venerdì 28 ottobre 2022

Durante la Guerra Fredda, gli intellettuali latinoamericani hanno trovato rifugio nella Praga comunista

 

Lo scrittore brasiliano Jorge Amado, suo figlio (il quarto a partire da sinistra) e il giornalista e drammaturgo ceco Jan Drda (il primo a partire da sinistra), a Dobříš, in un castello della Repubblica Ceca utilizzato come residenza per scrittori cechi e internazionali, in 1950. Foto tratta dall'archivio di Paloma Amado, usata dietro autorizzazione.

Durante la Guerra Fredda, gli intellettuali latinoamericani hanno trovato rifugio nella Praga comunista

Prima della COVID-19, Praga veniva visitata ogni anno da milioni di turisti in cerca di birra a basso costo e architettura mozzafiato [en]. Però, negli anni 50, la capitale dell'allora Cecoslovacchia attraeva una platea di viaggiatori molto diversa: gli intellettuali di sinistra di tutto il mondo, curiosi di vedere com'era la vita sotto il regime socialista.

Molti di quei turisti politici arrivavano dall'America Latina, includendo giganti letterari come Jorge Amado [it, come tutti i link successivi, salvo diversa indicazione] e Gabriel García Márquez. Questo passato condiviso, dimenticato da tempo, sta tornando lentamente ad essere riscoperto e rivalutato in Repubblica Ceca. 

Mentre si svolgeva la Guerra Fredda, sia l'Occidente che l'Unione Sovietica erano impegnati in intense attività propagandistiche per dimostrare la superiorità dei propri sistemi politici e socio-economici, solitamente rivolgendosi a destinatari in Asia, Africa, Medio Oriente e America Latina. Ed entrambe le parti ritenevano l'arte un mezzo efficace per trasmettere il messaggio.

Nell'URSS, la Società di tutte le Unioni per le Relazioni Culturali con i Paesi Esteri, oppure VOKS [en], che sta per la sua abbreviazione in russo, aveva la missione di invitare pubblici intellettuali e scrittori da tutto il mondo non solo in Unione Sovietica, ma anche in altri paesi socialisti, riguardo ai quali questi venivano incoraggiati a scrivere

La Cecoslovacchia, una nazione che si è unita al Blocco Orientale nel 1948 dopo che il suo Partito Comunista aveva orchestrato un colpo di stato, rappresentava una delle possibili destinazioni. Oltre a Jorge Amado e Gabriel García Márquez, il paese accolse scrittori da Argentina (Raúl González Tuñón), Brasile (Graciliano Ramos), Cile (Ricardo Latcham, Pablo Neruda), Cuba (Nicolás Guillén) e Messico (Efraín Huerta, Luis Suárez). Alcuni viaggiavano soli, altri facevano parte di delegazioni più numerose.

Dunque Praga diventò in quei tempi un polo culturale di sinistra, radunando sia gli scrittori progressisti  nascenti che quelli affermati, come il turco Nazım Hikmet e il sovietico Ilya Ehrenburg.

Pablo Neruda, in effetti, potrebbe aver tratto il suo nome d'arte dallo scrittore, poeta e giornalista ceco del XIX secolo Jan Neruda (il poeta cileno era nato come Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto). Lui non lo ammise mai, ma le foto che lo ritraggono mentre passeggia per via Neruda a Praga, o in posa davanti a ristoranti e pub con il nome “Neruda”, offrono terreno fertile per la speculazione.

Michal Zourek, foto usata dietro autorizzazione.

Global Voices ha parlato con Michal Zourek, un accademico ceco che si è concentrato sullo studio dei legami tra il Blocco Orientale e l'America Latina. Zourek, autore del libro pubblicato nel 2018 “Československo očima latinskoamerických intelektuálů 1947-1959” (“La Cecoslovacchia attraverso gli occhi degli intellettuali latino-americani dal 1947 to 1959″, che è stato pubblicato anche in spagnolo), spiega cos'ha motivato questi intellettuali ad accettare un invito del genere [cs]: 


 In America Latina c'erano svariati di regimi autoritari che reprimevano in massa i diritti umani, sostenendo che c'era bisogno di eliminare le forze sovversive di sinistra. Questo è il motivo per cui gli artisti latino-americani a favore dell'ideologia comunista ricevevano sostegno materiale e morale dall'Europa dell'est. Per quanto riguarda le testimonianze dei loro viaggi, i testi scritti negli anni '40 e '50 sono generalmente ricchi di entusiasmo. È evidente che certi aspetti [delle società socialiste] hanno fatto una buona impressione a quegli intellettuali provenienti da paesi in via di sviluppo, in particolare lo stato della scena culturale nell'Est Europa. Ci sono molte menzioni riguardo all'alta qualità di opere teatrali, scuole, infrastrutture e biblioteche comunali, e riguardo all'alto livello di educazione della popolazione.

Zourek prosegue spiegando come Praga e Mosca rappresentassero un luogo sicuro per far sì che quegli intellettuali potessero mettersi in contatto tra loro e incontrarsi. “Non era raro che famosi intellettuali provenienti dall'America Latina si incontrassero per la prima volta nell'Est Europa” afferma Zourek. “Nei loro paesi d'origine questo non era possibile, perché i governi autoritari e anti-comunisti del posto semplicemente non lo permettevano”.

