lunedì 22 febbraio 2016

Gay Talese / “Povera Italia, senza Eco”

Gay Talese


Gay Talese

“Povera Italia, senza Eco”

Lo scrittore americano: «Ha abbracciato la cultura popolare senza snobbarla, conquistando i lettori di tutto il mondo. Per il vostro Paese la sua scomparsa è un disastro culturale»
INVIATO A NEW YORK

Gay Talese ha costruito la sua carriera sulle provocazioni, perciò gli viene naturale farlo anche in morte di Umberto Eco: «È stato il più alto esponente della cultura popolare in Italia, e fra i più alti al mondo. Lascia un vuoto incolmabile, soprattutto nel vostro Paese, perché dietro di lui non c’è nessuno in grado di continuare il suo lavoro fondamentale».

Talese, inventore con Tom Wolfe del «New Journalism» letterario, aveva incontrato di recente Eco: «Ho tenuto il discorso per la consegna dell’ultimo premio che aveva ricevuto a New York. Parlare con lui era sempre un’esperienza molto stimolante. È stato l’autore italiano più influente negli Stati Uniti, dai tempi di Alberto Moravia».

Non dimentica Italo Calvino?

«No, assolutamente no. Calvino piaceva agli intellettuali raffinati e un po’ snob, alla New York Review of Books, all’Università di Harvard che lo ospitava per tenere conferenze di altissimo livello, ma non vendeva copie. Poco o niente. L’ultimo autore italiano che aveva avuto un vero grande successo di pubblico negli Stati Uniti era stato Moravia: dopo di lui, c’è stato solo Eco».

Vendere copie, successo di pubblico: non sono parametri che fanno inorridire i letterati?

«Avere successo di pubblico significa avere successo, punto. Vuol dire essere stati capaci di comunicare e di interessare molte persone, che poi dovrebbe essere l’obiettivo di tutti gli scrittori. Se scrivi, lo fai perché pensi di avere qualcosa da dire, ed è importante che ci siano dei lettori interessati ad ascoltarti».

Perché Eco ha avuto questo successo in America?

«Perché ha abbracciato la cultura popolare, alzandone il livello, invece di snobbarla. Questa è stata la sua vera grandezza. Intendiamoci: Eco era intelligente, colto, erudito, un intellettuale molto profondo e raffinato. Però non rifiutava la cultura popolare. Anzi, la faceva sua e la rendeva migliore. Gli altri intellettuali italiani amano scrivere cose complicate, incomprensibili, spesso illeggibili. Più sono difficili da capire, e meglio è. Così non vendono una copia. Lui invece faceva opere di grande qualità in termini di contenuto, ma anche molto belle da leggere».

Questo ha conquistato i lettori americani?

«No, questo ha conquistato i lettori di tutto il mondo. C’è un aspetto fondamentale del lavoro di Eco, che bisogna sottolineare: amava raccontare, a differenza della maggior parte degli altri autori italiani, e anche europei. Questo fa una grossa differenza, quando sei uno scrittore».

Non è troppo severo?

«No, è la verità. Eco apparteneva a una grande tradizione della cultura italiana, che includeva la letteratura e la poesia, ma anche l’arte e il cinema, da Fellini a tutti gli altri straordinari registi della stessa epoca. Erano artisti che potevano anche avere obiettivi e progetti diversi, ma possedevano tutti una grande capacità di raccontare, e quindi di comunicare quello che avevano in testa. Se il pubblico non ti segue, forse dovresti chiederti se sei tu che stai sbagliando qualcosa, invece di lamentarti delle fortune degli altri».

Però lo hanno ignorato per il Nobel.

«Non è l’unico, purtroppo. Ma credo che il valore del suo lavoro si misuri meglio con le dimensioni innegabili del suo successo internazionale».

Perché la sua morte lascia un vuoto incolmabile?

«Il lavoro di Eco era fondamentale non solo per la sua qualità, ma anche per il messaggio che lanciava all’intera comunità intellettuale, sfidandola ad avere il coraggio di misurarsi con la cultura popolare, abbracciare generi diversi, cercare di comunicare con tutti. Il vuoto che lascia è incolmabile perché per svolgere un compito di questo genere servono qualità straordinarie, che non vedo in nessun altro autore dopo di lui. E questo vale soprattutto per l’Italia, dove la sua scomparsa rappresenta davvero una perdita enorme. Direi quasi un disastro culturale».


Perché?

«Cosa rimane, ora? L’Italia è stato il Paese dove ha avuto origine buona parte della cultura occidentale, e fino a mezzo secolo fa aveva ancora delle eccellenze internazionali, di cui Eco faceva parte. Mi riferisco alla letteratura, all’arte, alla grande e varia tradizione del cinema, dal neorealismo a Fellini, passando per tutti gli altri grandi registi che hanno lasciato un segno nell’immaginario del mondo intero. Ora cosa rimane? Avete ancora la moda, e poco altro. Eco non era importante solo per il valore della sua produzione letteraria, ma anche perché rappresentava uno stimolo, una sfida lanciata alla cultura italiana, affinché avesse il coraggio di aprirsi, sperimentare, cercare l’innovazione in tutti i settori. Per questo è una perdita enorme per il vostro Paese. La sua morte rappresenta la fine di un’era, e dietro non c’è molto altro per continuare quella tradizione di successo. L’unica speranza è che la sua scomparsa rappresenti uno stimolo, un elemento di riflessione, per spingere l’Italia rilanciare una vita culturale più intensa e coraggiosa».




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