mercoledì 8 marzo 2023

La rivoluzione di Helmut Newton passa attraverso gli scatti più memorabili della sua carriera

 


helmut newton foto
HELMUT NEWTON CARLA BRUNI, BLUMARINE, NICE 1993 © HELMUT NEWTON FOUNDATION


La rivoluzione di Helmut Newton passa attraverso gli scatti più memorabili della sua carriera

“Penso che un fotografo, come un bambino educato, dovrebbe essere visto e non ascoltato”.


Il 31 ottobre 2021 ha inaugurato la grande mostra retrospettiva Helmut Newton. Legacy alla Fondazione Helmut Newton di Berlino. Inizialmente programmata per coincidere con il 100° compleanno del fotografo, è stata posticipata di un anno a causa della pandemia.

Ora in mostra una selezione di opere di uno dei fotografi più influenti del XX secolo, conosciuto per le sue modelle alte, forti, muscolose e spesso nude. La sua non era solo fotografia di moda, a partire dagli anni Sessanta, Helmut Newton divenne una celebrità e introdusse nella fotografia i temi dell’erotismo, del voyeurismo e dell’omosessualità. Amava provocare ed era visto come un cattivo ragazzo ma a questo lui rispondeva: “Bisogna essere sempre all’altezza della propria cattiva reputazione”.


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Helmut N.ewton. Thierry Mugler Fashion, US Vogue, Monte Carlo 1995.

La mostra Helmut Newton. Legacy ripercorre cronologicamente la vita e l’eredità del fotografo berlinese. Con circa 300 opere, molte di queste esposte per la prima volta, la mostra presenta aspetti meno noti dell'opera di Newton che attraversano i decenni e riflettono lo spirito mutevole dei tempi. L’esposizione é completata da polaroid, pubblicazioni, materiale d'archivio e dichiarazioni del fotografo che raccontano il suo processo creativo. Rimarrà in mostra fino al 22 maggio 2022, il suo incomparabile lavoro pieno di sottile seduzione ed eleganza senza tempo tra ritratti, nudi in piscina, manichini svestiti e messe in scena di ossessioni sessuali. Un’esposizione che racconta il contributo di Newton alla fotografia attraverso il suo stile provocatorio ma che sottolinea soprattutto come il fotografo fu il primo a immaginare e visualizzare le donne per come sono oggi: donne che controllano la loro sessualità, donne che amano e desiderano chiunque vogliono, a prescindere dal sesso; donne in salute che hanno il controllo del loro corpo e godono del suo splendore.


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Helmut Newton. Prada, Monte Carlo 1984.
© HELMUT NEWTON FOUNDATION

Anticipando la rivoluzione sessuale che arrivò con l’avvento della pillola anticoncezionale, le donne del mondo di Newton sanno ciò che vogliono e se lo prendono; a differenza delle molte critiche che gli vennero fatte, erano molto lontane dall’essere oggetti sessuale deboli e compiacenti. Dietro tanta disinvoltura sulla pellicola si nasconde un uomo che non ha mai parlato volentieri delle sue fotografie e tanto meno della sua vita privata. “Penso che un fotografo, come un bambino educato, dovrebbe essere visto e non ascoltato. Sono un fotografo della vecchia scuola e non ho niente a che fare con l’arte. Non mi lascerò mai andare a discorsi intellettuali sul mio lavoro”.


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Helmut Newton. Cindy Crawford, US Vogue, Monte Carlo 1991.
© HELMUT NEWTON FOUNDATION

Helmut Newton nacque a Berlino sotto il segno dello scorpione nel 1920 da un fabbricante di bottoni, studiò al Werner von Treischeke Realgymnasium finché le leggi di Norimberga separarono gli alunni ebrei da quelli ariani nelle aule. Il padre lo mandò alla scuola americana di Berlino, ma fu presto espulso perché era un allievo irrimediabilmente pigro i cui interessi principali erano il nuoto, le ragazze e la fotografia. All’età di sedici anni imparò ad usare una macchina fotografica e nel 1936 diventò apprendista della fotografa berlinese Yva (Else Simon), specializzata in moda, ritratti e nudi, successivamente deportata e uccisa dai nazisti ad Auschwitz. Nel 1938 Newton lasciò Berlino per Singapore con un lavoro come fotografo di cronaca al Singapore Straits Timesma due settimane dopo fu licenziato dall'editore per incompetenza. Nel 1940 arrivò in Australia e provò con l’esercito, prestò servizio per cinque anni come privato guidando camion da dieci tonnellate. Quando decise di stabilirsi lo fece a Melbourne dove aprì un piccolo studio fotografico e incontrò l'attrice June Brunell (Browne) che diventò sua moglie e che a partire dal 1970, iniziò a fotografare con il nome di Alice Springs.