L'Europa dell'Est, sostiene Zourek, ha giocato un ruolo fondamentale nella letteratura latino-americana — se non fosse stato per il movimento internazionale comunista, probabilmente la mitica generazione di scrittori degli anni '60 non sarebbe stata così influente, tantomeno in Occidente. “Fu pubblicato un numero elevatissimo di copie delle opere degli autori in questione [in ceco, polacco o russo], numero molto più alto rispetto alle copie pubblicate nella loro lingua madre. Tutto questo accadde dietro la Cortina di Ferro”, ha affermato.

Busto di Pablo Neruda nel centro di Praga. Foto di Kenyh tratta da Wikipedia, utilizzato dietro licenza CC BY-SA  3.0.

Una terra promessa?

Quando visitavano Praga o altri luoghi in Cecoslovacchia, gli intellettuali di sinistra, che erano soprattutto uomini, venivano trattati come dei VIP: risiedevano in hotel di lusso, non sostenevano alcuna spesa e avevano libero accesso a guide bilingue, ricevevano remunerazioni per i loro scritti e infine facevano tradurre le loro opere in ceco e slovacco.

Coloro ai quali venivano messe a disposizione delle residenze per scrivere alloggiavano per lunghi periodi di tempo, in particolare, nel castello di Dobříš [cs], sede dell'unione degli scrittori cecoslovacchi dagli anni '40 agli anni '90. Alcuni sono rimasti nel castello anche più a lungo, in quanto avevano ottenuto asilo politico.

Come ci spiega Zourek [cs]:


Questi scrittori si facevano pagare le spese di viaggio e durante il loro itinerario, studiato nei minimi dettagli, veniva offerto loro di vedere soltanto gli aspetti più ideali della vita locale. In cambio, gli ospiti stranieri avrebbero diffuso le loro impressioni positive tramite diari di viaggio, articoli e convegni. Questo fenomeno del “turismo politico” è stato l'elemento chiave della propaganda Sovietica, una strategia ben pianificata, che iniziò subito dopo la rivoluzione russa del 1917. Un ruolo di primo piano fu assegnato agli intellettuali che l'Unione Sovietica voleva avere al proprio fianco, per poterli usare in seguito nello scontro ideologico con l'Occidente.

Jorge Amado (a sinistra) e Nicolás Guillén (a destra) sulla strada per la Cina in una stazione ferroviaria dell'URSS, gennaio 1952. Foto dall'archivio di Paloma Amado, usata dietro autorizzazione.

Un'eccezione interessante in questa visione e descrizione idealizzata è Gabriel García Márquez, Il premio Nobel Colombiano laureato in letteratura che visitò la Germania dell'Est, La Cecoslovacchia, la Polonia, l'Ungheria e l'URSS nel 1955 e nel 1957. Fece questo viaggio in parte da solo e, quando veniva invitato ufficialmente, trovava modi per aggirare il programma ufficiale, in modo tale da poter raccogliere informazioni per conto proprio. Nel suo libro, “De viaje por Europa del Este” [en] (“Viaggio attraverso l'Europa dell'Est”), Márquez fornisce una descrizione ch presenta molte più sfumature. Il primo capitolo del libro descrive la Germania dell'Est con termini poco lusinghieri, come nella scena in cui Márquez entra in un ristorante per fare colazione: “quello che le persone mangiavano a colazione era l'equivalente di un pasto intero nel resto dell'Europa [Occidentale] ed era molto più economico. Quelle persone, però, apparivano distrutte e amareggiate, mentre mangiavano porzioni enormi di carne e uova fritte senza alcuna gioia”. In un altro capitolo su Mosca, lo scrittore parla del taboo del culto della personalità di Stalin, citando la sua guida russa che dice: “Se Stalin fosse ancora vivo [morì nel 1953], saremmo vissuti nel Terzo Mondo. Stalin fu la figura più sanguinaria, rancorosa ed egocentrica nella storia russa.”

Gabriel García Márquez (primo a partire da sinistra) nella Piazza Rossa a Mosca, agosto 1957. Foto dall'archivio di Michal Zourek, usata dietro autorizzazione.

Un patrimonio riscoperto per il popolo ceco

In Cecoslovacchia, il comunismo terminò nell'autunno del 1989, e negli stati successori, ovvero Slovacchia e Repubblica Ceca, il passato socialista è solitamente ricordato come un periodo oscuro di violazione dei diritti umani, restrizioni di viaggio e obbedienza forzata verso Mosca.

