martedì 21 giugno 2022

Francesca Marciano/ Sceneggiatrice romana giramondo che a NY ha capito di essere una scrittrice


Francesca Marciano


Francesca Marciano, sceneggiatrice romana giramondo che a NY ha capito di essere una scrittrice

Scrive sceneggiature per cinema in italiano (David di Donatello nel 1992) e romanzi in inglese. Ha conquistato Michiko Kakutani, feroce critica del New Yorker

Sorseggia il suo the osservando Central Park circondata da vivaci colori primaverili: l’erba è di un verde intenso e le querce rosse hanno perso la sfumatura bronzea dell’inverno per vestirsi di rosso purpureo. La luce del sole viene da occidente, ed è ancora forte.

A Michele ha anche raccontato che “qui ci è arrivata giovanissima, alla fine degli anni’70, nel momento in cui lei stava diventando una persona adulta, assaggiava l’indipendenza e ha fatto le prime esperienze. Era una città molto diversa da adesso, non era così divisa in classi sociali, tutto era coeso in un’atmosfera bohemien e c’erano serate incredibili con persone che poi non si sarebbero mai più incontrate” Sorride “C’è stato un momento, un giorno preciso, in cui si è resa conto che voleva essere una scrittrice e che si doveva prendere la responsabilità di questa decisione ed è successo proprio qui, a New York. Ma da quel momento e la pubblicazione sono passati anni”
Francesca Marciano aggiunge acqua calda al suo the e gira il cucchiaino in piccoli cerchi.

Michele Crescenzo (sinistra) e Francesca Marciano (destra)

I camerieri del Loeb Boathouse lavorano con costanza ma senza fretta, lavano bicchieri, shakerano Martini, si passano le mani umide sopra i grembiuli neri. Un ragazzo – circondato da una dozzina bambini sporchi della schiuma leggera delle bolle di sapone – si avvicina ad un cameriere. Appoggia per terra una coppia di bastoni uniti da una garza e chiede delle indicazioni stradali. Ha un grande volto sorridente, gli ricorda quello di Claudio Amendola quando lo ha diretto in Lontano da dove, il film che ha girato del 1982 insieme a Stefania Casini proprio a New York.

È una relazione anomala quella che ha con il cinema: è passata da attrice, a regista a sceneggiatrice affermata. “Quando ho recitato ero giovanissima” – ricorda ad Ilaria Zaffino su Repubblica  “è stato un periodo molto breve della mia vita, ho capito che non era la mia strada. Il primo film è capitato per caso con Lina Wertmüller, avevo vent’anni. Dopo ho lavorato con Pupi Avati, ma poi basta, sono andata in America a studiare. Non mi piaceva fare l’attrice, mi sentivo passiva, invece a me interessava quel che succedeva sul set ma volevo stare dall’altra parte, dalla parte di chi lo faceva. Ho sempre continuato a lavorare per il cinema, alternando film e romanzi”. Dal 1982 ad oggi ha scritto venticinque sceneggiature lavorando con Bernardo Bertolucci, Gabriele Salvatores, Maria Sole Tognazzi e Valeria Golino. Nel 1992 ha vinto il David di Donatello per la sceneggiatura di Maledetto il giorno che t’ho incontrato con Carlo Verdone.

“Aver scritto tanto per il cinema mi ha allenato a gestire i tempi, con i tagli, la velocità con cui si passa da un momento all’altro, come nelle sceneggiature una scena succede all’altra” racconta a Repubblica “Certo quando si scrive un film tutto quello che scrivi si vede, la magia della letteratura è invece mescolare il visibile e l’invisibile. Ma la scrittura cinematografica è sicuramente nel mio retropensiero anche quando scrivo”.

L’animatore con la faccia da Claudio Amendola sfrega le palme delle mani sulle ginocchia dei jeans appiccicosi. Ringrazia e va via portandosi con sé il gruppetto di ragazzini che riprendono ad urlare festosi. Le piace lo schiamazzo dei bambini, l’ottimismo senza complicazioni delle loro voci è lo stesso sia a New York che a Roma che a Nairobi.

