lunedì 25 gennaio 2021

Barack Obama / Una terra promessa / Memoria atlantica

 


I Migliori Libri

Memoria atlantica

L’Unione europea e i suoi leader visti da Barack Obama

Nel suo libro Una terra promessa (Garzanti), l’ex presidente degli Stati Uniti racconta i retroscena del suo primo mandato e il rapporto con i capi di Stato e di governo europei: lo «studiatamente informale» David Cameron l’affidabile Angela Merkel, le esagerazioni retoriche di Nicolas Sarkozy. Ma neanche una parola su Silvio Berlusconi


Di Futura D'Aprile
30 Novembre 2020

Lapresse

In questi giorni sono usciti molti estratti di Una terra promessa (Garzanti), il libro di memorie di Barack Obama: l’infanzia, l’arrivo alla Casa Bianca, gli anni del primo mandato. Poco pero si è detto di come esca fuori l’Unione europea e i suoi leader di allora, nelle memorie dell’ex presidente degli Stati Uniti. Il primo partner europeo che Obama descrive è l’allora premier britannico Gordon Brown. Il leader laburista è presentato come un uomo ponderato e responsabile, privo però delle brillanti doti politiche del suo predecessore Tony Blair. Tra l’altro, ricorda Obama, il suo mandato sarebbe durato ben poco: Brown infatti fu ben presto sostituito da David Cameron, politico «giovanile e studiatamente informale (…) e alleato disponibile su tutta una serie di questioni internazionali».

Ma i leader su cui Obama si dilunga maggiormente e che hanno rappresentato per lui dei punti di riferimento nella gestione dei rapporti con l’Ue sono la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy. Una scelta ovviamente non casuale: per il presidente americano la capacità dell’Unione di agire come entità singola dipendeva fondamentalmente dalla disponibilità alla collaborazione dei leader di Francia e Germania. L’asse franco-tedesco, quindi, era per Obama il vero motore dell’Europa. Merkel e Sarkozy per l’allora presidente Usa, però, non presentano lo stesso grado di affidabilità. Il confronto portato avanti a più riprese da Obama tra i due leader premia la cancelliera tedesca, mentre non mancano gli affondi contro il presidente francese tanto in ambito europeo quanto internazionale. Merkel, in diversi punti del libro, è descritta come una politica affidabile, dotata di capacità organizzative, acume strategico e incrollabile pazienza, il cui «aspetto imperturbabile rifletteva la sua sensibilità analitica e concreta». Obama però è critico nei confronti delle posizioni conservatrici della cancelliera e delle politiche di austerity da lei sostenute in risposta alla crisi economica del 2008.

Se il ritratto che Obama fa di Angela Merkel è decisamente positivo, lo stesso non si può dire per quello di Nicolas Sarkozy. Il presidente francese «era tutto esternazioni emotive ed esagerazioni retoriche» anche se la sua mancanza di coerenza ideologica, prosegue Obama, «era compensata dal suo coraggio, dal suo fascino e dalla sua energia maniacale». Ma ecco arrivare una nuova stoccata contro il presidente francese, descritto con «le mani sempre in movimento, il petto in fuori come un gallo da combattimento, il traduttore personale sempre di fianco» e desideroso di trovarsi sempre al centro dell’azione per potersi prendere il merito «di qualsiasi cosa valesse la pena intestarsi». Sarkzoy inoltre si era rivelato poco utile anche nel controbilanciare la posizione conservatrice di Merkel e non era in grado, secondo Obama, non solo di allestire un piano chiaro per tutta l’Europa, ma nemmeno per la sola Francia. Il rapporto con il presidente francese subì inoltre un peggioramento a seguito dell’intervento in Libia, promosso da Francia e Regno Unito, ma che secondo Obama arrivò ad un punto di svolta solo grazie al coinvolgimento americano, accolto come un sollievo dai leader francese e britannico. «Ero irritato che Sarkozy e Cameron mi avessero messo alle strette, in parte per risolvere i loro problemi politici interni (…) Sapevo anche che, a meno che non ne assumessimo noi la guida, il piano europeo non sarebbe andato da nessuna parte».


Barack Obama


L’Unione europea tra Obama e Trump
Oltre a descrivere i maggiori leader europei, il presidente degli Stati Uniti si sofferma anche sul progetto dell’Unione e sull’importanza della cooperazione a livello internazionale. Per Obama, l’Ue «aveva avuto un successo tutto sommato considerevole: rinunciando sotto alcuni aspetti alla loro sovranità nazionale, gli Stati membri avevano goduto di una pace e di un benessere condiviso come mai nessun altro popolo nella storia».

Ma la crisi economica aveva inasprito le differenze tra gli Stati membri, permettendo la rinascita dei nazionalismi, il rafforzamento dei partiti di estrema destra e facendo crescere lo scetticismo verso i processi di integrazione, soprattutto nell’Est. Le politiche punitive in risposta alla crisi sostenute soprattutto dalla Germania avevano aumentato la distanza tra i diversi Stati membri e dimostrato quanto fosse ancora difficile per l’Ue pensarsi come un soggetto unico e coeso. 

«Obama era critico verso alcuni atteggiamenti e alcuni leader dell’Ue, ma non era ostile al processo di integrazione né all’alleanza con gli europei in ambito atlantico», spiega a Linkiesta Gianpiero Gramaglia, esperto di relazioni transatlantiche dell’Istituto affari internazionali. «Donald Trump invece si è dimostrato ostile verso l’Unione – così come verso tutti gli organismi multilaterali e multinazionali». 

