domenica 29 novembre 2015

Blue Nights / Joan Didion e il dolore della morte

Joan Didion

Blue Nights 
Joan Didion e il dolore della morte

Posted on February 11, 2013 by Maria Tatsos

Avrei dovuto incominciare con L’anno del pensiero magico (2005), il primo memoir della giornalista e scrittrice americana Joan Didion, dedicato all’elaborazione del lutto per l’improvvisa scomparsa del marito. Invece, da indisciplinata quale sono nelle scelte di lettura, mi sono fatta catturare prima da Blue Nights (2011), l’ultimo memoir di Didion (entrambi pubblicati daIl Saggiatore).
L’ho letto in un pomeriggio e ho sofferto con lei. Segno evidente che ha colpito nel segno, con la sua volontà di comunicare l’argomento chiave di questo memoir: la tragedia di vedere il proprio figlio morire prima di te. Dicono che sia la perdita più pesante per un essere umano, e personalmente non fatico a immaginarla. Eppure, Joan Didion non è esattamente il tipo di personaggio che ispiri simpatia, nel senso letterale di disponibilità a “soffrire con” un altro. Ha l’età di mia madre, e sua figlia era praticamente mia coetanea. Ma le analogie finiscono qui.

Joan e la piccola Quintana.
La ragazza si chiamava Quintana Roo, come un pueblo messicano. Scelta stravagante di genitori intellettuali stravaganti, appartenenti all’agiata upper class, divisa fra East Coast e California. Joan si ritrova a 25 anni a fare la giornalista a Vogue e quando a 31 scatta in lei il desiderio di maternità – che per un qualche motivo fisico, che non ci spiega, non riesce a realizzare – si materializza per lei una “bambina perfetta”, neonata, da adottare, grazie a una semplice telefonata con un medico amico di amici, conosciuto in una gita in barca… Facile, vero? Forse negli States. Qui ottenere l’idoneità all’adozione è un processo lungo e faticoso, probabilmente più pesante psicologicamente  (e non solo) della fatica fisica di una gestazione e di un parto plurigemellare. Soprattutto per l’ansia di sentirsi dire di no.
Quintana è bella, intelligente, precoce. I suoi genitori adottivi, in viaggio per lavoro e per piacere, la trascinano da un hotel di lusso all’altro, dove impara a cinque anni a mangiare caviale (che spesso finisce in conto spese delle case editrici che pagano la trasferta della famigliola: bei tempi, eh, cara Joan?!). Frequenta case da sogno e divi hollywoodiani, trascorre le vacanze nella villa di Saint Tropez della coppia Richardson-Redgrave, ma quest’infanzia dorata non le impedisce di diventare una bambina e poi una ragazzina sofferente. Afflitta da un mal di vivere che sua madre, confessa, non è stata in grado di vedere, perché l’ha considerata, per tanto tempo, “una bambola”.
Quintana muore a 39 anni. Il lutto per la morte della figlia si tramuta, in Blue Nights, nel lutto per la perdita di sé. Joan imbocca la china e si scontra con la vecchiaia, quella vera, che vuol dire capolinea, fine della vita. Fine della persona che sei stata, con una regressione delle capacità del corpo che finisce per distruggere anche la psiche. Da un giorno all’altro, da adulto “normale” diventi un vecchietto cui è sconsigliato vivere da solo.
“La paura non è per ciò che è andato perso. Ciò che andato perso è già murato in una parete. Ciò che è andato perso è già chiuso dietro porte sbarrate. La paura è per ciò che c’è ancora da perdere”, scrive Didion. Paura per se stessa, paura di non essere più capace di vivere, giorno per giorno, con il ricordo della figlia tanto amata al suo fianco.
Ho finito di leggere Blue Nights in un giorno. Oggi mi sono comprata L’anno del pensiero magico, non ho resistito.



venerdì 27 novembre 2015

Il coraggio di Jane Hawking in un libro e un film


stephen & Jane
Il coraggio di Jane Hawking 
in un libro e un film
Un taglio di capelli molto anni Sessanta, uno sguardo innamorato rivolto al fidanzato che invece guarda in macchina. Lui non è certo bello, con il suo dolcevita grigio e quegli occhiali da nerd su un un viso tanto lungo e affilato. L’amore, si sa, è cieco.
Lei è Jane Wilde, ex signora Hawking risposata Jones, che è oggi una bella settantenne, docente ed esperta di letteratura spagnola. Lui è il grande cosmologo Stephen Hawking, oggi 72enne e costretto da anni da una terribile malattia sulla sedia a rotelle, che gli ha portato via il dominio del suo corpo ma non la sua mente brillante e il suo humour graffiante.
Eddie Redmayne e Felicity Jones nel film "La teoria del tutto".
Eddie Redmayne e Felicity Jones nel film “La teoria del tutto”.
Ed eccoli ora in versione cinematografica, nel film La teoria del tutto, uscito nelle sale italiane proprio ieri. Stephen è interpretato da Eddie Redmayne, che è in odore di Oscar per la questa sua eccezionale performance; Jane è Felicity Jones.  Il film racconta 25 anni di vita insieme ed è tratto dall’autobiografia di Jane Hawking, intitolata Verso l’infinito e pubblicata in Italia da Piemme (collana Voci, 19,50 euro). Il film è interessante, ma come quasi sempre succede non riesce a racchiudere tutte le sfaccettature e le complessità dell’animo umano che si possono trasmettere scrivendo.
cover Hawking copia