Newton diventò un collaboratore regolare e importante di Vogue Francia dal maggio 1961 e per i successivi 25 anni. Durante questo periodo lavorò anche per la versione americana, italiana e tedesca di Vogue, oltre che per Linea Italiana, Queen, Nova, Jardin des Modes, Marie Claire e Elle. È all’inizio degli anni Settanta che una serie di problemi di salute tra cui un attacco di cuore, sono il punto di svolta per Helmut Newton che decide che non c’è abbastanza tempo in una vita per copiare gli altri e seguire le mode. In questi anni che trova finalmente il suo inconfondibile stile, come si vede nelle sue fotografie che ritraggono la moda rivoluzionaria di André Courrèges.


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Helmut Newton. In a Hôtel de Passe, Self-Portrait with Model, Paris 1971.
© HELMUT NEWTON FOUNDATION

Inizia a fotografare come dice lui, senza buon gusto, con imperfezioni ed erotismo. Viaggia tra Parigi, Monte Carlo, Los Angeles e i suoi scatti non si fermano sui fondali dello studio ma si avventurano nelle strade, dove le modelle diventano le partecipanti di messe in scena, le protagoniste di una storia di paparazzi, di proteste o altro ancora. Ed è proprio questa la magia delle fotografie di Newton: poter osservare le immagini e riuscire ad immaginare la storia che può esserci prima e dopo quella scena. “Sono come tante altre persone, mi siedo sulla spiaggia o sulla terrazza di un caffè, guardo la gente – soprattutto le donne – e mi invento delle storie. È un buon modo per passare una mezz’ora”.


BAZAAR




martedì 14 febbraio 2023

Rita Moreno e Marlon Brando, storia di un amore travagliato








DI GIULIA CATERINA TRUCANO 03/11/2022
Cercando sul dizionario la definizione di "amore travagliato" non ci si stupirebbe nel trovare tra i risultati la storia d'amore tra Marlon Brando e Rita Moreno. La loro è stata infatti una delle più tormentate love story dell’età dell’oro di Hollywood. Rita Moreno è un’attrice, una ballerina e una cantante di Porto Rico. Vincitrice di numerosi premi, è tra i pochi talenti a potersi fregiare del titolo "EGOT", ossia di aver vinto tutti e quattro i premi più importanti dello spettacolo: il Premio Oscar, l’Emmy, il Grammy Award e il Tony Award. Brando è considerato ancora oggi uno dei mostri sacri dell'industria del cinema.



I due si conoscono su un set, per una mera trovata pubblicitaria. Brando l’aveva vista sulla copertina di Life, dove la Moreno era stata definita "una commistione di sesso e innocenza". Lei lo va a trovare secondo consiglio degli uffici stampa di entrambi, che avevano pensato di poter tirare fuori dall'incontro un bell'articolo di costume. Quando lei entra nel suo camerino, però, è un colpo di fulmine per entrambi. Brando le telefona subito dopo e parlano per ore. Hanno un primo appuntamento, cominciano a frequentarsi. Più avanti Rita Moreno scrive nelle sue memorie: "Dire che era un grande amante - sensuale, generoso, deliziosamente inventivo - sarebbe gravemente sottovalutare ciò che fece, non solo al mio corpo, ma anche alla mia anima". La loro sintonia e il loro amore sono grandi, ma la relazione ha subito dei problemi: Marlon Brando la tradisce ripetutamente e, durante gli otto anni di frequentazione, egli si sposa con altre due donne, dalle quali ha anche dei figli.


Tuttavia, Marlon e Rita tornano sempre insieme. Per la Moreno riconquistare l'attore diventa quasi un motivo di vanto - per farlo lo ingelosire ha anche una storia fugace con Elvis Presley. Le cose peggiorano però anni dopo, quando nel mezzo di questa relazione tira e molla, Rita Moreno rimane incinta. Lei spera che Brando la sposi, ma in tutta risposta riceve una somma di denaro e l'indirizzo di una clinica per abortire. L'intervento non procede in modo sereno: lei deve essere portata d'urgenza in ospedale, dove subisce un raschiamento. All'uscita dell'ospedale lui non c'è.


Siamo nel 1961 quando Marlon Brando parte per girare "L'ammutinamento del Bounty". Sul set si innamora della sua coprotagonista, Tarita. Tuttavia, non appena torna a Hollywood, chiama la Moreno chiedendole di vedersi, ancora una volta. Lei desiste inizialmente, non ce la fa più. Si odia per essere tornata da lui, ma non sopporta l'idea di starne senza. Il fatto che l’attore avesse avuto figli con altre donne, ma che avesse insistito per farla abortire, l'addolora e la fa sentire inutile e rifiutata. Così, la mattina dopo, dopo aver passato la notte insieme, Rita Moreno prende dei sonniferi. È l'assistente di lui a trovarla appena in tempo e a salvarla.

brando talks to rita moreno in bathtub
marlon brando rita moreno

L’anno dopo Marlon Brando sposa Tarita, mentre nel 1965 la Moreno convola a nozze con il cardiologo Leonard Gordon. I quattro diventano amici e si frequentano spesso, organizzando cene e feste. Qualche anno dopo i due recitano nuovamente insieme, per l'ultima volta, nel film "La notte del giorno successivo". Le riprese sono tumultuose e la scena della litigata tra i due mentre sono sdraiati a letto non è prevista nel copione.