Tale punto di vista determina l'approccio degli storici cechi e slovacchi verso gli intellettuali di sinistra che visitarono il paese durante quel periodo. Come Zourek, che ha studiato in Repubblica Ceca e in Argentina, osserva [cs]:


Durante i miei studi all'università, ho più volte sentito menzionare il fatto che Pablo Neruda e Jorge Amado fossero vissuti in Cecoslovacchia, ma non pensavo che questo fosse un fenomeno così importante e che entrambi i paesi avessero un legame del genere anche prima della Rivoluzione Cubana [1959]. Questo è forse dovuto al disprezzo con cui ci si riferisce a quegli autori [in Repubblica Ceca e Slovacchia]: molti li considerano idealisti, oppure i soliti idioti che, con le loro visite, sostenevano regimi impegnati in violenze e persecuzioni. La questione è certamente molto più complessa.

Mentre quegli autori sono stati a lungo celebrati nei loro paesi d'origine in America Latina, soltanto adesso la loro eredità sta risalendo in superficie nella storia della Repubblica Ceca. Il diario di viaggio di Marquez è stato tradotto in ceco per la prima volta ne 2018 (“Devadesát dnů za železnou oponou“) [cs], mentre gli altri rimangono in gran parte sconosciuti.

Zourek condivide la sua esperienza personale per spiegare perché il processo di rivalutazione è così difficile [cs]:


Subito dopo la scuola secondaria, ho visitato il Cile, dove l'università era piena di bandiere sovietiche, ritratti di Lenin, dove nelle librerie si vendevano le opere di Marx ed Engels. Pensavo che quell'ideologia fosse morta, e non riuscivo a capire come qualcuno potesse ammirare quelle idee criminali che limitavano la libertà di espressione, che impedivano alle persone di frequentare l'università, di realizzare i propri sogni. Questa posizione antagonista tra i due paesi nei confronti del comunismo è dovuta in gran parte alla diversa esperienza storica. Questo è il motivo per cui io penso che quando diamo un giudizio sul comunismo, dobbiamo separare noi stessi dalla nostra storia ed esperienza personale, che spesso non ci permette di vedere questo fenomeno transnazionale in tutte le sue diversità. Sfortunatamente, questa diversificazione ancora non si sta verificando per molti storici cechi. Non penso sia una sorpresa che le persone nei paesi in via di sviluppo siano più interessate alle politiche della Cecoslovacchia comunista che ai loro compagni in Repubblica Ceca. Questo è iniziato a cambiare leggermente negli ultimi anni e penso che sia grazie alla graduale rivalutazione del periodo comunista da parte del popolo ceco. Credo che negli anni a venire vedremo una serie di opere che dimostrano che la Cecoslovacchia comunista fece cose degne di nota nei paesi in via di sviluppo, che vennero per lo più abbandonate dopo il 1989, per esempio quelle nell'ambito della cultura.

GLOBAL VOICES

mercoledì 26 ottobre 2022

Dave Eggers, l’ex genio da citare per essere "in"

 

Dave Eggers


Dave Eggers, l’ex genio da citare per essere "in"


Osannato e riverito dagli Stati Uniti all'Europa, in realtà è più pubblicizzato che letto: un "caso" editoriale. Se il nuovo romanzo Le creature selvagge fosse arrivato anonimo a un qualsiasi editor, sarebbe stato cestinato


Gian Paolo Serino
27 Ottobre 2009 - 09:42

Se non è vietato è obbligatorio: è il titolo di un racconto di Dave Eggers, pubblicato da minimum fax, e potremmo adottarlo per sintetizzare al massimo il ruolo dello scrittore americano alle nostre latitudini culturali. L’autore di romanzi come L’opera struggente di un formidabile genio, di Conoscerete la nostra velocità o del nuovo Le creature selvagge (questi ultimi tutti editi da Mondadori) è uno scrittore che anche in Italia è diventato di culto. Di quegli autori che è impossibile evitare se non si vuole rimanere esclusi dai salotti letterari, soprattutto virtuali, e dal chiacchiericcio delle adunate editoriali più chic che radical. È il tipico esempio estero di autore radical flop: tutti ne parlano, ma chi lo legge?

L’esordio da «formidabile genio», romanzo salutato dalla critica come un capolavoro, in realtà non è nulla più di una sorta di Che Guevara dell’upper class: un eroe che parte dalla tristezza di un evento autobiografico (?), la perdita di entrambi i genitori, per scoprire on the road tutte le ombre del «sogno americano». Indubbiamente qualcosa di già letto, dai tempi di Cheever, Yates, Gaddis per non parlare di Carver o Ellis.

Dave Eggers ha avuto l’abilità di trasformare un naufragio in un’odissea. Impresa non da poco, certo, ma nemmeno così potente da farne, come scrisse Zadie Smith, «un libro meraviglioso: le cose nel mondo degli scrittori americani non saranno più le stesse». Il panorama, a quasi dieci anni da quel debutto, non appare molto cambiato, anzi. L’impressione è che Eggers sia l'ennesimo caso di genio a (s)comparsa: più commentato che letto, più cool che capace di lasciare delle tracce nella narrativa non solo americana. A confermarlo è anche questo Le creature selvagge, appena pubblicato da Mondadori (pp. 236, euro 17): se fosse arrivato sulla scrivania di un editor come manoscritto di un anonimo esordiente è forte il dubbio che il passaggio al cestino sarebbe stato quasi immediato. Non che sia illeggibile ma per tutto il romanzo la domanda che si pone il lettore è delle più semplici: e quindi? L’idea di scrivere «una favola» che diventa metafora dei nostri tempi spesso «selvaggi» lascia il tempo che trova: molto meglio, e geniale, una puntata dei Simpson che leggere le disavventure del protagonista, il bambino Max mandato a letto per punizione dalla mamma e costretto a inventarsi un mondo popolato di «esseri mostruosi» di cui presto diventa il Re. L’aria più che di una favola è quella della parabola (postmoderna?), metafora per farci comprendere che in «ognuno di noi c’è una creatura selvaggia».