Il presidente uscente, continua Gramaglia, ha sempre privilegiato il dialogo bilaterale rispetto a quello con le istituzioni europee. Un atteggiamento che ha applicato anche nei confronti della Nato, mettendo in discussione persino il principio di mutua difesa, elemento fondante dell’Alleanza atlantica. «Questi atteggiamenti non c’erano sotto la presidenza Obama e non ci saranno con l’amministrazione di Joe Biden. Certo, l’Ue non era centrale nelle preoccupazioni di Obama, che guardava più a Cina e Russia, ma i modi e i toni delle relazioni tra Usa e Ue erano molto più distesi e amichevoli di quelli che si sono avuti con Trump».  

Le tensioni però non sono mancate nemmeno negli anni precedenti l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, spiega però Gianluca Pastori, professore di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa dell’Unicatt. «Fra l’altro, molte delle questioni che Trump ha enfatizzato, spesso in modo del tutto irrituale, erano già state sollevate proprio dall’amministrazione Obama. Il problema di fondo è che – già in questi anni – lo scollamento degli interessi fra Europa e Stati Uniti emerso dopo la fine della Guerra fredda si era fatto evidente». 

Nemmeno gli anni dell’amministrazione Obama, quindi, sono stati un periodo di vera convergenza. Anzi, continua Pastori, forse proprio a causa delle attese sollevate dalla sua elezione dopo gli otto anni difficili del mandato di George W. Bush, il bilancio finale è apparso a diversi osservatori più deludente di quanto non si stato effettivamente.


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sabato 23 gennaio 2021

The Hill We Climb / Chi è Amanda Gorman, la poetessa che ha salutato in versi l’insediamento di Joe Biden

 

AP Photo/Patrick Semansky, Pool

The Hill We ClimbChi è Amanda Gorman, la poetessa che ha salutato in versi l’insediamento di Joe Biden


Nel 2017 è stata la prima della storia degli Stati Uniti a ricevere il titolo di National Youth Poet Laureate. Nera, con difetti di pronuncia con cui combatte da sempre (come il presidente), è stata una bambina prodigio cresciuta in una Los Angeles multiculturale. Ma è già una figura autorevole della letteratura contemporanea


di Dario Ronzoni
21 Gennaio 2021

«L’America è complicata», ma è un Paese ancora giovane e ha un grande avvenire davanti. È il senso della poesia composta e recitata da Amanda Gorman in occasione dell’insediamento del nuovo presidente americano Joe Biden. Dice questo, e molto altro.

È un inno agli Stati Uniti, un ritratto della loro grandezza, che non evita di considerare gli aspetti più violenti, i disordini, le durezze e le divisioni. Ma che indica anche una strada per la guarigione e la cura delle ferite. “C’è sempre luce / se abbiamo il coraggio di vederla. C’è sempre luce / se abbiamo il coraggio di esserlo”.“The Hill We Climb”, il testo della poetessa 22enne, nera, la più giovane di sempre a prendere parte a una cerimonia di insediamento di un presidente (prima di lei era toccato ad altri poeti, ma di età più elevata come Robert Frost e Maya Angelou) è stata scritta, in parte, anche di fronte alle immagini dell’assalto del Campidoglio, un evento che «nella sua gravità non poteva essere ignorato».

Raccoglie la sfida di un incarico con eleganza e profondità. La sua stessa presenza è un richiamo alla tradizione democratica: anche Barack Obama aveva chiesto al poeta Richard Blanco di scrivere un testo per il suo insediamento nel 2013. Ed è un’indicazione dell’importanza che avranno le lettere, e lo studio in generale, nella futura amministrazione.Amanda Gorman si è dimostrata all’altezza e visti i traguardi che, con la sua giovane età, ha già raggiunto, i dubbi erano pochi.

È stata la prima della storia degli Stati Uniti a ricevere il titolo di National Youth Poet Laureate, nel 2017. Tre anni prima era stata nominata Youth Poet Laureate di Los Angeles, la città in cui è nata e cresciuta. Ha inaugurato la stagione letteraria della Biblioteca del Congresso, ha dichiarato di volersi candidare alla presidenza degli Stati Uniti nel 2036. Intanto le sue poesie sono state messe in mostra dalla Morgan Library and Museum.

Come spiega nel suo TedEx del 2018 (ha fatto anche quello), il suo mantra è un richiamo alle origini: «Sono la figlia degli scrittori neri, discendenti dei combattenti per la libertà, che hanno spezzato le catene e cambiato il mondo. Mi chiamano».

Cresciuta da una madre single (l’insegnante Joan Wicks) ha cominciato a scrivere poesie fin da quando era giovanissima. La sua famiglia guardava «poca televisione» ma aveva molti libri. Viveva, come spiega in un’intervista al New York Times del 2018, «in questa e strana intersezione di Los Angeles, dove sembrava che il quartiere nero incontrava l’eleganza nera, e incontrava la gentrificazione bianca, e incontrava la cultura latina e le paludi».

Passare attraverso questi mondi, sia per raggiungere la sua scuola a Malibu o per tornare «a casa, nel piccolo appartamento della mia famiglia», le ha dato la possibilità di «ammirare le culture diverse ma, al tempo stesso, mi faceva sempre sentire forestiera. Mia madre mi descriverebbe come una bambina precoce, ma se guardo a me stessa quando ero alle elementari mi definirei più che altro “strana”. Ho passato gran parte di quegli anni convinta di essere un alieno. Davvero».