L'ultima volta che Rita e Marlon si vedono è nel 2003, quando lei va a trovarlo a casa sua. I due riescono vedersi per poco tempo e Rita riesce a malapena a dargli un bacio d’addio. Brando ormai è ormai in pessime condizioni psicofisiche e muore poco tempo dopo. Nel 2013, Rita Moreno pubblica una biografia. Al suo interno, Marlon Brando è definito uno dei due amori della sua vita, insieme al marito.


BAZAAR



sabato 3 dicembre 2022

Pier Paolo Pasolini / Un marxista a New York / Intervista di Oriana Fallaci

Pier Paolo Pasolini


PIER PAOLO PASOLINI: UN MARXISTA A NEW YORK – INTERVISTA DI ORIANA FALLACI

È a New York da dieci giorni, è venuto per il festival cinematografico, vi davano due dei suoi film. Sono proprio cu­riosa di saper se l’America piace a questo marxista con­vinto, a questo cristiano arrabbiato, insomma a Pasolini.

di Oriana Fallaci

March 8, 2017

Eccolo che arriva: piccolo, fragile, consumato dai suoi mille desideri, dalle sue mille disperazioni, amarezze, e vestito come il ragazzo di un college. Sai quei tipi svelti, sportivi, che giocano a baseball e fanno l’amore nelle au­tomobili. Pullover nocciola, con la tasca di cuoio all’al­tezza del cuore, pantaloni di velluto a coste nocciola, un po’ stretti, scarpe di camoscio con la gomma sotto. Non dimostra davvero i quarantaquattr’anni che ha. Per ritro­varli, quei quarantaquattr’anni, deve andare verso la fine­stra dove la luce si abbatte spietata sul viso e schiaffeggia quegli occhi lucidi, dolorosi, quelle guance scarne, ap­passite, la pelle tesa agli zigomi fino a rivelare il suo te­schio, Per la stanchezza, suppongo. La notte scappa agli inviti e se ne va solo nelle strade più cupe di Harlem, di Greenwich Village, di Brooklyn, oppure al porto, nei bar dove non entra nemmeno la polizia, cercando l’America sporca infelice violenta che si addice ai suoi problemi, i suoi gusti, e all’albergo in Manhattan torna che è l’alba: con le palpebre gonfie, il corpo indolenzito dalla sorpre­sa d’essere vivo. Siamo in molti a pensare che se non la smette ce lo troviamo con una pallottola in cuore o con la gola tagliata: ma è pazzo a girare così per New York? È a New York da dieci giorni, è venuto per il festival cinematografico, vi davano due dei suoi film. Sono proprio cu­riosa di saper se l’America piace a questo marxista con­vinto, a questo cristiano arrabbiato, insomma a Pasolini.

Intervista di Oriana Fallaci

Dieci giorni son pochi per dare un giudizio, è ben vero, ma Orson Welles una volta m’ha detto che per capire un paese ci vogliono dieci giorni o dieci anni: all’undicesimo giorno ti abitui e non vedi più nulla. All’undicesimo gior­no, domani, riparte. L’ho pregato per questo di venire da me a bere un drink. «Whisky?» gli chiedo. «Birra? Co­gnac?» «Coca-cola», risponde. La finestra s’apre lungo una strada di grattacieli, uno accanto all’altro, uno dopo l’altro, dall’East River allo Hudson. Ti gira la testa a guar­darli, ti senti in trappola come una bestia che ha sete di verde. O di silenzio. Entra, dal vetro socchiuso, l’inferno: brontolar di motori, squillare di clacson, martellare di perforatrici, sirene. La città ha acceso i termosifoni e la polvere nera ti si attacca perfino alle ciglia, rendendoti cieco. Piove, è una di quelle giornate in cui tutto ti irrita, ti nega entusiasmo. Ma lui beve con gusto la sua Coca-cola e d’un tratto esclama:

«Vorrei aver diciott’anni per vivere tutta una vita quaggiù».

«Quaggiù?! A New York?»