Vale dunque la pena leggerlo. La prima cosa che colpisce è scoprire che quando Jane si innamora di Stephen ha già sentito vociferare dalle sue amiche della sua malattia. Ma quando lo incontra di persona, si lascia sedurre dal suo fascino piuttosto singolare. Come corteggiatore, Stephen non vale granché – è imbranato e gentile – ma ha già una laurea in tasca, ha una mente brillante e proviene da una famiglia colta e nota, che Jane conosce.
La ragazza abbandona il suo sogno di una carriera diplomatica per restare al fianco di Stephen, che gradualmente peggiora ed è sempre più instabile sulle sue gambe. Con l’istinto della crocerossina – molto femminile – Jane convola a nozze e mette al mondo tre figli, diventando il sostegno di Stephen, sempre più difficile da gestire nella vita privata a causa della sua malattia. Non c’è niente da fare: si sceglie il proprio destino. Come sua madre – la quale aveva accettato di sposare suo padre all’inizio della guerra, per poterlo curare se fosse tornato ferito – Jane accetta il guanto di sfida che Cupido le lancia.
Jane Hawking, in un'immagine più recente.
Jane Hawking, in un’immagine più recente.
C’è da domandarsi se a 21 anni una ragazza sia in grado di comprendere davvero le conseguenze di una simile decisione. Una malattia neurodegenerativa rara come quella di Hawking non è uno scherzo, e restargli al fianco crescendo tre bambini è un’impresa titanica. Jane ci riesce, fra mille difficoltà, ma è Wonderwoman. C’è un momento in cui lei crolla, e la malattia del marito finisce per avere la meglio sull’amore. Jane trova l’appoggio di Jonathan, un giovane musicista vedovo che si innamora di lei, mantenendo un bizzarro equilibrio familiare, che più tardi Stephen spezzerà definitivamente innamorandosi di un’infermiera…
La storia è da leggere, anche per capire che i sacrifici eroici sono tali sono nella fantasia, ma nella realtà quotidiana si scontrano con i sentimenti e le fragilità degli esseri umani.

giovedì 26 novembre 2015

Gong Li a Cannes / Una vera diva


Gong Li © ufficio stampa Roberto Cavalli
Gong Li a Cannes: una vera diva
Posted on May 12, 2011 by maria

Eccola, la splendida Gong Li, sul Red Carpet di Cannes, alla cerimonia d’inaugurazione di ieri, mercoledì 11 maggio. Splendida nel suo abito da sera (firmato Roberto Cavalli) e con l’aria di una diva d’altri tempi. Femminile e seducente.
La mia potrà sembrare una campagna a difesa delle 40 enni  (e forse in un certo senso lo è!). Ma come ho già scritto in questo blog, con il suo fascino sicuro e discreto Gong Li non ha nulla da invidiare alle colleghe più giovani che stanno emergendo prepotentemente nella cinematografia cinese, assetata di nuovi volti.
Zhang Yimou, il regista ex compagno e pigmalione della diva, ne ha appena lanciato una: la 20enne Zhou Dongyu, dall’aria di bambina, protagonista del suo ultimo film “Under the Hawthorne Tree” (presentato all’ultimo Far East Film Festival di Udine).
Ma con i mutamenti in corso nella società cinese e il miglioramento delle condizioni di vita nelle grandi metropoli, passerà anche in Cina l’idea che una donna può continuare a essere bella e seducente anche oltre i 40. Come Gong Li, ultima diva.


lunedì 23 novembre 2015

El millenario senso del pudore / Elogio della nudità






Il millenario senso del pudore

Il libro di Anna Meldolesi (Bompiani).
Dalla foglia di fico all’eccesso di esibizionismo:
tabù, censure e contraddizioni della nudità,
fra convenzioni e «umane» ipocrisie

di PIERLUIGI BATTISTA

28 ottobre 2015 (modifica il 5 novembre 2015 | 16:47)




Quando era ricoperta da una pelliccia naturale, un po’ più di tre milioni di anni fa millennio più millennio meno, l’umanità era ignara di qualcosa che somigliasse al «senso del pudore» e dunque aveva qualche cruccio in meno in cui avvitarsi e per cui soffrire come noi oggi che siamo glabri. Da quando siamo afflitti da questa condanna descritta da Anna Meldolesi, in un libro che ha per titolo Elogio della nudità ed è pubblicato in questi giorni da Bompiani, siamo invece imprigionati in una ragnatela di contraddizioni che non riusciamo più a sbrogliare.