E se nei libri precedenti - ridondanti di cliché solo in apparenza «contro» ma in realtà ai confini delle più miti delle ribellioni giovanili - la lettura poteva anche essere interessante, in quest’ultima prova narrativa Dave Eggers getta la maschera. Poche, pochissime, le pagine di un qualche minimo spessore: sa tutto di maledettamente edulcorato, di rivolta dalla parte del silenzio. Una satira solo in apparenza feroce sul nostro mondo (in) folle: in realtà una parodia da apocalittico e integrato. Perché Le creature selvagge dimostra come Eggers da genio a (s)comparsa si sia trasformato in genio compres(s)o nel prezzo: un Giovane Holding che spara a salve contro le anatre nel parchetto dietro casa. Più che un romanziere contemporaneo dimostra di essere un utensile semiotico. Uno scrittore egocompatibile che ha più meriti editoriali che narrativi. La rivista McSweeeney’s, ad esempio, è davvero tra le riviste letterarie americane più interessanti: fondata e diretta proprio da Eggers, come l’omonima casa editrice, è qualcosa capace di andare oltre lo sperimentalismo e la polvere dell’accademia. Come narratore, invece, affermare che sia sopravvalutato è già un complimento. Infatti più che lettori ha fan, più che appassionati ha supporter. Logico, quindi, leggere che per Eggers «Alessandro Baricco è uno dei migliori scrittori viventi». Alessandro Baricco tra «i migliori scrittori viventi»? Qualcosa non funziona.

Ma la prova empirica è semplice: basta leggere Le creature selvagge. Voleva essere una favola socialmente estremizzata contro le disfunzioni di un Sistema che crolla e il risultato è una (p)resa sociologica da cartoon.

L’impressione è che Dave Eggers, come molti altri autori contemporanei, si trovi davvero a proprio agio nello scrivere. E questo è il peggior male per uno scrittore. Perché come annotava Kafka nei suoi Diari «Quando mi siedo al tavolo di lavoro mi sento come uno che fosse appena caduto sulla piazza dell’Opera in pieno traffico rompendosi le gambe». Non si pretende che la metafora di Kafka sia comprensibile a tutti. Ma almeno chi può, come potrebbe Eggers, non la dimentichi. Sarebbe selvaggio.


IL GIORNALE




venerdì 21 ottobre 2022

Gli inferni quotidiani di Lucia Berlin

 

Lucia Berlin

Gli inferni quotidiani di Lucia Berlin

Un'americanissima raccolta di racconti che fanno a pugni con la vita

Gian Paolo Serino
28 Novembre 2018



È una lunga e indocile «sera in paradiso» quella che descrive Lucia Berlin (19362004) nei suoi racconti, che hanno molto di autobiografico: la scrittrice americana, paragonata a maestri della short story come Alice Munro e Raymond Carver, racconta infatti di inferni quotidiani capaci di diventare storie di interni domestici dove la vita sembra spesso uscire dalle feritoie dell'esistenza

Protagonisti sono emarginati, alcolisti, scrittori, musicisti, donne abbandonate (d)a se stesse: ambienti dell'animo umano che Lucia Berlin ha frequentato per quasi tutta la vita.

Lucia Berlin è stata insegnante precaria, centralinista telefonica, donna delle pulizie, ha conosciuto la miseria come la ricchezza. Ha avuto quattro figli da tre uomini diversi, ha vissuto la New York del Greenwich Village degli anni Sessanta, ha abitato in una comune hippy a Berkeley e girovagato per gli Stati Uniti su un camper. Segnata dal demone dell'alcolismo, morta nel 2004 attaccata a una bombola dell'ossigeno che le permetteva di respirare, è stata riscoperta solo quattro anni fa grazie alla scrittrice Lydia Davis che fece scoprire agli americani la raccolta La donna che scriveva racconti: in Italia è stata pubblicata tre anni fa da Bollati Boringhieri diventando anche grazie al passaparola dei lettori un libro di culto. Vincitrice del «National Book Award» nel 1991 (con la raccolta inedita Homestick) torna ora in libreria con Sera in Paradiso (Bollati Boringhieri, pagg. 268, euro 18): ventidue racconti che graffiano sul vetro della vita, quasi tutti autobiografici anche se Lucia Berlin ha la rara capacità di renderli universali. Storie che appartengono a tutti noi, ed è questa la magia della grande letteratura alla quale appartiene di diritto. Sono storie di amori perduti, rincorsi, sognati, sono racconti su esistenze apparentemente alla deriva (musicisti, alcolisti, vicini di casa anonimi chiusi nel loro silenzio delle parti, attrici fallite, gigolò) ma che ritrovano la propria dignità proprio grazie alla scrittura dell'autrice. Una scrittura che non mira all'osso ma al midollo, capace di slanci um
oristici, quasi comici, pur affrontando spesso storie di mai ordinaria violenza.