«È una città magica, travolgente, bellissima. Una di quelle città fortunate che hanno la grazia. Come certi poeti che ogniqualvolta scrivono un verso fanno una bella poesia. Mi dispiace non esser venuto qui molto prima, venti o trent’anni fa, per restarci, Non mi era mai successo conoscendo un paese. Fuorché in Africa, forse. Ma in Africa vorrei andare e restare per non ammazzar­mi, L’Africa è come una droga che prendi per non am­mazzarti, una evasione. New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a vent’anni. Lo capii appena arrivato. Arrivai da Montreal, con il treno. Scesi a un’enorme sta­zione affogata nel buio, una sotterranea. Non c’eran fac­chini e la mia valigia pesava. Eppure andavo come se fosse leggera. Mi muovevo verso una luce accecante, in fondo al tunnel c’era una luce accecante, e quando fui fuori la città mi aggredì come un’apparizione. Gerusa­lemme che appare agli occhi del Crociato. Non mi senti­vo straniero, imparai subito a girare le strade neanche ci fossi nato: eppure non la riconoscevo. Perché nessuno ha mai rappresentato New York. Non l’ha rappresenta­ta la letteratura: a parte le vignette di Arcibaldo e Petro­nilla, su New York esistono solo le poesie di Ginsberg. Non l’ha rappresentata la pittura: non esistono quadri di New York. Non l’ha rappresentata il cinema perché… Non lo so, Forse non è cinematografabile. Da lontano è come le Dolomiti, troppo fotogenica, troppo meravigliosa, e dà fastidio. Da vicino, da dentro, non si vede: l’obiettivo non riesce a contenere l’inizio e la fine di un grattacielo. Ma non è solo la sua bellezza fisica che con­ta. È la sua gioventù. È una città di giovani, la città meno crepuscolare che abbia mai visto. E quanto sono elegan­ti, i giovani, qui.»

«Eleganti?!»

«Hanno un gusto favoloso: guarda come sono vestiti. Nel modo più sincero, più anticonformista possibile. Non gliene importa nulla delle regole piccolo-borghesi o popolari. Quei maglioni vistosi, quei giubbotti da po­co prezzo, quei colori incredibili. Non si vestono mica, si mettono in maschera: come quando da piccola ti met­tevi la palandrana della nonna. E così mascherati se ne vanno, orgogliosi, coscienti della loro eleganza che non è mai un’eleganza mitica o ingenua. Ti vien voglia di imitarli e magari li imiti perché dove puoi vestirti così? A Roma? A Milano? A Parigi? Io là ho sempre paura che la gente si volti, mi guardi. Qui non ho alcun com­plesso, posso andarmene vestito come voglio, senza che nessuno si volti e mi guardi. Qui invece nessuno ti turba con la sua curiosità. Ieri sulla Quarantacinquesima ho visto un uomo che stava morendo. In mano aveva un pacchetto: l’ha fissato e poi l’ha scaraventato con una ta­le violenza che il pacchetto s’è rotto. Chissà che c’era dentro. Dopo s’è appoggiato al muro, ha messo la testa sull’avambraccio, è scivolato piano piano per terra ed è rimasto lì a piangere. Anzi a morire. Senza che nessuno si fermasse a guardarlo, neanche per offrirgli un bicchier d’acqua, un aiuto. La sera avanti, poco lontano dal Me­tropolitan, ho visto un vecchio disteso sul marciapiede: coperto da un plaid. Accanto gli stava un ragazzo, bello, elegante come dici tu: scarpe di cuoio perfetto, calzini leggeri, pantaloni ben tagliati, un pullover favoloso. Il vecchio stringeva sul petto la mano del giovane e il suo volto era bianco, già levigato dalla morte. La gente pas­sava e non si fermava, qualcuno rideva. Ma è male que­sto? O non è male il nostro fermarsi a curiosare? Non è detto che il loro silenzio sia mancanza di pietà, forse è una forma superiore di pietà. La pietà di non avvicinar­si, non curiosare…»

L’America è proprio una donna fatale, seduce chiun­que. Non ho ancora conosciuto un comunista che sbar­cando quaggiù non abbia perso la testa. Arrivano colmi di ostilità, preconcetti, magari disprezzo, e subito cadon colpiti dalla Rivelazione, la Grazia. Tutto gli va bene, gli piace: ripartono innamorati, con le lacrime agli occhi. Sì o no, Pasolini? Lui scuote le spalle, sdegnoso.