Il senso del pudore è ambiguo, sfuggente, intimidatorio. «Andiamo tranquillamente al mare in bikini ma non usciremmo mai di casa in biancheriaintima, anche se i centimetri di pelle sono gli stessi», scrive la Meldolesi. Ma vale anche per gli uomini: alcuni hanno addirittura la spudoratezza di mettersi gli orrendi slip in spiaggia, ma non uscirebbero da casa in mutande, anche con i più castigati boxer. L’analisi di questo senso del pudore è la missione del libro di Anna Meldolesi, che passa con grande disinvoltura da Lucy, «l’ominide fossile più famoso del mondo» fino a Facebook, che in un’epoca in cui la nudità sembra finalmente affrancata da remore pruriginose e tabù antiquati, finisce invece per vietare alle neo-mamme di farsi fotografare e postare mentre allattano i loro bambini dal seno ignudo. Passando per Eva Herzigova, famosa per la pubblicità del Wonderbra, ma che porta il nome della nostra progenitrice costretta, dopo aver mangiato il frutto proibito insieme al complice Adamo, a coprirsi con una foglia di fico.




Il lato più brillante del libro della Meldolesi è di passare dall’arco temporale dei milioni di anni a quello, misero misero, dei decenni. Pochi decenni fa, niente nell’evoluzione complessiva dell’universo e dell’avventura umana, un pretore siciliano usciva pazzo per gli hot pants esibiti da una turista nella torrida estate siciliana. Pochi decenni fa il topless era considerato il massimo della sfrontatezza e dell’impudicizia. Pochi decenni fa la nudità sprizzava una tale energia morbosa da ispirare a Dino Risi un film come Vedo nudo , dove l’ossessionato Nino Manfredi scorge in una matita le sagome di una donna completamente spogliata: effetto collaterale del suo mestiere di creativo che vende le borse d’acqua calda con un invitante ed erotizzante «Sono morbida, sono calda, portami a letto con te, costo solo mille lire».

Pochi milioni di anni fa, cioè in una dimensione temporale in cui topless e mutande di varia foggia appaiono particelle minuscole e insignificanti, la biologia e la cultura umane, con la perdita della pelliccia, conoscono una svolta radicale: «Noi umani siamo gli unici della nostra estesa famiglia ad avere la pelle nuda, a fabbricare vestiti e a vergognarci quando ce li togliamo». Perché? Perché l’evoluzione umana, scrive la Meldolesi, non è solo bipedismo e posizione eretta, pollice opponibile, o dieta a base di carne «che ha procurato ai nostri progenitori le energie necessarie per sostenere un balzo in avanti nelle prestazioni cerebrali», ma è anche «questione di peli persi e ghiandole sudoripare guadagnate». E poi evidentemente le femmine di tanti milioni di anni fa preferivano esteticamente ed eroticamente gli uomini senza peli con cui procreare, mica come adesso che vanno di moda gli hipster barbuti.



La nudità ha generato per gli esseri umani molte cose belle e molte cose brutte. La spinta a vestirci ha creato l’arte, la moda, le stoffe, l’elaborazione culturale. Ma ha anche creato nevrosi, angosce, frustrazioni. Ha modificato il nostro senso della bellezza e ha alimentato tabù paralizzanti. Ha messo in moto imponenti costruzioni filosofiche, ma ha anche lubrificato complicati sistemi repressivi e liberticidi. La nudità ha creato la censura. Ha sdoganato comportamenti narcisistici e con l’aiuto della tecnologia ha esasperato l’esibizionismo, come quello del politico democratico americano Anthony Weiner, citato da Anna Meldolesi, che si è fatto beccare mentre spediva alle ragazze foto del suo organo in erezione, sfondando la soglia del ridicolo e anche il muro dell’autodistruzione politica.

La Meldolesi si concentra soprattutto sull’ultimo secolo, dove i parametri del senso del pudore e della percezione del nudo sembra che si siano modificati con impressionante velocità e in modo molto radicale. Qualcuno avrebbe potuto immaginare che il seno di una mamma che allatta sarebbe diventato, nello psicotico mondo dei social network, più spudorato di una copertina di «Playboy», prima che i suoi responsabili decidessero di rivestire pudicamente le avvenenti conigliette, come richiesto dal mercato nell’epoca di YouPorn?

Il senso del pudore ha anche modificato la lingua, il lessico, la ricchezza del vocabolario. Purtroppo più del vocabolario inglese che di quello italiano. Gli inglesi infatti, con finezza a noi preclusa, distinguono naked da nude : non sono sinonimi, ma due stati d’animo, due opposti concetti filosofici attorno all’essere denudato. Naked allude idealmente a uno stato di «naturale innocenza», a una condizione di purezza primitiva, non contaminata dai vestiti della civilizzazione repressiva, dal tessuto inautentico di cui sono fatti gli imperativi sociali e i tentativi di comprimere la libertà dello stato di natura. Nude invece «si trova nell’arte». È una nudità «artificiale, stilizzata», eminentemente sociale. Non è poi così male, perché nude , la nudità consapevole, «mette le ali alla fantasia e all’eros», scrive Anna Meldolesi. Ma non c’è niente di statico, di immutabile, nei canoni estetici e morali che descrivono la nudità, che circoscrivono o dilatano il senso del pudore. Tutto cambia a velocità vorticosa, non c’è bisogno dei milioni di anni che sono stati necessari per svellere la pelliccia che copriva i nostri antenati. E per creare brividi e malizia attorno alla nudità. Quando le chiesero che cosa indossasse per andare a letto, Marilyn Monroe rispose: «Chanel n. 5». Altro che innocenza naturale.







