MARKUS GABRIEL
Il mito della caverna e le nostre paure
Traduzione di Simone L. Maestrone
Anticipiamo il testo che il filosofo Markus Gabriel legge il 3 luglio a Palazzo Corio
Casati alle 21 per la Milanesiana, la rassegna ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi
3 luglio 2015 (modifica il 8 luglio 2015)
Il mondo del felice è un altro
rispetto a quello dell’infelice
LUDWIG WITTGENSTEIN
Di Markus Gabriel, Bompiani ha pubblicato «Perché non esiste il mondo»
CORRIERE DE LA SERA
Il mondo del felice è un altro
rispetto a quello dell’infelice
LUDWIG WITTGENSTEIN
L’antiquata metafisica europea è figlia della paura, e lo è perché essa vuole rispondere a una specifica domanda che l’uomo si pone, a causa del suo sentirsi minacciato. La domanda suona così: quale struttura d’insieme hanno tutti gli oggetti che in generale esistono? In questo modo viene sollevata la distinzione fra la realtà, il mondo in sé, da una parte, e l’apparizione, l’illusione, la finzione e l’immaginazione, dall’altra. Da millenni la realtà è il nome che sta per un intero onnicomprensivo, il mondo, che si trova “là fuori”. Ma dov’è “là fuori”? Con l’aiuto di una paleoantropologia leggermente speculativa si può con facilità pervenire al seguente pensiero: “là fuori” è l’ambito che sta fuori dalla caverna. L’uomo si è rifugiato nella caverna e lì ha iniziato a dipingere la realtà sulle pareti di roccia. In questo modo egli cominciò a rendere metafisica la realtà. Qui all’interno, nella caverna, l’uomo è certamente al sicuro, ma la caverna è allo stesso tempo un ambito dell’illusione. Giacché, che ci piaccia o meno, i pericoli là fuori continuano a esistere.
Si legga su questo sfondo, per una volta in maniera diversa, il mito della caverna di Platone, la scena originaria della metafisica. Qui dunque il vero mito della caverna. Il nostro antenato, l’uomo primitivo, siede sul ciglio di una caverna posta su un’altura di una montagna. Da lì egli può osservare, a distanza di sicurezza, la realtà là fuori. L’uomo pratica così l’attività teorica, il puro contemplare. Ciò che egli vede è lo spazio dei pericoli, che si colloca ai suoi occhi fra il cielo e la terra. Per questo l’orizzonte è così importante. Esso delimita la località del mondo, la realtà, in quanto ambito fra cielo e terra. Un’idea, questa, presente in tutte le religioni e mitologie. Nel far ciò egli si trasforma in un soggetto, in un luogo “qui dentro”. Ma questo soggetto è un soggetto della paura. Noi sediamo sempre e ancora nella caverna. Siamo l’uomo primitivo, che s’abbellisce con la tecnica e la scienza, ma che, con tutto ciò, siede ancora nella stanza della paura. Con la parola “realtà” egli si ostina a comprendere esclusivamente ciò che lo minaccia, e che si trova, però, a distanza di sicurezza. Si può allora riflettere su questa scena, nella quale ci si ritrova malvolentieri. Come abbiamo detto, la metafisica è figlia della paura. Si descrive la realtà corredata di tutto ciò che fa paura. Oggi questa realtà è chiamata solitamente l’“universo”, talvolta lo “spazio-tempo”. L’universo è una “gelida terra natia” (Wolfram Hogrebe). Esso è composto solo da insensibili oggetti fisici. Ma anche questa visione è stata polverizzata nell’ultimo secolo di storia della metafisica.