«Io sono un marxista indipendente, non ho mai chie­sto l’iscrizione al partito, e dell’America sono innamora­to fin da ragazzo. Perché, non lo so bene. La letteratura americana, tanto per fare un esempio, non mi è mai pia­ciuta. Non mi piace Hemingway, né Steinbeck, pochissi­mo Faulkner; da Melville salto ad Alien Ginsberg. L’establishment americano non ha mai potuto conciliarsi, ovvio, con il mio credo marxista. E allora? Il cinema, forse. Tutta la mia gioventù è stata affascinata dai film americani, cioè da un’America violenta, brutale. Ma non è questa America che ho ritrovato: è un’America giovane, disperata, idealista. V’è in loro un gran pragmatismo e allo stesso tempo un tale idealismo. Non sono mai cinici, scettici, come lo siamo noi. Non sono mai qualun­quisti, realisti: vivono sempre nel sogno e devono idealizzare ogni cosa. Anche i ricchi, anche quelli che hanno nelle mani il potere. Il vero momento rivoluzionario di tutta la Terra non è in Cina, non è in Russia: è in Ameri­ca. Mi spiego? Vai a Mosca, vai a Praga, vai a Budapest, e avverti che la rivoluzione è fallita: il socialismo ha mes­so al potere una classe di dirigenti e l’operaio non è pa­drone del proprio destino. Vai in Francia, in Italia, e ti accorgi che il comunista europeo è un uomo vuoto. Vieni in America e scopri la sinistra più bella che un marxi­sta, oggi, possa scoprire. Ho conosciuto i giovani dello Sncc, sai gli studenti che vanno nel sud a organizzare i negri. Fanno venire in mente i primi cristiani, v’è in loro la stessa assolutezza per cui Cristo diceva al giovane ric­co: “Per venire con me devi abbandonar tutto, chi ama il padre e la madre odia me”. Non sono comunisti né anticomunisti, sono mistici della democrazia: la loro ri­voluzione consiste nel portare la democrazia alle estre­me e quasi folli conseguenze. M’è venuta un’idea, cono­scendoli: ambientare in America il mio film su san Paolo. Voglio trasferire l’intera azione da Roma a New York, situandola ai tempi nostri ma senza cambiar nulla. Mi spiego? Restando fedelissimo alle sue lettere. New York ha molte analogie con l’antica Roma di cui parla san Paolo. La corruzione, le clientele, il problema dei negri, dei drogati. E a tutto questo san Paolo dava una risposta santa, cioè scandalosa, come gli Sncc…»

Alle sette ha un appuntamento con Herbert Blau, il direttore teatrale del Lincoln Center, che lo ha invitato a cena. Non si trovano taxi a quest’ora e così andiamo a piedi. Cade una pioggia sottile, esasperante. Ma lui cam­mina senza sentirla, o apprezzandola forse, e ripete vedi le case di Arcibaldo e Petronilla, in fondo è come tornare fanciulli. Gli è quasi sparita dagli occhi quella tristez­za gonfia di mille amarezze.

«L’aspetto più importante di questa città è la miseria.»

«Miseria?! A New York?!»

«Sì. Lo stesso tipo di miseria, o povertà, che si trova nelle ex colonie divenute indipendenti da poco. Lo stes­so tipo di povertà che trovi a Calcutta, a Bombay, a Ca­sablanca. Mi spiego? Non una miseria economica, la mi­seria di chi non ha da mangiare: una miseria, ecco, psicologica. Quella sporcizia diffusa, quella provviso­rietà. Le strade male asfaltate che quando piove si riempion di gore. I muri neri o marroni, costruiti in fretta per esser buttati giù in fretta. E mai un angolo tirato a lucido, destinato a durare. C’è anche Park Avenue, sia­mo d’accordo, ci sono gli splendidi grattacieli di vetro: ma quelle son le piramidi. Esser qui oggi è come trovar­si in Egitto quando gli schiavi costruivano le piramidi. Sai, non è mica detto che gli schiavi in Egitto vivessero male. Magari erano allegri, nella disperazione, e la sera andavano a spasso, bevevano… Non c’entra. L’aspetto importante resta questa miseria da ex colonia, da sotto­proletariato.»

«Sottoproletariato? A New York?»

«Sicuro. V’è in tutti le stigmate della medesima origi­ne sottoproletaria: a colpo d’occhio non la vedi mica la differenza di classe. Come a Mosca quando cammini pensando che son tutti uguali. Naturalmente la differen­za esiste ma non se ne rendono conto, non ce ne rendia­mo conto. E lo sai perché? Perché non v’è in loro la co­scienza di classe. Per uno che vien dall’Italia lo smarrimento è più fondo che in Africa, in India. Voglio dire che entri a Calcutta, a Karthum, ed entri nel cuore di una razza, di un contesto sociale: la classe operaia, borghese, piccolo-borghese, e ciascuna con la sua co­scienza di esistere. Entri a New York e cosa trovi? Un fuoco d’artificio di razze assimilate e rese analoghe dallo stesso sistema, dal medesimo fondo: il sottoproletariato. Guarda l’operaio americano, questa mescolanza mo­struosa e affascinante di sottoproletariato e di piccola borghesia. Non esiste l’operaio in quanto tale perché non esiste in lui la coscienza della classe operaia. Una voragine. Ma ovunque ti affacci, in America, in un’ani­ma come in una strada come in un ambiente, ti affacci su una voragine. Quasi tu ti sporgessi da un grattacielo. Ciò è bene, ciò è male? Non so, mi sento confuso. In Europa mi sembrerebbe negativo, qui no. Ammiro il momento rivoluzionario americano, ovvio che il mio cuore è per il povero negro o il povero calabrese, e con­temporaneamente provo rispetto per l’establishment, il sistema americano… Devo tornare, devo approfondire.»