Era in Africa quando il suo primo romanzo Rules Of the Wild (Cielo scoperto, Mondadori 1998) è stato acquistato dalla Alfred A Knopf. Lei e la sua editor hanno lavorato senza conoscersi e mandandosi il manoscritto usando DHL con le note scritte a penna. “Una volta” ha raccontato sempre a Michele “ho affidato il mio manoscritto ad un pilota di un piccolo aereo rudimentale da dieci posti sperando che arrivasse a destinazione. Per fortuna tutto è andato bene.” Rivolge lo sguardo verso la Random House Tower come se la potesse scorgere tra le foglie. Ricorda l’emozione quando è entrata per la prima volta nell’enorme hall della Knopf dove sono esposte le prime edizioni di tutti gli scrittori che hanno pubblicato per loro dagli anni Venti. “È stata davvero un’emozione incredibile, pensavo di essere arrivata nel cuore della letteratura americana”.

Rules of the wild, pubblicato nel 1998, racconta la storia di Esmé che, dopo la morte improvvisa dell’eccentrico padre, lascia Roma e parte per il Kenya. Conquistata dallo spettacolo della natura, decide di restarvi. Attraverso la conoscenza di due uomini conosce il lato romantico e doloroso dell’Africa. Dopo la pubblicazione negli Stati Uniti venne pubblicata in Italia dalla Mondadori e successivamente in altri tredici paesi trasformando il romanzo in un best seller. Sulle pagine del New York Times Richard Bernstein parlò di un «romanticismo degno di Flaubert» ed elogiò incondizionatamente «la forza narrativa e la capacità di coinvolgimento» dell’autrice.

Ritratto di Francesca Marciano

Nel 2002 viene pubblicato Casa Rossa (Loganesi, 2002) che racconta una saga familiare che attraversa gli anni Settanta. Antonio Monda ne scrive così su Repubblica: L’ ambientazione italiana di Casa Rossa rivela molti riferimenti autobiografici che vengono rivissuti con uno sguardo che alterna la malinconia del ricordo alla necessità della ricerca e della comprensione. Casa Rossa è il nome di una villa posseduta in Puglia per tre generazioni dalla famiglia Strada. La protagonista, di nome Alina, ritorna nella vecchia casa di campagna quando questa viene messa in vendita, e si presenta al lettore con un incipit spiazzante, che dà immediatamente il tono all’ intero romanzo: “Quando eravamo piccole, io e mia sorella Isabella ci chiedevamo se Alba avesse ucciso nostro padre. Ucciso, e poi messo in piedi la storia del suicidio“. La vicenda, che per usare le parole della protagonista “non racconta quello che sappiamo o abbiamo, ma quello che abbiamo perso.”

Il terzo romanzo The End of Manner (La fine delle buone maniere, 2007) è la storia di Maria, una fotografa che preferisce lavorare con i cibi anziché le persone. Un’agenzia internazionale la sceglie per fotografare donne afgane che tentano di sottrarsi ai matrimoni combinati.

Il Loeb Boathouse si riempie all’improvviso di gente elegante. Persone d’affari che hanno finito di lavorare e si ritrovano con gli amici per un drink prima di andare a casa. Alcuni di loro hanno una copia del The New York Times piegata nella tasca esterna della giacca. Francesca Marciano ricorda nitidamente quando il suo nome è stato pubblicato su quel giornale e il suo libro è stato apprezzato da Michiko Kakutani, la terribile critica letteraria americana.

“Non me l’aspettavo che recensisse il libro e lo apprezzasse.” Racconta su Repubblica “Tutti la temono, non si è fatta scrupolo di stroncare scrittori molto importanti. Quando ha telefonato al mio editore americano per chiedere se veramente l’inglese fosse la mia seconda lingua, sono andati tutti nel panico. Io non ci ho dormito la notte e sicuramente non mi aspettavo il suo commento, quel suo: ‘not unlike, cioè non differentemente, da Alice Munro’.

Michiko Kakutani ha recensito il libro di racconti “The Other Language” Isola grande Isola piccola (Bompiani 2014) definendo le storie di Francesca Marciano “magiche e veloci che passano da Roma a New York a Mombasa, da un piccolo villaggio greco a un’isola remota al largo della Tanzania a una fortezza sulle rive del fiume Narmada in India.” Sottolinea come per i personaggi del libro, viaggiare – o trasferirsi in un’altra città o paese, in un’altra cultura – è un modo per reinventarsi, per scrollarsi di dosso un’identità e provare qualcosa di incantevolmente esotico o solo vagamente nuovo. “Marciano ci fa vedere che queste azioni apparentemente impulsive sono in realtà radicate nell’accumulo, nel corso degli anni, di una miriade di piccoli e grandi risentimenti, e di tracciati e ripercussioni di dipendenze e modelli infelici.”