sabato 21 novembre 2015

Bernard Malamud / Un inferno chiamato matrimonio


Un inferno chiamato matrimonio 
Il tormento narrato da Malamud

Nessuno scrittore americano ha mai esplorato meglio la sofferenza coniugale


Il romanzo «Le vite di Dubin» al centro del secondo Meridiano Mondadori


di GIORGIO MONTEFOSCHI
17 novembre 2015 (modifica il 17 novembre 2015 | 12:18)

Bernard Malamud, uno dei maggiori scrittori americani del secolo scorso, per lunghi anni misconosciuto dalla critica e trascurato dal pubblico, al punto che i suoi libri non si trovavano in libreria e alcuni, addirittura (per esempio in Francia) non erano tradotti, morì il 18 marzo del 1986, dopo un brutto ictus che ne aveva fiaccato le forze e la memoria. Philip Roth — racconta Paolo Simonetti nella ottima introduzione al secondo Meridiano con il quale Mondadori conclude la pubblicazione dei Romanzi e racconti di Malamud — aspettò soltanto un mese. Elegantemente, in un ritratto uscito sul «New York Times» del 20 aprile, descrisse l’amico più anziano — tanto americano e tanto ebreo quanto lui (allora in grande ascesa) e Saul Bellow (premio Nobel nel 1976) — come «una sorta di assicuratore... un fragile vecchietto molto malato, la cui tenacia era quasi consumata», con l’aspetto «di un uomo che ha dovuto essere uomo troppo a lungo... uno scrittore che da anni non riusciva neanche più a ricordare la tavola pitagorica».

A questo schizzo di odio, dovuto forse a un desiderio oscuro di parricidio, o forse al sospetto che il «fragile vecchietto» fosse più bravo, rispose Saul Bellow — che già nella orazione funebre aveva speso consistenti elogi nei confronti di Malamud, definendolo «un creatore di miti, un narratore di favole, uno scrittore di parabole squisite» — con una lettera a Roth che per la sua intelligenza, e la leggerezza che posseggono solo i veri scrittori e non molti critici letterari, merita di essere riprodotta quasi per intero. Gli scrisse: «Tu all’inizio lo avevi paragonato a un assicuratore, mentre in privato io ho sempre pensato a lui come un commercialista; però in segreto nutro un debole per le qualità nascoste dei rappresentanti e dei commercialisti. Non sono mai riuscito a giudicare dalle apparenze, né ho mai avuto fede nelle categorie (le categorie sociali, intendo). Be’, lui ha saputo creare qualcosa dalle briciole e dalle scorie granulose di povere vite ebraiche. E poi ha sofferto per non essere riuscito a fare di più. Forse non avrebbe potuto, ma sperava in una buona vecchiaia, in cui l’impossibile diventasse possibile. La morte si è occupata di questa magnifica aspirazione; riguardo a ciò, possiamo contarci tutti».

Le vite di Dubin— tradotto da Monica Pareschi, al centro del secondo Meridiano — è uno dei tre grandi libri di Malamud (gli altri due sono Il giovane di bottega eL’uomo di Kiev), e certamente il suo capolavoro. Un romanzo fluviale di 500 pagine, ambientato negli storditi anni Settanta, scritto in modo magistrale. Sempre Roth, che evidentemente di Malamud aveva l’incubo, in un romanzo intitolato Lo scrittore fantasma lo aveva preso in giro, a proposito del suo metodo di lavoro, facendogli assumere i panni di un vecchio scrittore ebreo, E. I. Lonoff, che passava le sue giornate e la sua esistenza a prendere una frase, a girarla, a rigirarla, a cancellarla dopo una passeggiatina, a riscriverla di nuovo, a rifletterci sopra dopo il tè, a metterla vicino a un’altra, a girarle tutte e due da capo. Se questo è il metodo degli sfortunati scrittori che non posseggono la beata irruenza di Roth (ma Truman Capote stava a letto un pomeriggio intero, indeciso fra una virgola e un punto e virgola), bisogna riconoscere che, soprattutto per quanto riguarda Le vite di Dubin, si tratta di un metodo ottimo. Certo, come Lonoff, deve aver faticato immensamente Malamud a reggere quella prosa per 500 pagine. Ma che prosa: avvolgente, piana, senza un momento di stanchezza, mossa da dialoghi che entrano ed escono a perfezione.