Il ristorante dove incontriamo Herbert Blau è famoso per le aragoste alla griglia. Cena? Aragoste? Pasolini esce come un sonnambulo dal dedalo delle sue confu­sioni e ordina un bicchiere di latte, una macedonia di frutta ma senza le arance. È afflitto da un’ulcera, do­vrebbe farsi operare, si nutre come un bebé. Parlando di teatro, progetti, Blau lo fissa un po’ sbalordito: questo rivoluzionario che si nutre come un bebé. Si saluteranno presto, reciprocamente annoiati. Conclusa la cena Blau lo ha accompagnato dentro il Lincoln Center, a vedere le prove di una commedia in costume. Ma a Pasolini non importa nulla delle commedie in costume, dell’ap­parato elettronico che sposta in pochi secondi le scene, gira il palcoscenico, alza la platea: nel suo mondo non c’è posto per simili meraviglie. Come non c’è posto per i grattacieli di vetro, Park Avenue, un razzo che parte, il trapianto chirurgico di un cuore vivo: l’America bella, pulita, comoda che piace a chi spera nel Paradiso. Come Rimbaud (o certi martiri) lui vuol sempre tornare all’in­ferno, ai quartieri dove si rischia un colpo di rivoltella nel cuore, incontri tragici e magari perversi, la punizio­ne, il Greenwich Village come glielo descrisse Elsa Mo­rante, Harlem come l’ha visto ieri sera ed è stata una bellissima sera. Gli presentarono un sindacalista negro, di estrema sinistra, sai quelli che non accettano il siste­ma della non-violenza propagandato da Martin Luther King, e son pronti ad uccidere. Il sindacalista lo portò a casa di un operaio caduto dal quarantaseiesimo al quarantaduesimo piano dove restò appeso miracolosamente ad un filo. L’operaio era un vecchio negro, disteso in un letto e rideva felice, felice, ed era così commovente. D’un tratto mi saluta, impaziente, una stretta leggera di mano, e se ne va tutto solo nel buio.

Oggi parte ed ha molte cose da fare: anzitutto posar per un tale che ha molto insistito e gli pare si chiami Avalon. «Dick Avedon?» «Sì, qualcosa del genere.» «Non sai chi è Dick Avedon?» «No, chi è?» «Forse il più grande fotografo che esista in America, senza dub­bio uno dei più grandi nel mondo.» «Ah, sì?» Avedon lo ha pregato di venire al suo studio verso le undici ma lui è giunto in ritardo perché sulle scale c’era un vagabondo ubriaco dall’alba, e un vagabondo ubriaco dall’alba vale cento fotografie di Avedon.

L’ascoltava con pazienza materna, dolcezza, prima di lasciarlo gli ha dato non so quanti dollari, e certo ora guarda con meno interesse la immensa istantanea che copre una intera parete dello studio Avedon: Charlie Chaplin ritratto come un demonio, gli indici e i mignoli ritti sopra le tempie a mo’ di corna o forconi. «La scattai l’ultimo giorno che passò negli Stati Uniti», spiega Avedon, «poche ore prima che gli partisse la nave diretta in Europa. Venne qui e…» Ma a Pasolini preme più la sto­ria di altre fotografie: questo ragazzo negro, ad esempio, che morì di botte per essere stato aggredito dal Ku Klux Klan. O questo mulatto che al Parlamento fu eletto due volte ma non riuscì mai ad entrarci perché è contro la guerra in Vietnam. O questo Allen Ginsberg che posa nudo, coperto solo della sua barba e i suoi peli, e lo in­duce a una altra dichiarazione d’amore: «Gli intellettua­li americani, capisci. Magari son pieni di contraddizioni; incontri un allievo di Morris che ha dato la laurea sulla poesia del Petrarca, discute di semeiotica e poi incontri due studentesse che ignoran perfino Apollinaire o Rinbaud. Quali sono i poeti che preferisce, ti chiedono. Rimbaud, rispondi, Apollinaire, Machado, Kavafis. Ti guardano cieche. Che Kavafis non lo conoscano, passi. Per Machado è già grave, per Apollinaire è assurdo, per Rimbaud addirittura scandaloso. Però hanno un tale ri­spetto per la cultura! Un rispetto pieno di timore, umiltà: è una gran dote. Considera gli italiani: sono sem­pre padroni del sapere, anche quando sono ignoranti. Non c’è mai un attimo di timidezza, negli italiani, verso il sapere. Un tipo come Umberto Eco, ad esempio. Co­nosce tutto lo scibile e te lo vomita in faccia con l’aria più indifferente: è come se tu ascoltassi un robot. Un americano erudito come Umberto Eco è un uomo umi­le, invece, non si considera mai padrone della sua sa­pienza, è quasi spaventato dalla sua cultura. Ciò è giu­sto, mi piace…». E intanto Avedon scatta foto che suppongo destinate alle frivole lettrici di «Vogue». Che scena, vale quella del Village.