Fin da bambina, Amanda Gorman ha dovuto affrontare alcuni difetti di pronuncia (la sua bestia nera è la “r”, cosa che l’ha costretta di continuo a correggere le sue frasi e i suoi versi) e problemi all’udito. «Vorrei tanto dire “le ragazze possono cambiare il mondo” (“young girls can change the world”) ma ci sono tante lettere che mi danno problemi, per cui scelgo di dire “le giovani donne possono rifare il pianeta” (“young women can shape the globe”)».

Ma questo non l’ha demoralizzata. Anzi, «mi ha dato sicurezza per parlare in pubblico: quando sei costretto a guardare di continuo al modo in cui parli, quando devi badare sempre alla tua pronuncia, allora acquisti consapevolezza sia di come funzionino i suoni sia degli effetti che hanno sul pubblico».

L’amore per la poesia arriva presto. In terza elementare scopre la bellezza delle parole da un testo di Ray Bradbury, «non ricordo nemmeno che frase fosse». A 13 anni si mette a leggere Toni Morrison, “L’occhio più azzurro” ed è una rivelazione, sia per lo stile che per il contenuto, cioè storie con protagonisti neri. È quasi una fulminazione, e un invito a trovare la sua voce nella letteratura.

Il suo talento si mostra subito, riceve premi e apprezzamenti. Prosegue negli anni dell’università (sociologia a Harvard) e nell’impegno politico-letterario, con la sua organizzazione “One Pen One Page”, fondata nel 2016.

Tra i suoi ammiratori figura Hillary Clinton (che ha incontrato ai Vital Voices Global Leadership Awards nel 2017) e soprattutto Jill Biden: lei ha deciso di invitarla a recitare una sua poesia alla cerimonia di insediamento del marito.

«È stato davvero complicato iniziare a scrivere questa poesia». Si è preparata documentandosi, ha letto i poeti delle cerimonie del passato, riguardato i grandi discorsi della storia, che parlavano di una America unita e di una America divisa. Abraham Lincoln, Frederick Douglass, perfino Winston Churchill. E poi ha assistito all’assalto a Capitol Hill. Ha dovuto rivedere i suoi piani, ripensare il testo e riscrivere alcuni versi per ricalibrare la sua definizione di America.

Era necessario. La nuova America, pur con la gioventù, le buone idee e la volontà di ferro di Amanda Gorman non può dimenticare, come se niente fosse accaduto, la divisione fomentata negli ultimi anni. Ci sarà molto da fare, per Biden. Ma anche molto da scrivere per lei.

Questo il testo di “The Hill We Climb”:

When day comes we ask ourselves,
where can we find light in this never-ending shade?
The loss we carry,
a sea we must wade
We’ve braved the belly of the beast
We’ve learned that quiet isn’t always peace
And the norms and notions
of what just is
Isn’t always just-ice
And yet the dawn is ours
before we knew it
Somehow we do it
Somehow we’ve weathered and witnessed
a nation that isn’t broken
but simply unfinished
We the successors of a country and a time
Where a skinny Black girl
descended from slaves and raised by a single mother
can dream of becoming president
only to find herself reciting for one
And yes we are far from polished
far from pristine
but that doesn’t mean we are
striving to form a union that is perfect
We are striving to forge a union with purpose
To compose a country committed to all cultures, colors, characters and
conditions of man
And so we lift our gazes not to what stands between us
but what stands before us
We close the divide because we know, to put our future first,
we must first put our differences aside
We lay down our arms
so we can reach out our arms
to one another
We seek harm to none and harmony for all
Let the globe, if nothing else, say this is true:
That even as we grieved, we grew
That even as we hurt, we hoped
That even as we tired, we tried
That we’ll forever be tied together, victorious
Not because we will never again know defeat
but because we will never again sow division
Scripture tells us to envision
that everyone shall sit under their own vine and fig tree
And no one shall make them afraid
If we’re to live up to our own time
Then victory won’t lie in the blade
But in all the bridges we’ve made
That is the promise to glade
The hill we climb
If only we dare
It’s because being American is more than a pride we inherit,
it’s the past we step into
and how we repair it
We’ve seen a force that would shatter our nation
rather than share it
Would destroy our country if it meant delaying democracy
And this effort very nearly succeeded
But while democracy can be periodically delayed
it can never be permanently defeated
In this truth
in this faith we trust
For while we have our eyes on the future
history has its eyes on us
This is the era of just redemption
We feared at its inception
We did not feel prepared to be the heirs
of such a terrifying hour
but within it we found the power
to author a new chapter
To offer hope and laughter to ourselves
So while we once we asked,
how could we possibly prevail over catastrophe?
Now we assert
How could catastrophe possibly prevail over us?
We will not march back to what was
but move to what shall be
A country that is bruised but whole,
benevolent but bold,
fierce and free
We will not be turned around
or interrupted by intimidation
because we know our inaction and inertia
will be the inheritance of the next generation
Our blunders become their burdens
But one thing is certain:
If we merge mercy with might,
and might with right,
then love becomes our legacy
and change our children’s birthright
So let us leave behind a country
better than the one we were left with
Every breath from my bronze-pounded chest,
we will raise this wounded world into a wondrous one
We will rise from the gold-limbed hills of the west,
we will rise from the windswept northeast
where our forefathers first realized revolution
We will rise from the lake-rimmed cities of the midwestern states,
we will rise from the sunbaked south
We will rebuild, reconcile and recover
and every known nook of our nation and
every corner called our country,
our people diverse and beautiful will emerge,
battered and beautiful
When day comes we step out of the shade,
aflame and unafraid
The new dawn blooms as we free it
For there is always light,
if only we’re brave enough to see it
If only we’re brave enough to be it