William Dubin, 56 anni, ebreo non praticante, i capelli brizzolati, una discreta pancetta che cerca di contenere correndo nei boschi attorno a Center Campobello, il paese di 4.600 anime al confine fra lo Stato di New York e il Vermont in cui vive insieme a sua moglie Kitty, fa di professione il biografo: si interessa alle vite degli altri. Per esempio, alle vite di Abraham Lincoln, di Mark Twain, di H. D. Thoreau, l’autore di quel celebre inno alla natura e a una esistenza primitiva che è Walden. Attualmente, combatte con la biografia di D. H. Lawrence, l’autore dell’Amante di Lady Chatterley, di Figli e amanti. È un libro piuttosto difficile. Infatti, dopo le migliaia di pagine già scritte, cos’altro si può scoprire di questo romanziere inglese acceso dalla fiamma dell’eros, poi impotente, tormentato dal suo complicato rapporto matrimoniale? Scrutandosi nello specchio, parlando a voce alta tra sé e sé (e per questo irritando Kitty), Dubin se lo domanda continuamente. Non sa darsi una risposta. L’unica, è mettersi metodicamente al lavoro; passeggiare; togliere le erbacce dal giardino; prendere un tè; rimettersi al lavoro.


Kitty (che una volta, diciamo spassionatamente, ha consigliato a William di scrivere delle biografie che facciano ridere) è una brunetta cinquantenne, ancora abbastanza attraente, nevrotica, al secondo matri-monio. Dal primo marito, Nathanael, morto dopo quattro anni, ha avuto un figlio ormai grande, Gerald, renitente alla leva e fuggito in Svezia. Con Dubin (che, tanto per intenderci, ha incontrato mettendo un avviso sul giornale locale: vedova, giovane, con un figlio, disponibile a incontrare, eccetera...) ha procreato Maud: una ragazza insicura, che rifiuta il suo nome perché sembra il muggito di una mucca, pronta a ogni tipo di esperienze, non meno nevrotica di sua madre.


Un giorno, la monotona esistenza dei Dubin viene sconvolta dall’arrivo di una collaboratrice domestica poco più che ventenne, Fanny Bick: occhi verdi, capelli lunghi, corpo molto sensuale. Il passo è breve. Una mattina la giovane e intraprendente collaboratrice entra nello studio, si spoglia e lancia le mutandine in faccia al biografo imbambolato dietro lo scrittoio. Lui gliele rilancia indietro: insomma, l’attimo non viene colto. I due, però, si rivedono. Fanno un viaggio in gran segreto a Venezia in cui succede di tutto, compreso il fatto che l’attimo non viene colto neppure lì. Si lasciano. Lei va a Roma e poi a New York, e, come a Venezia, passa da un amante all’altro. Lui riprende la sua vita tragica e ordinata di marito che non doveva sposare la donna piagnucolosa e isterica a sua volta convinta del grande errore commesso a sposare quell’uomo insoddisfatto, depresso, incarognito sulle vite degli altri, incapace di vivere la sua.


Passano i mesi. Gli aceri si tingono di colori meravigliosi. Nevica. Fa un freddo cane. Viene la primavera. Riappare Fanny. E finalmente la passione si scatena. Dubin, con mille scuse, va a incontrarla a New York, negli alberghi in cui l’America puritana trascorre il weekend o consuma il colpevole adulterio. Lei lo insegue a Center Campobello. Kitty sospetta, tortura il marito fino a fargli perdere la virilità e il desiderio (che invece con Fanny puntualmente rinasce), va dallo psicanalista, e a sua volta tradisce.


La vita di Lawrence si incaglia e diventa una ossessione. Quella di Dubin, un inferno: «Una traccia di luce scura in una entità gassosa, una vela cupa in un mare irradiato di perdita». La memoria, intanto, si smarrisce. L’ordine si smarrisce. Dubin non sa che fare. Bruciare il libro che non riesce a scrivere? Liberarsi della vita morta? Il tempo corre. Nello specchio aumentano i capelli bianchi. Corre anche il romanzo poderoso, che meglio di ogni altro romanzo americano racconta la sofferenza coniugale. E, come è giusto che sia, perché spesso succede, la sua conclusione rimane in sospeso.






martedì 17 novembre 2015

Charlie Sheen / « Sono sieropositivo»

Charlie Sheen

Charlie Sheen: 

« Sono sieropositivo» 

L’annuncio in tv: malato da anni


La notizia anticipata da un sito di gossip e rilanciata dalla Nbc: «Sono positivo all’Hiv, tre lettere difficili da assimilare». La star ha un passato di eccessi di alcol e droga

di Redazione Online


È ufficiale, Charlie Sheen ha annunciato in un’intervista alla trasmissione 0 Today della Nbc di aver contratto l’Hiv, come anticipato dal sito Tmz, ammettendo che la malattia gli è stata diagnosticata quattro anni fa. «Sono qui per ammettere di essere sieropositivo all’Hiv - ha detto la ex star - sono tre lettere difficili da assimilare». Sheen, con tre divorzi alle spalle, nella sitcom «Due uomini e mezzo» aveva interpretato il dongiovanni Charlie Harper per otto anni, prima di venire licenziato nel 2011 per comportamento scorretto, ovvero una vita sregolata che comprendeva festini a base di cocaina con pornostar e una condanna per violenza domestica contro la ex moglie. «Devo porre fine all’assalto e al fuoco di fila e alle mezze verità che stanno minacciando la salute di tanti altri» ha detto l’attore al conduttore dello show Matt Lauer. Sheen - attore prediletto di Oliver Stone, interprete di «Platoon» e «Wall Street» - era già conosciuto alle cronache per i suoi eccessi.