La realtà della paura, da cui siamo posseduti, consiste nell’immagine secondo cui saremmo immersi, in quanto animali mortali, in un mare radioattivo che prima o poi ci inghiottirà. Sì, molti fisici vanno così lontano nei loro incubi metafisici da ritenere i corpi solidi, come i pianeti e i soli, una specie di ridicolo pulviscolo, briciole di una realtà fisica a noi inaccessibile, per la quale è prima di tutto segno distintivo l’indifferenza nei nostri confronti. Detto in breve: Dio non è realmente morto, esso si è piuttosto tramutato in una specie di mostro cieco, costituito da radiazioni e materia oscura che, in ultima istanza, ci rimarrà per sempre sconosciuta. Questa è la realtà della paura, la pseudo-scientifica immagine del mondo della metafisica contemporanea. L’uomo primitivo rabbrividisce di paura di fronte alla fredda notte oscura là fuori, anche se oggi questo “là fuori” è l’universo al di là della luna, e non più i leoni della savana che si potevano osservare dal ciglio della caverna. I leoni sono diventati radiazioni cosmiche. All’opposto di tutto ciò sta la realtà della gioia. Per avvicinarci ad essa necessitiamo di un semplice concetto filosofico, il concetto dell’“esser-qui”. Il poeta Rainer Maria Rilke aveva colto nel segno: “Esser qui è meraviglioso.” Ma perché trascuriamo l’“esser-qui” e, come il torvo pensatore nazista Martin Heidegger, vogliamo piuttosto l’esser-ci, l’essere-per-la-morte, la paura. Su ciò si ascolti di nuovo Rilke: È che dimentichiamo troppo facilmente quel che il nostro vicino ridacchiante non ci approva o non c’invidia. Che la vedano tutti, la vogliamo issare, ma la più visibile delle felicità non si palesa a noi se non quando, nell’intimo, noi la trasmutiamo La realtà della gioia consiste per noi nel riconoscere che siamo qui. Ma dov’è, dunque, questo “qui”? La risposta su ciò può essere data nel modo seguente: noi non ci troviamo in un intero delimitato. Il mondo, l’intero onnicomprensivo di tutto l’esistente, non c’è. Noi ci troviamo piuttosto in una specie di film di Fellini o Sorrentino. Ciò che accade, accade nel bel mezzo di un’infinita apertura che in ogni istante ci stupisce e può renderci felici. E tuttavia noi sappiamo per tutto questo tempo che prima o poi moriremo, ma questo ci è del tutto indifferente. Ma perché mai? Perché la distinzione decisiva è quella fra il sapere che si morirà e il sapere che si ha un cancro incurabile. Con ciò tutto cambia, tutto va in frantumi.
La realtà si trasforma, allora, in una realtà della paura, s’affaccia l’incubo. Ma qui e ora esso non è presente. Qui e ora si può “partorire una stella danzante” (Nietzsche), più tardi non più. Per comprendere questo, abbiamo bisogno della giusta ontologia, della corretta risposta alla domanda intorno a cosa significa propriamente “esistenza”. Per questo ho disegnato la seguente immagine #?#, un’immagine a cui ho dato il nome teorico di “ontologia del campo di senso”: ogni situazione, anche la lettura di queste parole, è caratterizzata da regole che la demarcano come tale. Qui non si tratta, ad esempio, di balene o della soluzione di un problema matematico. E nemmeno potete al momento ordinare una pizza, semmai più tardi, quando sarete in un’altra scena. Il punto è che le differenti scene, che io chiamo “campi di senso”, non sono parte di un unico gigantesco film o dipinto. Esse sono connesse nella nostra vita, ma non in sé. Non vi è alcuna realtà unica che sta sotto a tutto ciò che avviene. Ci sono solo molteplici eventi, ma non l’evento. E questi sono tutti reali. Molte cose accadono ed esistono, ma non c’è l’essere. C’è molto di reale, ma non la realtà. Queste sono le buone nuove, il vangelo della realtà della gioia, La grande bellezza. Poiché verranno, però, anche cattive notizie, chiudiamo questa nostra piccola ode antimetafisica alla gioia con una battuta. Un uomo va dal dottore. Il dottore gli dice: “Ho per lei una buona e una cattiva notizia! La cattiva notizia è che lei morirà entro un mese.” “E quale sarebbe la buona notizia?” chiede dunque l’uomo. “Be’,” risponde il medico, “la buona notizia è che ieri sono andato a letto con la più bella infermiera di Milano!”
Di Markus Gabriel, Bompiani ha pubblicato «Perché non esiste il mondo»
CORRIERE DE LA SERA
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