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giovedì 21 gennaio 2021

Il muro di John Lanchester

 


I Migliori Libri
Il muro di John Lanchester

di Stregatto
Giugno 22, 2020 


Il muro di John Lanchester (Sellerio) è ambientato in una Gran Bretagna post apocalittica, in cui il Muro è l’unica cosa che divide la civiltà dagli Altri. Il Muro è una barriera artificiale lunga centinaia di chilometri, che cinge le coste dell’isola e la protegge. Gli Altri sono tutti coloro che sono rimasti fuori e hanno dovuto adattarsi al mondo inospitale lasciato dalle conseguenze del cambiamento climatico: oceani immensi e terre desolate e impervie, inadatte alla vita. La sola cosa che vogliono è la terraferma, anche se porta con sé una schiavitù a vita.



Tutti i giovani britannici devono servire sul Muro, diventare Difensori. E la vita si divide in “prima del Muro” e “dopo il Muro”. Quella che scende non è più la stessa persona che è salita due anni prima. Questo lo sa bene Kavanagh, anche prima di cominciare la guardia; ma nulla può davvero preparare a quello che lo aspetta: i turni di dodici ore, giorno e notte, scanditi dalla monotonia del mare e dalla paura strisciante e sommersa di un attacco degli Altri: sì, perché per ogni Altro che supera il Muro e scappa, un guardiano viene messo in mare. E anche se la vita dei Difensori sembra statica e immutabile, il pericolo è dietro l’angolo.
Il muro di John Lanchester è una distopia attuale e profetica, che analizza con occhio scientifico le conseguenze di un cambiamento climatico che sembra inarrestabile. L’autore si inserisce con successo in un filone distopico che denuncia le problematiche ecologiche e sociali della contemporaneità. Un avvertimento che, forse, è il momento di prendere seriamente.

mercoledì 20 gennaio 2021

Il muro / Il romanzo di John Lanchester è la summa delle paure del 2019, eppure racconta anche come siamo adesso

I Migliori Libri

Il muro

Il romanzo di John Lanchester è la summa delle paure del 2019, eppure racconta anche come siamo adesso


Lo scrittore inglese ha collezionato nel suo libro le ansie che agitavano l’Occidente fino a ieri: Brexit, immigrazione, clima. Ma, senza volerlo, ne è scaturito il ritratto dell’umanità ostaggio del virus

 

Dario Ronzoni

7 Maggio 2020


In un futuro abbastanza vicino il mondo sarà sconvolto dal “Cambiamento”, gli spostamenti tra Stati diventeranno illegali e l’Inghilterra, per difendersi dalle acque e dagli stranieri, costruirà “il Muro”, una gigantesca struttura in cemento che si snoda lungo tutta la sua linea di costa, si mangia le spiagge (che restano solo nella memoria dei più anziani) e cancella le scogliere.

Tutti i giovani saranno obbligati a svolgere lungo i suoi bastioni il servizio militare. Turni massacranti di vedetta sotto la pioggia e nel vento, di giorno e notte, armati fino ai denti. Obiettivo: impedire l’ingresso clandestino degli Altri, figure minacciose che vengono dal mare. Se falliscono, la punizione per i soldati è durissima: essere abbandonati in mare.

Da qui parte “Il muro”, romanzo distopico dello scrittore inglese John Lanchester, pubblicato in Italia per Sellerio, uscito in originale nel lontano 2019. Quest’ultimo aspetto, va detto subito, si vede. Perché seguendo i pensieri e la narrazione di una recluta, James Kavanagh, vengono raccolte in una sola narrazione quelle che erano le ansie dell’Occidente – fino a ieri.

C’è la Brexit, riflessa nell’isolamento estremo della Gran Bretagna, addirittura esteso a livello alimentare. C’è il muro, eco ingigantita della propaganda di Donald Trump e delle varie barriere erette in Europa (Bulgaria, per esempio). Ci sono gli immigrati e la sostituzione etnica, che avviene con l’espulsione del soldato inefficiente e l’assimilazione dello straniero – che però potrà al massimo diventare un Aiutante, cioè uno schiavo.

C’è la crisi demografica, racchiusa nella categoria dei Figliatori, persone strane la cui missione inspiegabile (a che pro mettere al mondo altre persone?) garantisce particolari esenzioni. E c’è, come si intuisce, il Climate Change, il grande “Cambiamento”, spartiacque tra due epoche ormai irriconciliabili, evento senza ritorno, cesura tra le generazioni (i genitori si sentono in colpa, i giovani li disprezzano).

Mancano, oltre alla pandemia (ma all’epoca non agitava il sonno di nessuno), gli incubi più orwelliani del genere: il potere totalitario (l’Inghilterra è governata da una sorta di oligarchia non ufficiale, ironica forma di continuità) e, più di moda, la sorveglianza tecnologica. Anzi, a questa Lanchester sceglie di dedicare appena un cenno, cioè l’obbligo di microchippare tutti i cittadini (il particolare promette bene, ma viene abbandonato subito).