Dentro e fuori dalla prigione per risse, botte compagne e fotografi, guida pericolosa. Figlio di Martin Sheen (attore cult di Hollywood, interprete di «Apocalypse Now») e fratello di Emilio Estevez, fin dagli inizi della sua carriera viene visto come una promessa del cinema al pari del fratello. Ha un altro fratello e una sorella, anche loro attori. Suo nonno paterno, Francisco Estevez, era un immigrato spagnolo che sposò una donna irlandese.





venerdì 13 novembre 2015

Jhumpa Lahiri / Li amo ricchi e generosi


Jhumpa Lahiri 
«Li amo ricchi e generosi»

Quando si tratta di film, la scrittrice Jhumpa Lahiri ha le idee chiare. E adesso che, dopo aver vissuto a lungo in Italia, torna negli Stati Uniti, ha deciso di farne indigestione. Dalla platea particolare della giuria del 71° Festival di Venezia

Jhumpa Lahiri
Nella giuria del 71° Festival del Cinema di Venezia siederà anche Jhumpa Lahiri, premio Pulitzer per la narrativa conL’interprete dei malanni, membro dell’American Academy of Arts and Letters. E sarà un po' l’inizio di una fine.
Infatti la scrittrice, un «cervello» che ha scelto il nostro Paese e la nostra lingua per lavorare, dopo vent’anni a Roma sta per tornare negli Stati Uniti: «L’anno prossimo devo lasciare l’Italia. Ho accettato una cattedra alla Princeton University. L’ho fatto soprattutto per motivi finanziari e per il bene della famiglia. Ma torno in America nuovamente da straniera». Figlia di immigrati indiani, Jhumpa è nata a Londra, ma poi ha seguito la famiglia a New York, dove ha mantenuto una casa.

Venticinque anni fa, un Natale trascorso a Firenze l’ha convinta che «inglese e bengalese sono lingue che mi sono state imposte, dai genitori e dal luogo dove sono cresciuta. L’italiano è invece qualcosa che ho voluto imparare per me stessa. E per studiarlo davvero mi sono trasferita».

Che cosa le piace dell’italiano?«Quando navighi sei sempre alla ricerca di un approdo, perché il mare ti dà una sensazione di sospensione. A me capita la stessa cosa quando scrivo in italiano perché, malgrado lo ami, non mi appartiene». 

Come è entrata in giuria a Venezia?
«Me lo ha chiesto Nicola Lagioia (scrittore e selezionatore della giuria) già l’anno scorso, ma io avevo preso impegni a Mantova per la promozione del mio ultimo libro, La moglie.  Sono felice che mi abbia invitato di nuovo».

Se la sente di giudicare?
 «Non mi piace farlo.Giudicare qualcosa di creativo è una responsabilità che richiede rispetto e attenzione. Il mio approccio sarà più valutare e apprezzare. E farò una classifica».

Si è mai sentita giudicata?
«Per gran parte della mia vita,quindi cerco di allontanarmi da questa tentazione. E cerco di trasmettere questo valore anche agli studenti. L’obiettivo per un artista è andare avanti, scoprire cose nuove. Non mi interessa il successo: il fallimento è più formativo».

La regista Mira Nair, Leone d’oro con Monsoon Wedding, nel 2006 ha trasformato un suo libro,L’omonimo, in un film. È rimasta soddisfatta?

«Ha fatto un lavoro interessante. Ma io sono come la nonna di quel film: ho un legame affettivo, ma non è mia la responsabilità. Non è il mio lavoro, bisogna capire che il cinema ha un altro linguaggio».

Che cosa cerca in un film?

«Come scrittrice invidio il potere delle immagini. Non mi piace il cinema superficiale: cerco un film "a strati", che si faccia rivedere, che sia ricco, generoso. Non mi interessa che sia stilisticamente perfetto, ma deve dire qualcosa».
Va spesso al cinema?«Da quando sono mamma (e lo sono da 12 anni) ci sarò andata due volte l’anno. A Venezia farò indigestione». 

Come si aspetta il Festival?
«Mondano, anche divertente. Voglio godermi l’esperienza».

Giorgio Armani, Alberta Ferretti, Ferragamo: saranno in molti a vestirla sul red carpet.

«Sarò vestita in modo perfetto per gli unici dieci giorni della mia vita. Credo sia importante provare qualsiasi cosa almeno una volta. Per me è un’esperienza diversa, la vivo come un’apertura». 

A cosa sta lavorando?
«Veramente mi sento piacevolmente disorientata. Galleggio, vedo la terraferma, ma è in lontananza. So che non voglio tornare a scrivere in inglese. Quella è una strada piatta e io voglio andare in salita. Piuttosto potrei tradurre qualcosa dall’italiano».

Scriverà ancora dell’India?

«Mentre scrivevo La moglie mi sono accorta che sarebbe stato l’ultimo libro di una serie. Per ora questo sentiero è finito. Ne voglio scoprire e iniziare uno nuovo. Per questo  sto  cercando una direzione per la mia scrittura».