Nel 2021 viene pubblicato Animal Spirit (Mondadori, 2021) una raccolta di sei racconti attraversati, illuminati – talvolta infestati – dalla presenza animale. Le protagoniste sono principalmente donne che si trovano ad affrontare una scelta, un bivio cruciale che cambierà la loro vita: relazioni clandestine che terminano dolorosamente, eventi che riportano a galla dolorosi e traumatici ricordi del passato, vacanze che cambiano di segno e aprono a nuove avventure.

La redazione di Radio Città Fujiko ha sottolineato come “le storie, seppur piene di difficoltà, hanno tutte una risoluzione, un battito d’ali che ci riconduce fuori e rende liberi: ed è proprio questa ritrovata connessione con il mondo e la natura che diventa salvifica e ci fa splendere di nuovo.”

Adesso il sole è basso all’orizzonte. La luce del tramonto è dappertutto, violenta e fluente, violacea e stupenda. Francesca Marciano si alza dalla sedia del Loeb Boathouse. È il momento di tornare a scrivere.

LA VOCE DI NEW YORK



martedì 14 giugno 2022

Michael Cunningham / New York non è più una città per scrittori

 

Michael Cunningham


Michael Cunningham: New York non è più una città per scrittori

Il Premio Pulitzer convertito alla letteratura leggendo "La signora Dalloway" di Virginia Woolf


Housing Works Bookstore, New York. Oggi, metà pomeriggio. Il sole verso ovest si riversa dalla finestra, Michael Cunningham è seduto davanti a uno dei racconti dei suoi studenti della Yale University. Finisce di correggerlo e si passa una mano sugli occhi stanchi. Quando li riapre nota una ragazza che cammina verso la cassa nel silenzio della libreria. Dopo poco si rende conto che ha un libro in mano. Non uno qualsiasi ma La signora Dalloway, il primo grande libro della sua vita.

Appoggia il mento sulla mano e ripensa a quando aveva quindici anni: era uno studente non molto promettente in un liceo pubblico della California meridionale che leggeva i libri che gli venivano fatti leggere e pensava che la letteratura fosse una forma d’arte in via di estinzione. Un giorno era fuori a fumare una sigaretta e all’improvviso si ritrovò accanto alla reginetta della scuola. Era bella, cattiva e intelligente, aveva lunghe unghie rosse e lunghi capelli lisci. Si ritrovò accanto a lei e pensò: “Ragiona in fretta, sii intelligente, profondo, dille qualcosa che ti farà amare per sempre”. Così le parlò delle canzoni di Bob Dylan e Leonard Cohen.

Lei lo fisso, aspirò l’intera Marlboro in una sola tirata, esalò un’immensa nuvola di fumo e disse: “Beh, sì, sono molto bravi, ma cosa ne pensi di T. S. Eliot e Virginia Woolf?”. Il giovanissimo Michael Cunningham aveva sentito parlare dei due scrittori e sapeva che Virginia Woolf era molto alta, pazza, che viveva in un faro e si era buttata nell’oceano, ma non si sarebbe mai aspettato di dover leggere nessuno dei due. Andò in biblioteca, non avevano nulla su Eliot, ma avevano un libro della Woolf, La signora Dalloway. Lo prese e lo portò a casa. “Cercai di leggerlo e non capii cosa stesse succedendo” – ricorda a un incontro del PEN. “All’improvviso capii la profondità e la densità, e le frasi, e si accese una piccola luce nel mio stupido cranio…”

Michael Cunningham at the bookstore Akateeminen kirjakauppa in Helsinki, Finland (Anneli Salo, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons)

La signora Dalloway di Virginia Woolf è un romanzo rivoluzionario di grande portata e profondità che racconta una giornata nella vita di una donna che sbriga alcune commissioni, vede un vecchio corteggiatore e dà una festa noiosa. È un capolavoro creato a partire dai materiali narrativi più umili. Lo adora perché la Woolf è stata tra i primi scrittori a capire che non esistono vite insignificanti, ma solo modi inadeguati di guardarle. In La signora Dalloway, la Woolf insiste sul principio che un singolo giorno, esteriormente ordinario, nella vita di una donna di nome Clarissa Dalloway, contiene praticamente tutto quello che c’è da sapere sulla vita umana, più o meno come quasi ogni cellula contiene la totalità del DNA di un organismo.