Risultato: non c’è nessun percorso di ribellione, men che meno una conversione alla “Fahrenheit 451”, di Ray Bradbury. Il nuovo mondo, per quanto brutale e disumano, è irreversibile.

È in questa assenza di scenari alternativi che si muove l’umanità sfocata dei protagonisti. Racchiusi dal muro, a un tempo metafora grigia e dura realtà, scelgono di adattarsi. Anzi, metà del libro è dedicata alle fatiche spese per sopportare e resistere al freddo e alla pioggia, all’assimilazione della disciplina, alla pazienza.

Per questa fatalista accettazione delle cose, forse l’antecedente letterario più esatto è “Robinson Crusoe”, ma in negativo. In entrambi i casi viene premiata la capacità di adattamento: sul Muro chi sa adeguarsi vince. Chi aspetta non viene punito. Chi riesce a sopportare la noia supera la prova.

Ma a differenza dell’isola del naufrago, qui non serve agire, progettare, immaginare. Occorre annullarsi: «Impari a tenerti a galla. Diventi completamente apatico; non ti sforzi più di far passare la giornata, ma lasci che sia la giornata a far passare te», dice il protagonista.

E così, in questa semi-realtà spietata ma non minacciosa, dove l’autorità non è pervasiva ma resta rigida e lo stato delle cose non lascia possibilità diverse, che Lanchester, senza volerlo, ha tratteggiato la distopia che non si immaginava. Quella della quarantena. Anche qui c’è una forza maggiore che stravolge la quotidianità, è irreversibile (non c’è fase 3 che tenga: anche dopo il vaccino il mondo sarà diverso) e non offre possibilità di ribellione – che non siano autodistruttive – o redenzione – che non siano tardive.

E se i problemi che agitavano il 2019 (e che costituiscono la materia su cui è sorto il libro) appaiono oggi ridimensionati, cambiamento climatico a parte, quello che cambia è solo il fondale.

Anche il nostro, a suo modo, è un nuovo mondo. E anche noi ci siamo entrati sapendo di poter fare soltanto due cose: resistere, aspettare, adattarsi. Come sul Muro.

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DRAGON

2020 / Best books of the year / Best fiction of 2020

John Lanchester Q&A / “I’d like to be the kind of rich person who doesn’t do much”

Il muro / Il romanzo di John Lanchester è la summa delle paure del 2019, eppure racconta anche come siamo adesso


venerdì 15 gennaio 2021

Nell’ultimo libro di Montalbano il protagonista è Camilleri


Andrea Camilleri


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Niscire di scena

Nell’ultimo libro di Montalbano il protagonista è Camilleri

Dario Ronzoni
17 Juglio 2020

Con “Riccardino” si chiude il ciclo dei romanzi sul commissario. Scritto nel 2005, ripreso nel 2016, viene pubblicato a un anno dalla morte dello scrittore. Un testo più lungo del solito con un finale molto diverso dagli altri della serie


Così finisce un’avventura letteraria. A un anno dalla morte di Andrea Camilleri ecco che arriva “Riccardino”, l’ultimo romanzo del ciclo di Montalbano.

Dopo anni di segreti e misteri (si parlava anche di una cassaforte in cui erano sigillate le pagine), conditi con qualche allusione e mezze parole, viene svelato al pubblico.

Quasi 300 pagine (più del solito) in cui i più affezionati potranno ritrovare, per l’ultima volta, gli elementi tipici del mondo “Montalbano”: la vita in commissariato, i litigi con l’eterna fidanzata Livia, il risveglio mattutino in apertura, qualche riferimento culinario (meno, in realtà) e la classica ammazzatina con cui si avvia la macchina dell’indagine.

Inutile dire che, stavolta, le cose non andranno come sempre. Non a caso è il romanzo finale, anche se a livello cronologico non è l’ultimo.Scritto nel 2005, conservato per essere pubblicato al termine del ciclo, viene seguito nel tempo da altri 18 libri (tra Montalbani e opere storiche), per essere poi ripescato e riscritto nel 2016 per riformare la veste linguistica (mentre a livello di trama «è rimasto immutato», Camilleri dixit).

Per i precisini, allora, l’ultimo autentico Montalbano sarebbe “Il metodo Catalanotti”, del 2018 (vera e propria ode, anche se un filo sinistra, del mondo del teatro), dal momento che “Il cuoco dell’Alcyon”, uscito nel 2019, altro non è che la riscrittura montalbanizzata di una vecchia sceneggiatura per un film mai fatto. “Riccardino” è il finale voluto dall’autore. E la sua presenza si avverte davvero.

Perché in “Riccardino” la trama avanza a fatica. Il commissario appare incerto, i passaggi non sono mai nitidi, i dettagli appesantiscono, anche a causa di qualche anacronismo (i numeri di telefono composti in modo sbagliato, gli squillini, i fax, le battute su Berlusconi). È una confusione.

Per questo motivo si sente costretto a intervenire di pirsona pirsonalmente l’Autore, cioè Camilleri stesso: rompe ogni convenzione del romanzo, si cala nell’opera e dialoga con il suo personaggio. È una soluzione pirandelliana (lo dice lui stesso), meta-narrativa, in cui lo svelamento definitivo della finzione diventa a sua volta finzione (ma queste sono derive da critici).