IL GIORNALE




FICCIONES

Cuentos
Lucia Berlin / Manual para mujeres de la limpieza
Lucia Berlin / Inmanejable
Lucia Berlin / Espera un momento

DRAGON
The 10 Best Short Story Collections of the Decade
Lucia Berlin / Lost in the Louvre
Evening in Paradise / More Stories by Lucia Berlin / Review
Lucia Berlin’s Harrowing, Radiant Fiction
Lucia Berlin / Memories of Mexico
The Short Autofictions of Eve Babitz, Lucia Berlin and Bette Howland
Smoking with Lucia Berlin by Elizabeth Geoghegan
A Manual For Cleaning Women by Lucia Berlin

DANTE
Storie di sante / Lucia Berlin e Eileen Myles


mercoledì 19 ottobre 2022

Richard Wright / Quando l'antirazzismo era roba seria

 

Richard Wright

Richard Wright

Quando l'antirazzismo era roba seria

I racconti di Richard Wright ci riportano alle radici dei conflitti che dilaniano gli Usa


Gian Paolo Serino

24 Novembre 2020 - 09:03


«Una società destinata sempre a una guerra contro se stessa»: è quella ritratta, quasi profeticamente se pensiamo alla situazione politica incerta che infiamma da mesi gli Stati Uniti, da Richard Wright, uno dei giganti della letteratura americana del '900. Lo scrittore già autore del longseller Black Boy (tradotto in Italia da Einaudi con il titolo Ragazzo Negro ) e dei celebri I figli dello Zio Tom fotografa questa realtà di conflitti razziali sottopelle in Otto Uomini, racconti pubblicati nel 1961, soltanto ora tradotti in Italia e nelle librerie da giovedì per la casa editrice Racconti Edizioni.

In queste prose brevi del quale diamo in anteprima assoluta uno stralcio- il fanatismo è da entrambe le parti: la società bianca e la società nera. Non siamo più ai livelli degli anni '60, ancora in forte atmosfera di segregazione, ma Wright riesce a raccontarci incredibilmente proprio l'oggi: perché da sempre, pur «usando le parole come armi», è stato molte volte accusato di non essere uno scrittore militante e un attivista per i diritti dei neri perché troppo borghese. Richard Wright è uno scrittore più esistenzialista e questo lo si comprende a ogni sua pagina anche di questi racconti che sono la sua ultima opera in vita e pubblicati postumi (nato nel 1908 a Natchez, Mississippi, è morto a Parigi nel 1960).


Ci racconta già tutte le contraddizioni che animano la società americana di oggi: un adolescente che compra un'arma per sentirsi più adulto, un disoccupato costretto a inventarsi qualsiasi stratagemma per pagare le rate del mutuo e tanti altri uomini condannati a essere se stessi più dalle proprie ombre che dal colore della pelle. Otto racconti che stravolgono la scrittura afroamericana come si era sviluppata sino a quei tempi (da Ralph Ellison a James Baldwin) e che ci ricordano da vicino l'immersione nel reale alla Sherwood Anderson, tanto da essere ammirato anche da Gertude Stein la scrittrice che lo volle nel suo buon rifugio di scrittori a Parigi.

Uno scrittore raro, che ha molto lottato contro la strumentalizzazione del razzismo da parte del Partito Comunista Americano. Strumentalizzazione ancor oggi attualissima e che Wright riesce a far sgretolare più di mille discorsi.



lunedì 17 ottobre 2022

Bette Howland che ha ritrovato il sogno americano fra i derelitti

 

Bette Howland


Bette Howland che ha ritrovato il sogno americano fra i derelitti

"Storie di vite diverse" sono racconti di ordinaria follia. Inclusa quella dell'autrice, grande dimenticata della letteratura Usa con Lucia Berlin


Gian Paolo Serino

17 Febbraio 2022 - 08:49


Dimenticata per anni dagli editori e dai lettori americani, è stata finalmente riscoperta Bette Howland (1937-2017), scrittrice che ha in comune con Lucia Berlin l'oblio e la grandiosità di scrittura: in Italia hanno appena pubblicato Storie di vite diverse (Sem, pagg. 408, euro 19, traduzione di Tiziana Lo Porto). Undici racconti che sono graffi sul vetro della vita, frammenti di esistenze al limite della nostra ordinaria follia: radiografie di una società dove «la soluzione all'isolamento è più isolamento», dove gli interni domestici diventano spesso inferni di vite arredate da un sogno americano ridotto a stracci.

