giovedì 24 maggio 2018

Morto Philip Roth, dissacrava con le armi del sesso e dell’ironia

Philip Roth

Morto Philip Roth, dissacrava

con le armi del sesso e dell’ironia

Lo scrittore americano è scomparso a 85 anni. Eterno candidato al Nobel 
se ne va proprio nell’anno in cui il Nobel per la Letteratura viene sospeso


23 maggio 2018 (modifica il 23 maggio 2018 | 09:11)



L’eterno candidato al Nobel per la Letteratura se ne vaproprio nell’anno in cui il Nobel per la Letteratura viene sospeso. E per una storia di prevaricazioni sessuali che solo con molta superficialità può essere associata alle atmosfere e alle ossessioni che trasudano dalle opere di Philip Roth. Nathan Zuckerman, l’alter ego di Roth, non ha né l’arroganza né la volgarità né la miseria del molestatore. Nell’Animale morente, Roth dà voce alle angosce, alla paura della morte, ai fantasmi che avvelenano l’esistenza di un professore sfidato dal tabù della vitalità negata, delle forze che scemano, del desiderio che ti perseguita quando vieni sfidato dalla giovinezza sfacciata e apparentemente (e solo apparentemente) esuberante. I ricatti sessuali di un vecchio laido sulla giovane studentessa non c’entrano niente con questa storia magnifica e tragica. Ma Roth ha sempre subìto la prepotenza dei fraintendimenti. Con il Lamento di Portnoy qualcuno volle vedere, pesantemente giocando sull’equivoco, un’esibizione invereconda di pornografia adolescenziale. Qualcun altro, nel mondo del tradizionalismo ebraico, male interpretò quell’opera tanto scandalosa come un attacco alle fondamenta dell’identità degli ebrei, una derisione crudele e gratuita, manifestazione tipicamente psicopatologica di odio di sé stesso di un giovane ebreo che insulta il suo popolo e lo vuole mettere alla berlina.
Tutto falso, tutto pretestuoso. Ai due estremi della vita, l’animale morente e il ragazzo ossessionato dalla febbre di un erotismo acerbo ma incontenibile raccontano una storia che non può essere ridotta e svilita nella mediocrità di una cronaca, o peggio nella galleria dei cattivi esempi che lettori malintenzionati potrebbero ritrovare nelle pagine di due grandi romanzi. Roth, come personaggio che faceva opinione e aveva costruito nel corso degli anni e dei decenni in tutto il mondo una numerosa legione di fan affezionati e fedeli, sapeva cogliere il grottesco nella seriosità, il lato desolatamente comico della retorica ufficiale, la macchia nascosta nel lindore della correttezza neoconformista. Veniva amato per questo dagli insofferenti, da chi detesta il tribunale delle buone cause, dalla polizia culturale che si annida nei nuovi fustigatori delle parole e dei concetti sconvenienti. Roth era un pilastro della cultura democratica americana, ma nella Macchia umana la sua visione delle cose non gli impediva di ignorare la maschera dell’intolleranza di chi, soprattutto nelle accademie intrise di un fanatismo ideologico sempre più pervasivo, fa di un errore un peccato mortale, di un’ingenuità una perversione morale da punire con il linciaggio e l’esclusione. Roth ha guardato con simpatia ai sommovimenti che hanno scosso l’humus bigotto della vecchia America, ma con Pastorale americana ha saputo descrivere con animo dolente lo sgretolamento tragico di una tradizione che pure si era meritata un rispetto e una solidità di valori destinati tuttavia a svanire. Roth soffriva per le vittore repubblicane ma irrideva il popolo democratico che vaneggiava baloccandosi con i fantasmi di un auto-esilio caricaturale. Anche per questo Philip Roth ogni anno, ogni autunno, veniva immancabilmente indicato come possibile vincitore del Nobel che sistematicamente gli sarebbe stato negato. E forse gli sarebbe stato negato anche quest’anno se il Nobel non si fosse poi negato a sé stesso.
L’Accademia diffidava di uno scrittore così poco accademico, di un pensatore (sì, Roth pensava, studiava, si informava, non si atteggiava a poeta romantico trascinato istintualmente dalla febbre dell’immaginazione scatenata) che non si adeguava al Pensiero tramandato e consacrato. Un’Accademia, come quella svedese, che adesso si è rivelata corrosa dall’ipocrisia e della doppia verità, i difetti che Philip Roth osteggiava e colpiva con il suo sarcasmo e il suo disincanto.
Roth sapeva usare le armi dell’umorismo da esercitare su tutto, anche su Israele e sul sogno sionista, che difendeva con passione, ma senza la cecità del seguace fanatico incapace di vedere le proprie manchevolezze. Roth coltivava la pietas per l’animale morente in lui e in noi. Ma non esitava a definire, contro le melensaggini dell’ottimismo pubblico, la vecchiaia un «massacro». Sì, massacro. Non l’allegro declinare accompagnato dagli incoraggiamenti del giovanilismo ridente ma un cupo, tragico massacro. Da raccontare con le armi acuminate dell’ironia. Ecco perché c’era un esercito di seguaci che lo ammirava e un esercito di detrattori che lo detestava. Con Roth o contro Roth. Anche ora, a battaglia conclusa.




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