Il punto è che Camilleri, per dirla con un politico che non amava, scende in campo. Lui e Montalbano si trovano a discutere della trama stessa, delle possibili strade che può intraprendere, delle soluzioni. Emerge il confronto tra romanzo e fiction, tra “Montalbano quello vero” e “Montalbano della tivù”, cioè Luca Zingaretti, anche lui trascinato nel discorso, fino ad affrontare il fatto che l’Autore si è stancato, e il personaggio ne soffre.

Per la verità, non è la prima volta che Camilleri si concede queste trovate. Già in “La danza del gabbiano”, del 2009, fa accennare al commissario alle riprese televisive della serie (una rottura di cabasisi, per lui). Si diverte, poi in un dialogo surreale con Livia, a fargli storpiare in “Zingarelli” il nome dell’attore. Stavolta è diverso, ma non si dirà di più.

Basterà notare che, oltre al gioco meta-narrativo, l’apparizione dell’Autore (con la sua voce arrocchita, le sue sigarette) permette a Camilleri di togliersi qualche sassolino e punzecchiare i critici.

Queste sono alcune delle battute: « “Bel duello, commissario. Però finiamola qua, io non posso sfoggiare molta cultura, sono considerato uno scrittore di genere. Anzi, di genere di consumo. Tant’è vero che i miei libri si vendono macari nei supermercati”», ironizza il Camilleri-personaggio.

«“E proprio tu ragioni in questo modo? Per te contano solo i numeri, le tirature, l’auditel? Non hanno torto allora quelli che sui giornali scrivono che tu non se manco uno scrittore di genere, ma un prodotto mediatico”. “Ma tu lo sai quanti, tra quelli che m’accusano di essere un prodotto mediatico – il che non è assolutamente vero, io semmai sono il risultato di un passaparola tra i lettori – vorrebbero disperatamente esserlo? Hai presente la storia della volpe e l’uva?”»,

Con questi continui battibecchi, tornare al racconto dell’indagine diventa sempre più difficile. Anche questo è voluto: “Riccardino”, più che un romanzo di chiusura, è la presentazione dei componenti della band alla fine del concerto, l’esposizione dei trucchi del mestiere («“E poi facciamo dire a Fazio che in gioventù era campione di motocross”»), con cui il prestigiatore ha intrattenuto, per anni, gli spettatori.

Contiene il disvelamento dei meccanismi segreti, mostra i fili che tiravano i burattini. È il saluto finale, insomma, dell’Autore-regista-ideatore che, in mezzo agli applausi, si prepara a lasciare la scena.


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mercoledì 13 gennaio 2021

A proposito di niente / L’autobiografia di Woody Allen sembra un film di Sergio Leone

 



I Migliori Libri

Lui e Ronan

L’autobiografia di Woody Allen sembra un film di Sergio Leone

Personaggi, crimini e misfatti di “A proposito di niente”, il memoir dell’84enne regista americano. La vita, i film, Diane Keaton, ma la scena è tutta per Mia Farrow e suo figlio



Guia Soncini
25 Marzo 2020

Il miglior nuovo libro che possiate leggere a librerie chiuse l’ha scritto uno che di mestiere scrive altro (sceneggiature, pièce, monologhi) ma che, soprattutto, non ha paura dell’uomo più potente di Hollywood. Il libro s’intitola “A proposito di niente”, lo pubblica La nave di Teseo. L’uomo più potente di Hollywood in questo secolo non è mai stato, come avrete letto molte recenti volte da cronisti convinti di vivere negli anni Novanta, Harvey Weinstein. Il titolo appartiene attualmente a Ronan Farrow, motore non esattamente immobile del MeToo (l’unico marchio di successo non tratto da fumetti degli ultimi decenni), forse figlio dell’autore del libro. L’autore del libro si chiama Woody Allen, e non vi sorprenderà apprendere che la sua autobiografia è praticamente già un film. Fate conto: un film di Sergio Leone coi dialoghi di Woody Allen – riuscite a immaginare niente di più irresistibile?Personaggi, in ordine sparso.





Soon-Yi Previn: non la preferita d’una madre che adottava figli come noialtre ordiniamo su Yoox, restituendoli con la stessa disinvoltura: «Una volta andò in Texas con Soon-Yi per adottare un bambino messicano, ma dopo qualche giorno lo rimandò indietro per ragioni a me sconosciute. Ricordo anche di un bambino con la spina bifida che rimase qualche settimana nella sua casa a New York, ma Fletcher ne era infastidito e così tornò in qualche istituto. Non so se ci furono altri episodi analoghi – ripeto, abitavo dall’altro lato del parco. Più o meno in quel periodo mi disse che anziché adottare un altro bambino avrebbe preferito rimanere incinta. Mi girai per vedere a chi stesse parlando, ma si stava rivolgendo a me» (pagina 234). Se pensate che Harry (quello che ha
rinunciato al trono d’Inghilterra che peraltro non sarebbe mai stato suo) si sia accuratamente scelto Meghan perché poteva portarlo via da una famiglia reale che odia da quando gli ha ammazzato la madre, allora potete applicare la stessa lettura da tragedia greca (manca solo il coro di La dea dell’amore) a Soon-Yi, che quando si scoccia d’essere trattata come la figlia della serva dall’adottatrice compulsiva Farrow gli porta via il moroso. Come diceva appunto il coro di quel film alleniano (del 1995: quando la saga familiare Allen/Farrow pareva archiviata, quando tutti ignoravamo che nel secolo successivo sarebbe stata considerata materiale fresco), Edipo giacque con sua madre e una nuova professione era nata, da duecento dollari l’ora, ore di cinquanta minuti perdipiù. Rispetto all’antica Grecia, la modernità ha il vantaggio di internet, gigantesco coro di telefoni senza fili e diffamazioni senza senso: per Mia, Soon-Yi era “ritardata” (cuore di mamma); per quelli che non sanno niente ma hanno un’opinione su tutto, era la figlia di Allen, incestuoso come neanche i cattivi dei cartoni animati. Allen non s’illude certo di convincerli: «C’era ancora chi, contro ogni logica, non voleva capire e, per qualche motivo, sembrava convinto che io avessi violentato la figlia minorenne e ritardata di Mia». (André Previn, padre adottivo di Soon-Yi e già marito di Mia, morto l’anno scorso, farà poi una breve comparsa in questa vicenda: un marito rubato, in quella che è una storia di donne). Sono passati ventotto anni dal tradimento: Allen e la ragazza dello scandalo (ormai quasi cinquantenne) sono ancora sposati, le loro figlie vanno all’università.