Al Village ci va subito dopo per comprare i pantaloni e i giubbotti che trova così eleganti e che a Roma non in­dosserà mai: ossessionato com’è dal complesso d’esser riconosciuto, criticato, guardato. Lo attrae soprattutto una certa camicia che è la copia esatta di quelle in uso nelle prigioni. Sul taschino sinistro c’è scritto: «Prigione di Stato, galeotto Numero 3678». La sta provando, se­dotto, quando all’angolo della Decima Avenue scorge una dimostrazione in favore della guerra nel Vietnam.

Uomini e donne passano cupi con grandi cartelli dove è scarabocchiato: «Bombardate Hanoi»; qualcuno ha un distintivo che dice: «Ammazzateli tutti, quei rossi». Ed ecco che un’automobile arriva, ne scendono due giova­notti e una ragazza bionda in calzoni. La ragazza ha una chitarra. Si appoggia al cofano dell’automobile, mentre i due giovanotti le si mettono ai lati, e incomincia a suo­nare qualcosa di triste. Poi, insieme, tutti e tre attaccano una canzone di protesta. Continueranno finché gli altri continueranno a sfilare coi loro cartelli: e non una rissa, non un insulto, un gesto di ostilità. Pasolini resta fermo a fissarli, con la sua camicia da galeotto, i suoi occhi so­no umidi, buoni, quando sussurra: «Questa è la cosa più bella che ho visto nella mia vita. Questa è una cosa che non dimenticherò finché vivo. Devo tornare, devo star qui anche se non ho più diciott’anni. Quanto mi dispia­ce partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambi­no di fronte a una torta tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale strato gli piacerà di più, sa solo che vuole, che deve mangiarli tutti. Uno ad uno. E nello stesso momento in cui sta per addentare la torta, gliela portano via».

È l’istantanea di un marxista a New York.

L’Europeo, 13 ottobre 1966

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mercoledì 23 novembre 2022

Humphrey Bogart e Ingrid Bergman e quell'amore passionale in Casablanca

 

bergman e bogart nel film casablanca
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Humphrey Bogart e Ingrid Bergman e quell'amore passionale in Casablanca


Storia di una delle storie d'amore fittizie più belle del cinema.


 23/11/2022


Se Casablanca è ancora saldo sul podio dei film più acclamati di tutti i tempi, è con le interpretazioni di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman che nasce una delle coppie più iconiche del cinema. Rispettivamente nei panni del burbero Rick Blaine e dell’eterea Ilsa Lund, il duo Bogart-Bergman viene reclutato in un secondo momento: inizialmente un’indiscrezione dell’Hollywood Reporter attribuisce i ruoli di protagonisti a Ronald Reagan e Ann Sheridan, e se così fosse stato la storia del cinema sarebbe diversa. Se Reagan viene “scartato” perché richiamato alle armi, alla Sheridan - che aveva già recitato con Bogart in Strada Maestra e che nel 1942 aveva all’attivo una cinquantina di film - il registra Michael Curtiz preferisce la più fresca e meno conosciuta Ingrid Bergman. La chimica tra i due buca lo schermo: entrambi hanno una doppia anima, all’apparenza algida ma intimamente vulcanica, e portano in sé un segreto condiviso, il grande amore che hanno vissuto anni prima a Parigi - dove, se no? -, che nessuno di loro è riuscito a scordare, nonostante Rick abbia una girandola di aspiranti fidanzate e Ilsa sia ormai una donna sposata. Sullo sfondo della Seconda Guerra Mondiale, dunque, si consuma un’altra duplice guerra: quella tra i protagonisti per ritrovarsi, e quella interiore di ciascuno di loro per dirsi addio un’ultima volta. Tratto da un’opera teatrale mai rappresentata, Everybody comes to Rick’s, la versione cinematografica rafforza i personaggi di Rick e Ilsa rispetto all’opera originale, tanto da divenire più una storia d’amore che di guerra. Questo si deve non solo a una scelta della Warner Bros. che teme i mille cavilli della censura politica, ma, evidentemente, anche al magnetismo di Bogart e Bergman, che in qualche modo plasmano su di sé l’evoluzione della trama. L’ultima parte del film, infatti, è scritta giorno per giorno e si arriva quasi a fine riprese senza avere ancora un finale certo.

bergman e bogart nel film casablanca
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Pare che Bergman infine abbia chiesto allo sceneggiatore Howard Koch: “Quale uomo dovrei amare di più, alla fine? Rick o mio marito?”. E lui, “Non so, cerca di amarli entrambi allo stesso modo”. Ovviamente il suggerimento resta inatteso, perché Ilsa è perdutamente innamorata di Rick e lascerebbe ripartire il marito da solo verso la salvezza. Ma è proprio davanti al pericolo che il cinico Rick-Bogart esprime la qualità del proprio amore, preferendo mettere in salvo Ilsa anche se questo significa perderla - c’è anche un tema morale, ai tempi: né la censura né il pubblico avrebbero simpatizzato per una donna che abbandona il marito per un altro -. La storia d’amore tra Rick e Ilsa, dunque, risulta travolgente pur restando perfettamente candida. La sensualità tra i protagonisti appartiene al loro passato ma allungherà sempre le sue ombre sulle loro vite, ed è forse questa la magia di una storia d’amore che né il tempo né la guerra possono spezzare.