Sono esterni di case alla periferia di ogni metropoli, in questo caso Chicago, dove dalla ferrovia si vedono bandiere dove ci sono più strisce che stelle, finestre con nastri di cellophane al vento come a dire «questa casa è abitata». Sono scenari, scritti dal 1962 al 1999, raccontati anche da John Cheever, Raymond Carver e anche dalla Lucia Berlin citata all'inizio che ne La donna che scriveva racconti (Bollati Boringhieri) ha la stessa forza nel raccontare esistenze disperate perché sembrano subire la realtà mentre la vivono.

Sia i protagonisti della Howland che di Lucia Berlin hanno creduto in un sistema, hanno creduto ad occhi chiusi nel vero miracolo economico americano: non quello dopo la Grande depressione del 1929, non quello dei favolosi anni '60, ma quello che sul finire degli anni '70 ha promesso centri commerciali a tutti, trasferendo in quei megastore, ristoranti e bowling la vita sociale. Una vita sociale inscatolata, in cattività, mentre tutto attorno i negozi chiudono, le strade sono deserte, le tivù sono accese e le menti sono spente: ognuno nella propria casetta a proteggersi da un nemico che ha il volto efferato di una follia collettiva.

«Sono iniziate ad accadere cose che in passato non sono mai accadute: corpi richiusi nei bagagliai, sparatorie nelle stazioni di servizio, brutali omicidi che finiscono sui giornali di Chicago. Quindi potete immaginare il grande successo che hanno sulla stampa locale abituata alle notizie sulle vendite di torte in chiesa e sui falsi allarmi di incendi».

Perché tutti i racconti sono venati di ironia ed è questa capacità di sorridere davanti ai drammi, anche personali, a rendere Bette Howland un caso unico nella letteratura americana. La sua ironia non cade mai nella satira, nella ferocia, nella caricatura: è sempre misurata anche quando descrive la sua esperienza di ricoverata in un istituto psichiatrico. Per la Howland «la storia è melodia, ma l'arte è nell'improvvisazione, nel dare voce»: come nella Chicago che racconta, e dove è nata, il fraseggio del blues lascia il posto al jazz.

In Italia questi racconti sono stati molto ben accolti dalla critica, peccato che i contenuti e la scrittura siano stati oscurati da articoli dedicati più alla sua storia personale che alla sua bravura. Ci interessa sino ad un certo punto che sia stata l'amante di Saul Bellow, perché non sono i consigli di Bellow ad averle insegnato qualcosa, ma i suoi libri: «Chicago, quella città cupa», come scrive Bellow nella frase di apertura di Le avventure di Augie March ha influito più di mille pettegolezzi. La critica italiana l'ha ridotta, alla fine, ad una comprimaria, ad una amante con il vizio della scrittura mentre Bette Howland è stata una scrittrice con il vizio dell'amante. Il mondo che descrive, sia che stia raccontando della precarietà della classe operaia o dell'ansia ossessionata dal crimine della middle class, è carico di sentimenti potentemente intensi di rabbia, allarme e pietà - sentimenti resi sopportabili dall'intelligenza arguta e piena di risorse di Howland e dalla sua compassione rigorosamente non sentimentale.


Se il romanzo precedente W-3, ad oggi inedito in Italia e di prossima pubblicazione da Sem, è il commovente resoconto del soggiorno di Bette Howland nel reparto psichiatrico di un ospedale dopo aver ingoiato una manciata di sonniferi, tra le pagine di queste Storie ci dice poco della sua vita: è divorziata, ha due figli che vivono con il padre ed è una studentessa laureata all'università. A differenza della maggior parte degli scrittori contemporanei, non ci inonda di particolari intimi al minimo stimolo, ma si sofferma più sulle descrizioni della sua famiglia di indigenti e dei sobborghi operai di Chicago dove alcuni dei suoi parenti ancora vivono: ed è questo a dare un senso vivido del temperamento generosamente reattivo della scrittrice.

Un altro tema centrale è la vecchiaia perché «tutto acquista valore con l'età tranne una vita umana». Sensibile com'è al pathos della vecchiaia, è ammirevolmente insensibile alle sue tentazioni sdolcinate. Nella parte più coinvolgente del libro, un racconto ironico e toccante intitolato Servizi pubblici, ricorda con meravigliosa vitalità comica la biblioteca di quartiere dove una volta aveva un lavoro part-time al banco di consultazione. Qui i vecchi disperati di un quartiere semiabbandonato trovano il loro rifugio. Nella biblioteca, i malati si scervellano instancabilmente sul Dizionario medico, a caccia di parole che nobilitino le proprie sofferenze.

Sebbene Bette Howland scriva dei malati, degli indifesi, dei dimenticati, la sua Chicago è molto diversa dalla cupa vita metropolitana di uno scrittore come Nelson Algren, tra i padri del realismo americano, che ha scritto: «Amare Chicago è come amare una donna dal naso rotto». L'umanità descritta da Bette Howland è deragliata ma è come se tenesse stretta la città in un abbraccio inquieto ma affettuoso, come se fosse lo sfacelo dal quale ripartire per il sogno di una nuova America.


IL GIORNALE




sabato 15 ottobre 2022

“Un movimento partigiano di una nazione partigiana” / La poetessa bielorussa Valzhyna Morte riflette sulle proteste nella sua patria

La poetessa bielorussa Valzhyna Mort. Foto (c): Tanya Kapitonova, usata con il permesso.