Satchel, poi Ronan, Farrow: è un libro pieno di notizie, tra le quali il fatto che Mia, ben prima di trovare le foto di Soon-Yi nuda, di accusare Allen di molestie ai danni d’una bambina, di mandargli cuori trafitti da coltelli da cucina per San Valentino (questo lo sapevamo già: Woody li fece vedere in tv, a 60 minutes, nel 1992, ma fanno comunque impressione), prima di tutto questo Mia aveva già raffreddato i rapporti con Woody. Incinta di Satchel (cui successivamente cambiò nome), gli aveva chiesto indietro la chiave del proprio appartamento (quello di là dal parco in cui lui andava a prenderla per andare a cena o andava a giocare coi bambini), e poi, partorito Satchel (che diverrà Ronan: state prendendo appunti?), non aveva messo il cognome di Allen sul certificato di nascita. Dopo anni (Allen li quantifica in «una mezza dozzina di film») passati a chiedergli d’ingravidarla. «La mia teoria, cui sto finalmente arrivando, è che avevo assolto la mia funzione mettendola incinta ed ero quindi diventato inutile» (pagina 239). Quando Ronan è diventato l’eroe del MeToo e il più veemente accusatore del forse padre (a un certo punto Mia buttò lì che potrebbe essere figlio di Sinatra, con cui era stata sposata in gioventù; «non potrò mai averne la certezza» è il laconico commento di Allen in merito), è diventato anche, appunto, l’uomo più temuto da quelle parti. La telefonata più terrorizzata che abbia ricevuto nella vita era d’una scrittrice americana che mi pregava di non pubblicare la frase che mi aveva detto su Ronan, temendo vendette. La frase era «Ha vinto inspiegabilmente il Pulitzer». Una delle notizie più inedite nel libro, una cosa che gli amici di Allen raccontavano da anni ma nessuno aveva mai osato scrivere – c’è voluto Woody, l’unico supereroe che non ha paura delle ritorsioni di Ronan – riguarda una misteriosa malattia che Ronan avrebbe contratto da ragazzo, durante una missione diplomatica. Non è per quello che stette un anno e mezzo in sedia a rotelle, scrive Allen attribuendo il racconto al figlio Moses (quello che dice che la pazza era Mia e solidarizza con Woody: state prendendo appunti?), ma perché cuore di mamma Farrow, volendo per Ronan una carriera politica, gli fece fare quel dolorosissimo intervento con cui si allungano le ossa delle gambe. «Bisogna essere alti per fare carriera in politica» (pagina 288).

Mia Farrow: c’è un serio problema di casting. A chi assegnare un ruolo così complesso da risultare facilmente inverosimile? Una donna che: da giovanissima si sposa con Frank Sinatra; da vecchia si fidanza con Philip Roth; in mezzo manda al manicomio Dory Previn infilandosi in casa da amica e facendosi ingravidare dal di lei marito, il direttore d’orchestra André Previn; e poi – se si dà retta alla versione di Allen, che è anche l’unica che risulti credibile a chi abbia letto le carte giudiziarie – decide di farla pagare al moroso traditore accusandolo di pedofilia e, per tenere il punto, non esita a fare il lavaggio del cervello alla figlia per trent’anni. La ragione principale per cui alcuni scelgono di credere a Dylan Farrow, quando dice che Woody Allen la molestò settenne, è che è la meno grave delle ipotesi: uno che mette le mani nelle mutande a una bambina è un vecchio porco, ma una madre che fa per decenni il lavaggio del cervello alla figlia per vendicarsi dell’ex è una tragedia che nessun greco avrebbe osato concepire. Ah, e poi ci sarebbe quel dettaglio di far spezzare le gambe al figlio per renderlo più telegenico. E poi c’è la famiglia d’origine. Nel riassunto che ne fa Allen: molestata dei fratelli e forse anche dal padre, padre che una volta Mia piccina colse in flagranza d’adulterio; un fratello morto suicida, uno in un incidente aereo, uno attualmente in galera per pedofilia. Siccome la voce narrante è Woody Allen, mica Ingmar Bergman, è il primo a prendere per il culo il sé così fesso da non fuggire da una così evidentemente piena di problemi e fingersi morto. Non sa neanche lui il perché, dice (Mia somigliava alla sua amatissima seconda moglie, Louise Lasser, ma mica può essere solo questo). «So solo che una personalità affascinante e due occhioni azzurri hanno sempre varato mille navi»; il traduttore italiano aggiunge «come diceva Christopher Marlowe», ma ciò non vi sarà di gran aiuto se non siete abbastanza adusi alle citazioni angolofone da sapere che i versi di Marlowe parlavano di Elena di Troia. Effettivamente, guerre più storiche di quella dei Farrow non se ne ricordano, nell’evo contemporaneo.