Micheal Cunningham sorride. È grazie a Virginia Woolf che ha vinto il Pulitzer. Decide di fare una pausa ed esce a prendere aria. Il sole luccica, ormai basso in cielo. Una barra di luce taglia l’entrata della libreria fino alla cassa. Lui prende una sigaretta e la batte sul braccio per condensarla.

È cresciuto a Cincinnati, nell’Ohio, ma è fuggito sulla costa occidentale per studiare letteratura all’Università di Stanford e poi un master presso l’Università dell’Iowa nel 1980. Cunningham ha ricevuto diverse sovvenzioni per il suo lavoro. Nel 1984 viene pubblicato il suo romanzo d’esordio Golden States, un romanzo che racconta alcune settimane della vita di un ragazzo di dodici anni. In un’intervista con Others Voices, spiega: “Sentivo di non aver scritto il libro che volevo e non ne ero felice”.

Nel 1990 Cunningham pubblicò cosi un altro libro: A home at the end of the world (Una casa alla fine del mondo, Bompiani, traduzione di Ettore Capriolo, 2003). La storia di un triangolo amoroso tra due uomini gay e la loro comune amica donna, il romanzo regala un’interpretazione innovativa della famiglia non tradizionale. Anche se non è stato pubblicato con grande clamore, l’opera ha attirato recensioni impressionanti che hanno immediatamente riconosciuto il dono di Cunningham nell’usare il linguaggio per definire le voci dei suoi personaggi e delineare le loro motivazioni.

Michael Cunningham (Ph: David Shankbone)

David Kaufman ha notato lo “squisito modo di usare le parole e… la sua sorprendente felicità nel trasmettere sia i suoi personaggi che la loro storia”, e ha osservato che “questo è semplicemente uno di quei rari romanzi impregnati di intuizioni aggraziate in ogni pagina”.  Da questo libro è stato tratto un film omonimo per la regia di Michael Mayer con Colin Farrell, Dallas Roberts e Robin Wright Penn.

Due anni dopo pubblica Flesh and Blood (Carne e sangue, Bompiani, tradotto da Ettore Capriolo), la storia della disfunzionale famiglia degli Stassos dalle radici al futuro incerto dei figli. Il New York Times Book Review ha osservato che “il signor Cunningham azzecca tutte le piccole cose…. ma anche quelle importanti. Perché il cuore della storia non sta nei riferimenti nostalgici, ma nelle complesse relazioni tra genitori e figli, tra fratelli, amici e amanti”.

Micheal Cunningham sospira, poi avvicina la sigaretta alle labbra. Aspira la prima boccata poi alza il mento e soffia una nuvola di fumo verso il tramonto.

Nel 1998 viene pubblicato The Hours (Le Ore, Bompiani, traduzione di Ivan Cotroneo). Il libro racconta tre storie di tre donne collegate alla Woolf. La prima è proprio Virginia Woolf, che l’autore descrive confinata nella sonnacchiosa Richmond per tenere sotto controllo la schizofrenia. La seconda è Laura Brown, una casalinga americana della Los Angeles degli anni ’40 che ha appena cominciato a leggere il romanzo ed è intrappolata da una società che si aspetta che annulli sé stessa in nome del marito, dei figli, e della casa. La terza è Clarissa Vaughan, che vive nella Greenwich Village degli anni ’80 e sta organizzando una festa per l’amico Richard, malato di AIDS allo stadio terminale.

Dell’ambizioso progetto di Cunningham, USA Today ha scritto: “The Hours è una combinazione rara: un’incredibile forza letteraria e un’esperienza di lettura assolutamente rinvigorente. Se questo libro non vi fa saltare in piedi dal divano, guardando alla vita e alla letteratura in modi nuovi, controllate se avete il polso della situazione”. The Hours ha vinto sia il Premio Pulitzer che il PEN/Faulkner Award per la narrativa ed è stato adattato in un film di grande successo, diretto dal regista inglese Stephen Daldry e interpretato da Meryl Streep, Julianne Moore e Nicole Kidman.

Dopo il successo di The Hours, Cunningham si è dedicato a un progetto più tranquillo, l’omaggio/viaggio Land’s End: A Walk Through Provincetown. (Dove la terra finisce, Una passeggiata per Provincetown, Bompiani, traduzione Ivan Cotroneo, 2003).