“Un movimento partigiano di una nazione partigiana”: la poetessa bielorussa riflette sulle proteste nella sua patria




 

Dopo le elezioni presidenziali i cui risultati sono contestati dall'opposizione e da gran parte della popolazione, gli artisti bielorussi si esprimono per denunciare la violenza da parte dello Stato ed esprimere solidarietà ai manifestanti. Valzhyna Mort, una celebre poetessa bielorussa che vive negli Stati Uniti e scrive in bielorusso e in inglese, ha parlato a Global Voices della sua risposta, delle sue impressioni e di ciò che sta facendo per sensibilizzare l'opinione pubblica.

Valzhyna Mort è l'autrice di due raccolte di poesie, “Factory of Tears” e “Collected Body”. Ha ricevuto la borsa di studio della fondazione Lannan, la borsa di studio Amy Clampitt e il premio Bess Hokins della rivista “Poetry magazine”. Insegna anche alla Cornell University. Il suo secondo libro in lingua bielorussa, “Эпідэмія Ружаў”, [The Rose Epidemic], è uscito nel 2017. Il suo prossimo libro, “Music for the Dead and Resurrected”, sarà pubblicato quest'anno.

L'intervista è stata modificata per renderla più breve.

Ricamo dell'artista bielorussa Rufina Bazlova che raffigura dei bielorussi che sostengono la candidata dell'opposizione Sviatlana Tsihanouskaya. Immagine utilizzata con il permesso.

Filip Noubel (FN): Dopo 26 anni di potere per lo più incontrastato, il presidente bielorusso Alexander Lukashenka affronta ora la più grande sfida al suo governo, tra manifestazioni e scioperi. Perché proprio ora?

Valzhyna Mort (VM): Questo doveva essere un cambio di potere pacifico nel mio paese. Questo momento è durato così tanto perché la gente non voleva la violenza. Noi bielorussi, che abbiamo sopportato molte guerre, diremmo a noi stessi: “Sopportiamo ancora un po’. Nessuna rivoluzione vale una vita umana”.

Quest'anno, quando i candidati presidenziali sono stati imprigionati e dichiarati criminali durante la notte, la gente è stata commossa dalla chiarezza di quanto sia debole e patetico il nostro governo. I bielorussi non devono fare nulla per far sì che il loro governo li tema, basta semplicemente esistere. La polizia antisommossa e le truppe del Ministero dell'Interno commettono violenza contro persone indifese. È cominciata con persone che sono state picchiate e arrestate per aver fatto un segno di vittoria mentre andavano al lavoro. In questo momento, la polizia antisommossa sta trascinando le persone fuori dai negozi di alimentari e dalle loro auto a caso, picchiandole e arrestandole.

Quando i brogli elettorali sono iniziati con la formazione di comitati elettorali e il mancato accreditamento di osservatori indipendenti, è sembrato ovvio che fosse necessario opporsi seguendo i  passi legali più elementari. Anche se il tribunale controllato dallo Stato non era d'accordo, solo il fatto di un'udienza sulla questione ha reso visibile la corruzione. Un forte senso di solidarietà di base che si era già formato durante la pandemia della COVID-19, quando il governo non era riuscito a offrire un sostegno sistematico, si è sviluppato in un impegno civile ben informato. Quando sono iniziate le frodi ai seggi. Io, pur essendo dall'altra parte dell'oceano, ho avuto la sensazione di vedere attraverso i muri e di leggere le menti peccaminose dei funzionari.

Allo stesso tempo, il governo non sapeva cosa aspettarsi dal suo popolo. Forse si aspettava la violenza? È per questo che la polizia e le truppe antisommossa continuano a comportarsi come se qualcuno li stesse attaccando? Poco fa ho visto la foto di un quindicenne immobile a terra con tre poliziotti che lo picchiavano. Forse la più grande debolezza resa visibile in questi ultimi mesi è stata quanto poco lo Stato conosca la propria gente.

FN: I bielorussi sono stati spesso descritti come politicamente indifferenti. Li abbiamo visti scendere in strada per quattro notti, sfidando la violenza della polizia, gli arresti e le minacce. Cosa c'è di diverso questa volta?

VM: Quello che sta succedendo in Bielorussia è unico. Non vogliamo sacrificare una sola vita: in Bielorussia non c'è altro che il sangue del nostro popolo sotto i nostri piedi. Questo sangue è senza nome, senza ossa, senza voce. Nascere in Bielorussia significa ereditare la paura e l'impavidità, la vergogna e la sfrontatezza, e la voce. Ma una cosa è certa: nascere in Bielorussia significa ereditare una grande invisibilità e fiducia in se stessi. Piantare orti, fare conserve per l'inverno, seminare, sistemare le cose, leggere, presentarsi ad eventi educativi e culturali: sono tutte attività politiche di persone autosufficienti che si nutrono, si vestono, si educano. Ecco perché ciò a cui stiamo assistendo negli ultimi tre giorni e tre notti è diverso dalle proteste che abbiamo visto altrove. Questo è un movimento partigiano di una nazione partigiana che sopravvive da secoli sulla fiducia in se stessa.