Candidato a otto premi Oscar, ne ottiene tre: miglior film, miglior regista e migliore sceneggiatura. Nonostante la mancata candidatura per Bergman, da questo momento la sua carriera decolla e tra i suoi film successivi troviamo Per chi suona la campana (1943) Io ti salverò (1945), Notorious - L'amante perduta (1946), diretta in tutti e tre da Alfred Hitchcock, e Angoscia (1944), che finalmente le assicura il suo primo Oscar come migliore attrice. Quanto a Humphrey Bogart, candidato all’Oscar come miglior attore protagonista per Casablanca, deve aspettare il 1952 per vincerlo con La Regina d’Africa di John Huston. E’ forse anche grazie al successo di Casablanca, comunque, che Bogart viene scritturato per Acque del Sud, di Howard Hawks, per il ruolo che era stato offerto a Cary Grant prima che a lui. Fortunatamente alla fine la spunta Bogart, che sul set incontra un’attrice ai primi passi, la splendida Lauren Bacall, e tra i due nascerà una della più belle storie d’amore di Hollywood. Che l’amore fittizio tra Rick e Ilsa gli abbia portato fortuna?

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domenica 20 novembre 2022

Vita e amori di Sibilla Aleramo, donna emblema del femminismo del Novecento italiano

 

Sibilla Aleramo


Vita e amori di Sibilla Aleramo, donna emblema del femminismo del Novecento italiano

Madre, amante, autrice, protagonista: la storia di una donna.


Rina Faccio, meglio nota come Sibilla Aleramo, ebbe una vita turbolenta. Le sue esperienze diventarono presto storia, denuncia, poesia, narrazione. La scrittrice e poetessa italiana, nata nel 1876, è infatti ricordata ancora oggi come una delle primissime penne femministe del Novecento. Il suo primo lascito si trova all'interno sua opera più celebre, Una donna, capolavoro autobiografico in cui la scrittrice incluse molti altri aspetti fondamentali della sua vita, come le imposizioni sociali legate alla figura della donna, le relazioni coniugali costrittive, violente, frustranti e quelle familiari in relazione all'idea della donna-madre, considerata da lei troppo opprimente. Non manca poi il trauma subito in gioventù, la violenza sessuale subita da parte di un dipendente del padre, una vicenda che intrappolò la giovane scrittrice in un matrimonio riparatore.



Già agli inizi del Novecento, la Aleramo diventa uno degli emblemi del femminismo, uno spirito libero che abbandona marito e a malincuore anche il figlio Walter, per seguire la sua passione più grandi: quella della letteratura.

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È l'inizio del XX secolo quando la Aleramo scappa da Milano a Roma per scrivere di racconti, pubblicare articoli, collaborare con giornali femministi, politici, culturali, e partecipare a campagne femministe. In lei vi è forza e determinazione, ma anche dolore e sofferenza, che la conducono anche verso un tentato suicidio. Dopo una soffocante relazione con l'ex marito, Sibilla Aleramo intraprende una storia con il capo redattore di Nuova Antologia, Giovanni Cena, con cui condivide la passione per la letteratura e gli impegni legati al sociale. Quando l'amore con Cena termina, iniziano per lei una serie di legami con diversi intellettuali, tra cui Vincenzo Cardarelli e Salvatore Quasimodo, il folle amore con Dino Campana, tossico, tempestoso, brevissimo ma profondo, finito a causa dell'internamento e della malattia di lui; ci sono anche storie con donne, come quella che ebbe con Lina Poletti, grandissima scrittrice italiana. Ben presto, questi amori diventano protagonisti delle prose e le poesie della Aleramo.


Le influenze che entrano in armonia e si mescolano con la vita della Aleramo sono diverse: incontra artisti del movimento Futurista, stringe un forte rapporto con D'Annunzio e poi sia avvicina alle ideologie politiche, prima del Fascismo, poi a quelle del Partito Comunista. A distanza di oggi, impossibile pensare a lei senza sottolineare quella che fu la sua figura, così eclettica e incisiva, quella di una donna, moglie, madre, amante, autrice e protagonista, che lascia in eredità un patrimonio letterario ancora rivoluzionario e dirompente.

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