi mistici, l'iconologia, i miti e le strutture narrative di determinati linguaggi, prediligendo il ciclo dei romanzi medioevali del Graal,il patrimonio alchemico, i miti di Sparta. Molte le sue passioni: dalla filosofia del diritto al management dei beni culturali. Nell'aprile 2013 esordisce come traduttore con una nuova traduzione del Cantico dei cantici e dell'Apocalisse, accostati ad immagini del Duomo di Milano e del Cenacolo di Leonardo. Dopo aver analizzato in modo innovativo cinque capolavori di arte antica ora sta concludendo un saggio dedicato ad Hermes e uno studio sull'immaginario della deposizione di Cristo al cui interno, non sappiamo come, cita da Gino Paoli a Pinocchio.