In Bielorussia internet è chiuso, eppure ho appena visto una breve intervista con un custode di una stazione della metropolitana che mostra una registrazione sul cellulare del sangue che doveva pulire. Con l'aiuto dei canali bielorussi su Telegram, ho guardato più TV bielorussa che durante i miei anni in Bielorussia. Tutti questi sono video di violenza della polizia registrati da privati sui loro cellulari personali e poi condivisi con il mondo. Questo, insieme alla protesta partigiana di strada auto-organizzata e non centralizzata, è una versione della polifonia, il dispositivo letterario preferito dai nostri scrittori Ales Adamovich e Svetlana Alexievich. Questa è la nostra tradizione.

Ricamo dell'artista bielorussa Rufina Bazlova che rappresenta le forze dell'ordine che depongono l'equipaggiamento protettivo e le armi. Illustrazione utilizzata con il permesso.


FN: Molti bielorussi come lei hanno scelto di vivere fuori dal loro paese per motivi politici ed economici. Oggi la diaspora ha un ruolo importante? Può e deve svolgerne uno?

VM: Questo è un momento di solidarietà bielorussa in tutto il mondo. Siamo tutte persone con poca conoscenza delle nostre radici, con alberi genealogici appesi a un solo sopravvissuto, tutto ciò che abbiamo è l'altro. Siamo troppo soli e invisibili nel mondo per non essere uniti. E sì, la diaspora sta facendo di tutto per attirare l'attenzione internazionale sulla lotta bielorussa per la dignità. Ci sono proteste con richieste concrete, petizioni e raccolte fondi. C'è il tenersi in contatto, semplice come superare le interruzioni telefoniche per controllare la famiglia e gli amici e far sapere loro che non sono soli.

In Bielorussia, le persone sono intrappolate senza alcun mezzo di comunicazione con il mondo esterno, senza una chiara comprensione di ciò che si vede, di ciò che si comprende della loro situazione. I giornalisti stranieri sono stati deportati. Molti giornalisti sono stati uccisi e picchiati dalla polizia. Alcuni giornalisti, soprattutto in Russia, hanno così poca conoscenza della situazione bielorussa che potrebbero fare più danni che aiutare con i loro infondati parallelismi con l'Ucraina e/o con le cornici coloniali senza scuse.

Quindi, è dovere di tutti noi, al di fuori del Paese, rendere la Bielorussia visibile e sostenuta. Anche in questo caso, non è una cosa che andava dichiarata. Piuttosto, si è sentito subito, è andato da sé. È mia convinzione che la maggior parte della gente della diaspora non se ne sia andata per sempre. Abbiamo legami con casa nostra, torniamo regolarmente, educhiamo i nostri figli sulla loro provenienza, forniamo un sistema di sostegno per il nostro popolo in Bielorussia e per i bielorussi in tutto il mondo.

FN: Lei è una poetessa che scrive sia in bielorusso che in inglese. Com'è presente la Bielorussia nella sua scrittura? Gli eventi attuali in Bielorussia influenzano quello che scrivi o che potresti scrivere?

VM: Il mio nuovo libro di poesia “Music for the Dead and Resurrected” è un'opera profondamente bielorussa. Lo pubblicherò in bielorusso in Bielorussia quando sarà possibile.

In questi ultimi giorni ho vissuto interamente online, in una Bielorussia virtuale. L'orologio del mio corpo si è spostato, non so dire che lavoro ho dovuto fare in questi giorni. Potrei avere una versione leggera del PTSD – vedere la gente discutere di politica americana o andare avanti come se niente fosse in Bielorussia mi sembra assurdo e, ancora di più, mi fa infuriare. Nei miei molti anni di vita all'estero mi sono sentita fuori posto molte volte, ma questo è un nuovo livello di quella sensazione. Non voglio che una sola persona, che in questo momento non stia guardando la Bielorussia, vicino a me. Naturalmente, questa è un'emozione cruda. Gli americani non hanno scioperato quando i bambini sono morti in gabbia al loro confine meridionale. Ma posso dire questo: Sono stanca di una curiosità ignorante. Voglio vedere un'empatia internazionale.

Oggi ho scritto una dichiarazione di solidarietà con i bielorussi e l'ho inviata a un paio di redattori. Ho voluto pubblicarlo immediatamente, in modo che tutti lascino perdere tutto e vedano cosa sta succedendo a casa mia. Quando ho premuto il tasto “invia” e il testo mi è sfuggito di mano, una grande paura mi ha sopraffatto. Mi sono chiesta se avessi davvero sognato quello che ho descritto nella mia dichiarazione. Ho immaginato qualcuno che lo leggeva – qualcuno che pranzava e diceva “oh wow, è troppo, è così arrabbiata, così emotiva”, e mi sono spaventata che tutto fosse solo un trucco della mia mente folle.

Poi il mio telefono ha suonato. Il mio caro amico mi scriveva su Telegram da Minsk: “Sentiamo spari ed esplosioni. C'è qualcuno fuori che ci vede?”.

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