Regina José Galindo / La poetica della violenza




Regina José Galindo


Regina José Galindo

La poetica della violenza

GIOVANNA LACEDRA
13 NOVEMBRE 2015


Non riassumerei il mio lavoro come violento: quel che cerco di fare è trovare la poetica stessa della violenza.
Nata a Città del Guatemala nel 1974, Regina José Galindo si afferma come una delle performer contemporanee più dirette e penetranti, pur nell’essenzialità del suo agire. Un agire che talvolta rasenta l’immobilismo, ma che proprio in quell’immobilismo si fa più affilato.
Sin dalla seconda metà degli anni Novanta agisce col corpo e sul corpo, in chiave polemica, politica e simbolica, trasformando se stessa in un brandello di memoria. Ciò che mira a tener vivo mediante le sue azioni è l’ingiustificabile – e mai giustiziato – dolore vissuto dal suo popolo. La violenza subita. L’irrecuperabile tutto che ha desertificato geografie interiori e non soltanto. L’atto performativo diviene allora un invito; una preghiera rivolta all’umanità. Non dimenticate, per favore. Non dimenticate i reati che ci sono stati inflitti. Non chiudete gli occhi. Guardatemi, guardateci. Io sono il mio popolo e le sue ferite. Il mio corpo è il loro corpo. Il mio sangue è il loro sangue. Io sono la violenza subita dalla mia gente. Rimessa in scena ogni volta perché voi abbiate occhi!

Regina José Galindo. Piedra

L'11 maggio 2013 il generale Rìos Montt, ex Presidente della Repubblica Golpista, è stato condannato a 80 anni di carcere per i crimini commessi contro l’umanità durante i 36 anni di guerra civile in Guatemala, e in particolar mondo per il genocidio perpetrato nei confronti della comunità Maya. Soltanto qualche settimana dopo, però, il processo e la condanna sono stati incomprensibilmente annullati. E Montt non ha scontato alcuna pena. Regina – da anni impegnata in una ricerca artistica di matrice politico-sociale in cui il corpo diviene corpo-denunciante –, si trovava nell’edificio in cui si è svolto il processo il giorno in cui questo è stato annullato, e si è sentita profondamente trafitta dalla noncuranza con cui è stato deciso di non rendere giustizia ai 200.000 morti e a tutte le altre vittime sopravvissute alla guerra civile. Dunque il suo accanimento nei riguardi di determinate tematiche si è fatto, se possibile, ancor più vigoroso.
Più che un’artista estrema – come molti prevedibilmente sostengono – Regina è un’artista autentica. Non provoca, ma mostra. Il suo corpo è diventato portatore di una ferita collettiva. Lo è diventato per mostrarla, palesarla, ricordarla al mondo intero. La performance, allora, è verità. E il corpo performante è un corpo-metafora.
Metafora non solo delle atrocità avvenute durante la guerra civile, ma anche di quelle subite dalle donne. La prevaricazione di genere è un’altra forma di violenza da lei indagata e performata. I dati, del resto, sono allarmanti: dal 2004 al 2013 ben 40.000 donne hanno subito violenza, e per le donne di età compresa tra i 16 e i 44 anni, la prima causa di morte è la violenza da parte di un uomo.

Regina José Galindo. Tierra, 2013

Proprio sull’azzeramento della dignità femminile si basa Piel, la performance realizzata in Italia nel 2001, in occasione della 49esima Biennale di Venezia. Regina si spoglia, si rade tutti i capelli e i peli del corpo e prende a camminare per le strade di Venezia. Di calle in calle, sotto un sole cocente. Come una presunta lamia medievale, come una prostituta durante la grande guerra. E sempre al 2001 risale Esperando al principe Azul, performance in cui Regina giace in posizione rigidamente supina su un letto, coperta da un lenzuolo bianco con un foro aperto all’altezza della vagina. Quel lenzuolo si chiama sabana nuncial e in passato veniva usato la prima notte di nozze, per dimostrare la verginità della sposa. Regina lo adopera per attivare una polemica sulla libertà sessuale femminile. L’atto sessuale, secondo una mentalità maschilista ancora assai pedante in Guatemala, deve di fatto essere vissuto dalla donna come mero dovere. Il godimento non è contemplato. La donna è dell’uomo. Gli occorre per soddisfare le proprie esigenze e per procreare.
Nel 2006 è la volta di Perra. Qui l’artista si mostra seduta mentre con un coltello incide il sostantivo perra, che letteralmente significa cagna, sulla sua coscia sinistra. In Guatemala insulti simili venivano realmente incisi con lame o con rasoi sui corpi rinvenuti delle donne stuprate e uccise. Mientres, ellos siguen libres, del 2007, è certamente una delle performance più forti e didascaliche che Regina abbia mai realizzato su questa tematica. Anch’essa parte da un dato storico: durante il conflitto armato in Guatemala gli aggressori stupravano le donne gravide con lo scopo di farle abortire.“Mi legarono e mi bendarono, ero incinta di tre mesi, mi immobilizzarono tenendomi ferma con i piedi. Mi rinchiusero in una stanzetta senza finestre. All’improvviso vi fecero irruzione, mi picchiarono e mi violentarono. Grondavo di sangue. E fu così che persi il mio bambino”.
Regina ha letto in Memoria del Silenzio – edizione integrale del rapporto della Commissione per il Chiarimento Storico delle violazioni dei Diritti Umani e Atti di violenza perpetrati sulla popolazione del Guatemala – inverosimili testimonianze di donne abusate in stato interessante. Queste confessioni l’hanno particolarmente colpita. Era incinta, all’ottavo mese di gravidanza, e ha sentito forte nel proprio ventre il dolore di queste donne. Ha deciso, quindi, di recarsi nelle cliniche dove erano avvenuti quegli aborti, per reperire i veri cordoni ombelicali di quei bambini nati morti, si è poi sdraiata nuda su una brandina, a gambe divaricate, e si è fatta legare mani e piedi con quegli stessi cordoni. Performando per protestare. Ancora. Perché il suo corpo è ormai un corpo-manifesto. Un corpo del dissenso.

