Poeti e Poesia n°25 |
La rivista “Poesia” celebra i suoi 25 anni, con un’antologia di cento poeti
12 GENNAIO 2013 | di Ottavio Rossani
La rivista Poesia, fondata e diretta da Nicola Crocetti, compie 25 anni. Il numero commemorativo è il 278 di gennaio 2013, da poco arrivato nelle edicole. Numero speciale monografico dal titolo Vite di poeti . Una vera e propria antologia di cento poeti, da Omero a Josif Brodskij. Nell’arco di tempo dal VII secolo a. C. fino al 1998, anno della morte di Ted Hughes, campeggiano nomi come Orazio e Dante, Alceo e Apollinaire, Archiloco e Celan, Esiodo e Pound, Lucrezio e Kavafis, Catullo e Leopardi, Ovidio e Montale, Saffo e Anne Sexton, e via di seguito per altre 84 stazioni . Si potrebbe intendere quasi come un pellegrinaggio dentro le anime dei grandi poeti del mondo. L’editoriale di apertura, firmata da Ezio Savino, ha per titolo Facce da Poesia. Titolo appropriato all’ideazione dell’antologia: per ogni poeta scelto la rivista pubblica una pagina con un profilo, dettato da un poeta o critico contemporanei, e un’altra contenente una breve scelta di testi. “Facce” perché Ezio Savino parte dalle fotografie pubblicate nella rivista per un’analisi fisiognomica/letteraria del poeta prescelto. Il fascicolo consta di 206 pagine. Una scelta rigorosa della rivista è stata quella di inserire in questo florilegio autocelebrativo dei 25 anni solo poeti morti, consacrati da premi Nobel o da indiscutibile fama storica, come Rimbaud o Whitman o Brecht.
Due scelte particolari, ugualmente meritevoli, sono quelle di Miklós Radnóti e Alejandra Pizarnik.
Miklós Radnóti è unpoeta ungherese morto ad appena a 33 anni in un campo di sterminio, ucciso e sepolto in una fossa comune ad Abda, in Ungheria. È stato identificato dal taccuino (Il taccuino di Bor) con le sue poesie, trovato in una tasca dell’impermeabile con il quale era stato sotterrato, quando la fossa comune è stata scoperta e i corpi riesumati. Poesie di grande qualità, che rievocano gli anni felici dell’infanzia e della giovinezza, e che denunciano anche il Male che ha avvolto quei ricordi con la violenza e la crudeltà; poesie come preziosa testimonianza di ciò che ogni giorno accadeva nei campi di concentramento dove ilpoeta era stato internato. Una testimonianza e un monito, in un afflato di straordinaria umanità e di speranza finale che il Male non prevarrà.
“Il filo del ricordo rimane saldo e racchiude in sé la speranza – scrive Anna De Simone nel profilo – che il male non prevalga e che la parola, il verbo, torni a salvare l’uomo dopo la lunga notte della barbarie”.
Alejandra Pizarnik è poetessa argentina, figlia di genitori russi emigrati a Buenos Aires, è morta anche lei troppo presto (ad appena 36 anni, per overdose di barbiturici), lasciando un corpus poetico di grande potenza ed effetto. Temi della sua lirica: angoscia, solitudine, dolore, morte. Disturbi psicologici già in giovane età, che lei cercava di dominare con la scrittura, sia poesia sia prosa. Ma non c’è stata alcuna possibilità per lei di trovare serenità, pace, e desiderio di vivere. Un periodo di vita a Parigi la esaltò, ma aveva una concezione della letteratura come identificazione con la vita,e la verifica che questa fusione non era possibile la spinse sempre più all’estremizzazione del suo rifiuto del corpo, che considerava brutto, pieno di difetti, inaccettabile. Come ricorda Angela Urbano nel breve profilo critico, Alejandra scrisse nel suo diario:
”Potessi vivere solo in estasi, facendo il corpo della poesia col mio corpo…”.
Ma non era possibile. Julio Cortazar e Octavio Paz la apprezzarono molto, la sostennero. Cortazar scrisse per lei una poesia, definendola “passeggera ostinata dell’assenza” e, rivolto al nocchiero dell’Ade, dove presume che lei si trovi dopo la morte, gli suggerisce di accettare, come obolo per trasportarla sull’altra riva, un quaderno e una matita colorata, perché “nessuno pagò a più caro prezzo” il passaggio nella vita. E quaderno e matita erano i beni più preziosi di Alejandra.
Di questi due poeti propongo alla lettura i seguenti testi, trascritti dalla rivistaPoesia.
Marcia forzata
È pazzo, chi è crollato si rialza e di nuovo si incammina,
e con dolore errante nuove ginocchia e caviglie,
eppure si avvia sulla strada come se avesse le ali,
il fosso lo chiama invano, non ha il coraggio di restare,
e se chiedi perché no? Forse ancora ti risponde,
che è atteso da una donna, da una morte più saggia, una morte bella.
Eppure è pazzo, il mansueto, perché laggiù sopra le case
da tempo non giura più che vento bruciacchiato,
il muro è steso sulla schiena e il pruno è spezzato
e la paura è il manto delle notti in patria.
Oh, se potessi credere: non solo portare nel cuore
tutto ciò che ancora vale, e c’è una casa dove tornare?
se ci fosse! E come una volta sulla fresca veranda
ronzerebbe l’ape della pace, mentre si fredda la marmellata di prugne,
e il silenzio di fine estate prenderebbe il sole nei giardini sonnolenti,
e tra le fronde dondolerebbero frutti nudi,
e Fanni mi attenderebbe bionda davanti alla fitta siepe
e lentamente il lento mattino disegnerebbe l’ombra –
forse è possibile ancora? La luna oggi è così tonda!
Non passarmi oltre, amico, sgridami! E mi rialzo!
Miklós Radnóti
Da Mi capirebbero le scimmie. Poesie (1928-1944), a cura di Edith Bruck, Donzelli, 2009.
Di questo libro ho pubblicato la recensione nel blog nel 2009.
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