domenica 14 febbraio 2016

Il grido letale della mandragora / Miti e riti di raccolta


Bateman, Tre donne raccolgono la mandragora


Il grido letale della mandragora

Miti e riti di raccolta. Per esplorare il divino con il gesto e la parola


Può una pianta urlare orribilmente di dolore se estirpata dal terreno? Può indurre un uomo alla follia con i suoi effluvi nocivi? Può ritrarsi quando mani inesperte la avvicinano? Può, infine, richiedere il sacrificio di una vita, come prezzo per la sua trasformazione in farmaco? La mandragora, erba eletta della venefica Circe, possiede queste facoltà. Solo il rizotomo espertissimo conosce i segreti che ne consentono la raccolta.
Estrarre dalla terra la sua radice equivale a disseppellire un defunto riportandolo in vita. Inoltre, così come l’essere umano si affaccia alla vita con il grido acuto del pianto, anche questa pianta si separa dalla terra emettendo un urlo agghiacciante, e tanto è potente e velenoso quel lamento disperato, che ha la forza di togliere il senno o perfino di uccidere colui che la sta estirpando. Anche l’odore è estremamente tossico e insopportabilmente intenso, e chi lo inala può perdere l’uso della parola. Per tutte queste ragioni è bene che il raccoglitore proceda con la massima precauzione e seguendo regole precise.
Innanzitutto agisca durante la notte, perché la mandragora, che di giorno si confonde tra le altre erbe, nel buio si accende di un colore di fiamma e brilla come una stella. Dopo averla individuata, ovattate le orecchie con della cera, il rizotomo tracci tre cerchi concentrici intorno alla pianta servendosi di una spada di ferro, e subito la recida rivolgendo lo sguardo ad ovest; infine, nell’atto di sferrare il secondo taglio, dovrà danzare intorno ad essa pronunciando formule d’amore. Poiché il pericolo di morte è altissimo, alcuni si affidano a una pratica più sicura: dopo aver ammorbidito la terra intorno alla radice, recano con sé un cane al guinzaglio (che sia affamato!) e assicurano il capo libero della catena all’attaccatura della radice, laddove essa emerge dal suolo e genera il fogliame. Il padrone a questo punto lancerà lontano alcuni pezzi di carne succulenta per stimolare il cane: questo, lanciandosi in una corsa energica per afferrare il cibo, estirperà finalmente la radice trascinandola con sé. Tuttavia, inevitabilmente, l’orribile grido della mandragora sarà fatale per l’animale, ed esso morirà al sorgere del sole. Il raccoglitore seppellirà infine il cane nel punto esatto dell’empia estirpazione della pianta. Espiato il sacrilegio con il sacrificio di una vita, la mandragora, placata, perderà il suo potere letale e si trasformerà in un farmaco stupefacente, capace di scacciare da un corpo qualunque demone.
La raccolta di una pianta dalle virtù eccezionali rappresenta in tutto e per tutto un atto cosmico, e come tale necessita del supporto di una ritualità che ne interpreti la natura sacra. Il rizotomo è al contempo raccoglitore e sacerdote: conosce i gravi pericoli a cui si espone chiunque interferisca con le forze naturali, ma vi si avventura in quanto custode di liturgie di raccolta che sanno unire la destrezza del gesto all’evocazione magica della preghiera. Nulla può essere lasciato al caso: la purificazione preparatoria, la posizione rispetto all’erba al momento del taglio, l’abbigliamento, la stagione e l’ora del giorno. È indubbio che alcune precauzioni rispondessero a concrete esigenze di prudenza, specie nel caso di raccolta di erbe velenose, sebbene in alcuni casi fosse la superstizione più cieca a prendere il sopravvento. Spesso il fulcro del rito era l’invocazione, l’incantesimo rivolto alla pianta oppure al dio o al demone al quale essa era consacrata: il “cantus”, la parola incantatoria, che si fa alito gentile e propizia il rilascio delle virtù benefiche, chiamando la pianta stessa alla sua vocazione terapeutica. La mandragora chiede danze e parole d’amore; il rito, mettendo in comunicazione macrocosmo e microcosmo, consente di attirare l’attenzione degli dèi sulle vicende dell’uomo.
Separare questa pianta dall’abbraccio della terra madre è un atto empio che deve essere propiziato con il sacrificio di una vita. La radice è ancorata saldamente alle profondità del sottosuolo, quel mondo sotterraneo che brulica di vita ma è anche dimora di demoni. Eppure, di notte il fiore si accende di una luminosità splendente, squarciando le tenebre per rendersi visibile all’uomo: quasi un richiamo d’aiuto, una tacita richiesta. Infatti è solo attraverso il rito della raccolta che la pianta si libera delle esalazioni letali che la avvincono, agevolando la trasformazione in farmaco. Il tutto ha luogo nell’orizzonte temporale che segna il passaggio dal buio alla luce: il sacrilegio dell’estirpazione infatti è coperto dalle tenebre della notte, sotto il dominio femminile della luna, ma solo ai primi barlumi dell’alba e con l’avvento dell’astro diurno l’atto cosmico si realizza pienamente. Il sacrificio del cane, animale infero, ha lo scopo di redimere l’empietà e favorire la consegna del dono spirituale.
La medicina empirica ne sfruttava le ricche potenzialità. Tra le molteplici definizioni della mandragora vi era anche quella di “radice della follia”. Essendo una pianta di natura lunare, era ritenuta efficace nella cura dell’epilessia e negli squilibri psichici; come narcotico, godeva di largo impiego come sonnifero e come anestetico in chirurgia. Ma l’immaginario della mandragora si lega soprattutto alle memorie dell’antica medicina magica. A destare grande stupore in origine dovette essere la forma della radice, con i suoi contorni vagamente simili a quelli di una sagoma umana: è infatti biforcuta, come a formare due gambe, e presenta radici laterali più sottili che ricordano due braccia. Le foglie emergono dal terreno come ciocche di una folta capigliatura e sembrano volersi liberare da una prigionia ctonia. Tra le gambe gli antichi parevano scorgere addirittura una differenziazione sessuale, e si spingevano a classificare la specie nelle categorie di maschio e femmina.
Secondo i paradigmi della medicina simbolica, la natura si propone di rivelare il potere curativo dei vegetali attraverso “segnature”, ovvero segnali, indizi, simboli, talora palesi, talora sottilmente nascosti. La mandragora, in virtù delle sue fattezze umane, era considerata una sorta di doppio vegetale dell’uomo e della donna; allo stesso tempo, sul piano curativo, un rimedio rivolto all’essere umano nella sua totalità, ovvero una panacea. Infine, il legame con le arti di Circe, ambivalente interprete del femminile, la vincolava ai temi dell’eros, conferendole fama di potente afrodisiaco, e ne faceva l’ingrediente principe della stregoneria femminile.
Nella procedura ripercorsa dal raccoglitore/sacerdote si fondono rito e mito; il primo, più arcaico, ha lo scopo di forgiare la realtà attraverso la forza del gesto e della liturgia; il secondo ne stabilisce la veridicità tramite il racconto e consente di tramandare il sapere. Insieme, le due modalità divengono complementari allo sviluppo dell’esperienza simbolica. Ogni passaggio rituale, ogni comparsa della rappresentazione mitica, interpretano gli antichi archetipi legati alla sacralità delle erbe. A partire dalla mandragora stessa, che come erba di Circe condivide con la maga ambiguità e contraddizioni, presentandosi come pianta apportatrice di vita e di morte. Veleno, farmaco e filtro al contempo. Rito, associazione mitica e proprietà medicinale rimangono saldamente uniti in una relazione indissolubile.



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