Diane Keaton: amica ed ex fidanzata di Allen, protagonista di alcuni capolavori (Manhattan, Io e Annie) che Allen considera sopravvalutati (nessuno è incapace di giudicare un’opera quanto l’autore dell’opera), autrice della meravigliosa foto sulla quarta di copertina dell’edizione americana (quella che è infine uscita lunedì pubblicata da Arcade, dopo che il gruppo Hachette aveva mandato le copie già stampate al macero e rotto il contratto con Allen giacché sgradite all’uomo più potente da quelle parti: Ronan). Diane, dicevo. Incassatrice della più deliziosa descrizione di audizione cinematografica con un’aliena che diventerà un grande amore: «Penso che, se Huckleberry Finn fosse stato una bella ragazza, sarebbe stato così. Una ragazza che sembra doversi scusare perché sta al mondo, una provincialotta che viene dalla California, amante dei mercati delle pulci e dei sandwich al tonno; una ragazza che è emigrata a Manhattan, dove lavora come guardarobiera, dopo essere stata licenziata dal chiosco dei dolciumi di un cinema di Orange County per essersi mangiata tutte le caramelle […] Ci sono personalità che illuminano una stanza. La sua illuminava un viale» (pagina 180). Sarebbe bello un mondo in cui potessimo parlare solo di Woody e Diane, e ogni articolo su A proposito di niente non venisse monopolizzato dal dramma familiare: e invece Farrow ha comunque vinto, il proscenio è comunque suo.

Timothée Chalamet: attor giovane e protagonista überalleniano di Un giorno di pioggia a New York, delizioso film in cui invece di recitare pratica una mimesi del regista. Chalamet è uno di quelli che hanno baciato l’anello di Farrow dichiarandosi pentiti d’aver lavorato col mostro. Allen lo uccide con un’eleganza che non si vedeva da quando James Bond era Sean Connery. «Timothée ha manifestato il rammarico di essere comparso in un mio film e l’intenzione di versare il suo cachet in beneficenza, ma a mia sorella ha giurato di averlo dovuto fare perché era in lizza per l’Oscar con Chiamami col tuo nome, e lui e il suo agente avevano pensato di avere maggiori chance di vincere prendendo le distanze da me, come poi ha fatto. In ogni caso non rimpiango di avere lavorato con lui e non intendo restituire neanche un dollaro del mio compenso». (pagina 390)

Woody Allen, infine: regista, sceneggiatore, padre, ex di una pazza, ex di Diane Keaton. Ma, soprattutto: ottantaquattrenne. Cioè: della generazione di Alberto Arbasino e Paolo Conte. Di quelli che quand’erano piccoli c’era la seconda guerra mondiale e cosa vuoi mai che gliene importi di far delle tragedie sugli inciampi del presente. Se hanno una vocazione, è sdrammatizzare. Il loro basso profilo arriva a essere fastidioso (Allen descrive Settembre, il suo film del 1987, così: «La voglia mi era venuta anni prima, dopo avere visto lo Zio Vanja […] Il problema è che non si può mai mettere in conto l’imponderabile: e così, anche se feci tutto quello che avrebbe fatto Cechov, tralasciai un ingrediente essenziale pur se non quantificabile, il genio. Cechov infondeva automaticamente il genio nelle sue opere – qualcosa che non puoi controllare né imparare. E così, anche se qualcuno come me segue tutte le regole della drammaturgia, la maionese non viene»). Ma la loro determinazione a essere lievi (a non far sporcare le loro opere dalle tragedie del reale, a restare nella favola, dice Paolo Conte) è mirabile.

Allen la spiega citando Un tram che si chiama desiderio, l’opera che nel finale a piccolo questionario del libro è la sua risposta alla domanda «cosa invidi». Dice che lui è Blanche DuBois, che vuole la magia, mica la realtà. Non vuole la provincia, la campagna (il personaggio di Chalamet in Un giorno di pioggia diceva d’aver bisogno di respirare asfalto), il proletariato. Vuole i film che ha visto da piccolo, gente in abito da sera che beve dei martini. «Tutt’oggi, se la prima inquadratura di un film è il dettaglio della bandierina di un tassametro che viene abbassata, rimango. Ma, se è la bandierina di una cassetta della posta, esco». Tradotto dall’americano: non vuole tranquilli sobborghi di provincia e villette a schiera da piccolissima borghesia e buone cose di pessimo gusto. Vuole vedere ciò che racconta e che vive: Manhattan. Se, come dovrebbe, questa biografia avrà un adattamento cinematografico, il finale non potrà che essere quel flashback in cui c’è tutto: il protagonista che non va ai funerali, la pazza che non si sa ancora essere tale, i ristoranti chic, il jazz. «A un funerale non sono mai andato, me lo sono sempre risparmiato. Il primo e unico cadavere che ho visto è stato quello di Thelonious Monk. Stavo andando a cena da Elaine’s e mi fermai in un salone di pompe funebri sulla Terza Avenue per rendergli omaggio. Con me c’era Mia Farrow; era da poco che ci frequentavamo, e accondiscese alla mia richiesta malgrado lo sconcerto; avrebbe dovuto capire subito che stava mettendosi con la persona sbagliata».


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