Regina José Galindo. Piel, 2001

In ¿Quién piede borrar las huellas una delle sue più celebri performance datata 2003, la Galindo percorre le strade di Città del Guatemala, partendo dalla sede della Corte Costituzionale per arrivare al Palazzo Nazionale, con un catino bianco colmo di sangue umano. Si ferma, di tanto in tanto, per immergervi i piedi. E lascia, lungo il percorso, orme di violenza. Questa performance è nata come atto di protesta contro la candidatura alla presidenza di Rìos Montt. Nel 2004, invece, si addossa a un palo della piazza centrale di Città del Guatemala – luogo simbolico del potere politico e militare del paese – e si lascia gocciolare sul capo un litro intero di sangue umano, come se stesse subendo una sorta di tortura cinese. El peso de la sangre è un'accusa trasparente. In Isla del 2006 l’artista resta immobile su uno scoglio, completamente isolata e accanto a lei si forma presto una pozzanghera fatta della sua stessa urina. Nello stesso anno si fa rinchiudere per tre giorni in un ospedale psichiatrico, indossando una camicia di forza e convivendo con i cosiddetti pazzi. Questi pazzi la cercano, dialogano con lei. La trattano esattamente come una di loro. E tutto ciò la spiazza. Performando Camisa de fuerza rimane colpita dal modo in cui quelle persone, escluse dalla vita sociale, imprigionate in un tempo irreale, cercano invece di prendersi cura di lei. E la domanda che continua a porsi è: “chi è normale e chi no?”.
Nel 2010, su invito del Museo MADRE di Napoli, realizza la performance Caparazòn: nella città del cinquecento cupole Regina decide di denudarsi. Si accovaccia sul pavimento in posizione fetale e si lascia rinchiudere da una cupola trasparente e blindata. Per ore, un gruppo di persone armate di pali, ne colpisce freneticamente la superficie. Regina resta impassibile, avverte i colpi ma non si muove, fino a quando le armi degli aggressori si spezzano lasciando il vetro intatto.

Regina José Galindo. Mientres, ellos siguen libres, 2007

Chi la paragona ad Ana Mendieta non ha certamente torto. Ma affermare che la emuli è errato e riduttivo. La Galindo può essere avvicinata alla performer cubana se si esaminano alcuni lavori circostanziati a una dimensione più organica o a un contatto più diretto con la terra. Ma le differenze sostanziali permangono: la terra non è più terra-madre, ma terra-tomba, luogo di decomposizione. E lo possiamo comprendere pensando alla performance Tierra, del 2013. La domanda da cui parte l’azione è questa:“Come uccidevano le persone durante gli anni di guerra civile?”. La risposta è la seguente: un macchinario scavava la fossa e un camion portava lì i prigionieri, i quali venivano prima trafitti con una baionetta e poi gettati nella fossa. La scavatrice è quindi la protagonista di questa performance. Regina resta in piedi, nuda, immobile, mentre una pala meccanica le crea attorno una fossa, gettandole addosso la terra che solleva.
Ancora legata al tema della morte è Cortejo, azione del 2013 in cui la performer resta chiusa in un feretro, all’interno di un carro funebre che percorre le strade della sua città.“Vivere in una città a rischio significa vivere con l’idea della morte sempre accanto”. Del resto Regina ama autodefinirsi un “essere politico”. Un essere che ha deciso di fare del proprio corpo un grido, una voce di protesta, un discorso sovversivo. E della propria arte, un viaggio improntato sulla poetica della violenza. “Sono consapevole che non tutta l’arte debba essere politica, ma è una conseguenza di come l’artista vede e vive la propria vita”.
Il suo coraggioso percorso è stato premiato nel 2005 alla 51esima Biennale di Venezia. In quella occasione Regina ha vinto il Leone d’Oro come migliore artista under 35. La città di Milano le ha invece dedicato una corposa retrospettiva nel marzo 2014, presso il PAC (Padiglione d’Arte Contemporanea). Estoy viva era il titolo, sotto la curatela di Diego Sileo ed Eugenio Viola che già nel 2012 avevano collaborato per la realizzazione di The Abramović Method.

WSI


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