Micheal Cunningham spegne la sigaretta sul muro, la brace esplode in pezzetti rossi che si frantumano a contatto con i mattoni. Entra in libreria e getta il mozzicone nell’indifferenziata. Prima di tornare al suo posto nota l’insegna di una sessione letteraria, quella gay. Scuote il capo e si avvicina. Ci sono tutti i suoi libri, anche i suoi ultimi quattro: Specimen Days (2005) By Nightfall (2010) , The Snow Queen (2014) e A Wild Swan and Other Tales (2015).

Specimen Days (Giorni Memorabili, Nave di Teseo. Tradotto da Ivan Cotroneo) è un romanzo con tre storie: una che si svolge nel passato, una nel presente e una nel futuro. Ognuna è caratterizzata dagli stessi personaggi, alcuni come protagonisti altri come comparse. La poesia di Walt Whitman è un filo conduttore in ognuno dei tre racconti, e il titolo è tratto dalle opere in prosa dello stesso Whitman.

By Nightfall (Al limite della notte, Bompiani, tradotto da Andrea Silvestri, 2011) racconta di Peter e sua moglie Rebecca, direttrice di una rivista d’arte di medio livello, che vivono a Manhattan, ma la loro stabile esistenza viene sconvolta dall’arrivo del fratello molto più giovane di Rebecca, Ethan, un tossicodipendente.

The Snow Queen (La Regina delle Nevi, Bompiani, tradotto da Andrea Silvestri) racconta dei fratelli Tyler, un musicista che vuole scrivere una canzone d’amore alla fidanzata che sta per morire, e Barrett, che camminando per Central Park vede una luce pallida e divina e si butta a capofitto nel misticismo.

A Wild Swan and Other Tales, (Un cigno selvatico, La nave di Teseo. Traduzione di Carlo Prosperi) che racconta i momenti delle fiabe dimenticati o deliberatamente nascosti, illustrati da Yuko Shimizu.

Un ragazzo legge in un parco pubblico di New York, estate 2021 (Foto di Terry W. Sanders)

Micheal Cunningham smuove il capo. Ha sempre odiato la definizione di letteratura gay. Lui preferirebbe una “narrativa post-gay”, come la descrive in una recente intervista al Chicago Tribune,  quella in cui sia il sesso che la sessualità sono solo sfaccettature della vita dei personaggi. “Non ho mai scritto, né ho intenzione di scrivere, un romanzo in cui tutti i personaggi sono gay. E non ho mai scritto, né ho intenzione di scrivere, un personaggio la cui sessualità sia la cosa più importante di lui o lei”, sbuffa.

Ha fatto outing e la maggior parte dei suoi romanzi riguarda la vita di persone gay. “Ma quello che non ho mai voluto era essere spinto in una nicchia”, racconta a Out“Non volevo che gli aspetti gay dei miei libri fossero percepiti come la loro unica e principale caratteristica. Come ogni scrittore che si rispetti, cerco di scrivere di qualcosa di più delle qualità esteriori dei miei personaggi e di concentrarmi sulla profondità dei loro esseri, sulle loro paure e sulle loro devozioni, che hanno luogo a un livello più profondo dell’orientamento sessuale. Gli omosessuali si innamorano e si disinnamorano, per esempio, in modi che non sono del tutto estranei a quelli degli etero. Ci sono ovviamente delle differenze reali nel modo in cui i gay vivono e in quello che sperimentano, ma non veniamo da Marte.”

“Ho imparato però ad accettarlo”, ammette al Guardian“lo accetto usando l’ironia. Rido infatti quando mi chiedono se gli uomini gay, e per estensione gli scrittori gay, siano più sensibili di quelli etero. Rispondo sempre: datemi un’ora, posso far venire qui dieci uomini gay di un’insensibilità così schiacciante che quell’idea vi uscirà per sempre dalla testa”.

Sorride. Si volta, torna al suo posto, e riprende a lavorare sui racconti dei suoi studenti della Yale University. La Lambda Literary  gli chiese se New York fosse ancora una città per scrittori. Lui ha risposto senza indugio di no. “New York è diventata davvero troppo cara per gli scrittori. Voglio dire, se volessi davvero vivere a New York, dovresti vivere a New York, ma non per promuovere la tua scrittura. Essere lì, fisicamente, non fa alcuna differenza. Gli scrittori, come chiunque altro, dovrebbero vivere, se possibile, dove vogliono vivere di più.”

LA VOCE DI NEW YORK