martedì 15 dicembre 2015

Il «grazie» di Montale al premio Nobel

Eugenio Montale
Poster di T.A.


Il «grazie» di Montale al premio Nobel

Dal Corriere della Sera del 24 ottobre 1975, dopo l’annuncio
Testo di Giulio Nascimbeni
Ricerca iconografica di Leda Balzarotti e Barbara Miccolupi

Ore 13 di ieri, al terzo piano di via Bigli 15, nella casa di Eugenio Montale, suona il telefono. Risponde la Gina (Gina Tiossi, un discreto personaggio di governante che da quasi 40 anni vive accanto a Montale). Il poeta sta fumando in compagnia di due amici del Corriere, Gaspare Barbiellini Amidei e chi scrive. La Gina entra nel salotto: «Chiamano dall’ambasciata di Svezia», dice. Montale si alza dalla poltrona con un po’ di fatica, spegne la sigaretta, si appoggia al braccio della Gina, va al telefono.
«Oui, monsieur… Je suis très heureux de faire votre connaisance». Dall’altra parte del filo c’è l’ambasciatore. La serie degli oui si sgrana fitta e continua. Poi comincia quella dei merci. La scena ha una castità e una semplicità straordinarie. Le pareti della casa sono vuote: i quadri non sono ancora stati riappesi dopo l’estate. L’annuncio del premio Nobel avviene nella piccola anticamera che precede la cucina, tra un vecchio frigorifero la porta del bagno di servizio. Montale con una mano si appoggia a una maniglia. Dice ancora una volta merci. Riattacca. La Gina lo bacia sui capelli, poi gli domanda: «Andiamo a tavola?». In cucina sono pronti il riso all’olio e due polpette con l’insalata.

La prima poesia 

Montale chiede un piccolo rinvio: «Fumo un’altra sigaretta con questi miei amici. L’ambasciatore mi ha raccontato che scrive poesie anche lui». Torna a sedersi. «Dovrei dire cose solenni, immagino. Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?». Si sentono altri squilli del telefono. Alla porta c’è un inviato della televisione svedese. «Ciao, dice, adesso mangio, poi vado a riposare». Da tre ore Montale era in attesa. Il giorno prima, mercoledì, uno dei suoi traduttori in svedese, il Prof. Oreglia, lo aveva avvertito che l’assegnazione del premio era ormai sicura al 90%.«Come ha passato la notte?». Gli chiedo. «Con la mia solita insonnia. È sessant’anni che ne soffro. Il Nobel non c’entra», risponde. «Degli altri probabili vincitori cosa pensa?». «Ho saputo che c’era anche Simone De Beauvoir. Dicono che sia una donna terribile. Come fa Sartre a starle insieme da tanto tempo?».
Sono le undici, da Roma è arrivata una giornalista svedese, Martha Larsson. Deve tracciare una rapida biografia del poeta. Si comincia dalla data di nascita: 12 ottobre 1896. «Ho scritto la mia prima poesia a 5 anni. La ricordo perfettamente: Il vaso era il posto noto – né pieno né vuoto». A poco a poco avviene una metamorfosi abbastanza consueta quando si intervista Montale. La sua insaziabile curiosità delle cose della vita, che è una specie di reazione alla solitudine di cui si è sempre circondato, lo porta a essere lui l’intervistatore. Alla Larsson che gli chiede se ha lettori in Svezia risponde: «Sì, mi mandano delle cartoline con slitte trainate da cani. Ma come risolvete i problemi del riscaldamento con tutto quel freddo? In quanti siete? È vero che da voi non c’è modo di sfuggire alle tasse?». La giornalista gli risponde che è vero. «Allora il vostro governo non piacerebbe agli italiani», commenta Montale. La Larsson insiste: «Cosa ne pensa della situazione italiana?». La risposta è: «Finirà bene. Non ho mai visto un Paese che muore perché un bilancio è in passivo. Mio padre, ai primi del secolo, diceva sempre: “È una catastrofe, non si può andare avanti”. Sono passati più di 70 anni. I discorsi sono sempre uguali. Solo al tempo del fascismo non si faceva perché non si poteva parlare. Adesso siamo forse arrivati all’eccesso opposto: Dal mutismo alla logorrea». La Larsson vuole condurlo a pronunciarsi sul problema dell’aborto. Risponde: «Non siamo molto bravi a interpretare le leggi. Quando è arrivato il divorzio, molti hanno creduto che fosse obbligatorio. Adesso c’é il pericolo che tutte le donne si sentano obbligate ad abortire. Ma è vero che in Svezia non ci sono poveri?».
Eugenio Montale

Martha Larsson se ne va. Dalla Mondadori, la casa editrice che pubblica i suoi libri, gli chiedono una dichiarazione ufficiale. I «tic» del volto si accendono tutti all’improvviso. La bocca sbuffa con quel sibilo che a volte gela l’interlocutore. «Come si fa a dire cose non banali?», domanda. Detta qualcosa: «L’altissimo riconoscimento che mi viene dall’Accademia svedese é per me motivo di soddisfazione…». Ci ripensa. Si ferma. I «tic» riprendono il sopravvento, torna a dettare: «Non sono mai stato in Svezia e non conosco personalmente i miei traduttori in lingua svedese. Questo fatto aumenta in me la profonda gratitudine per il riconoscimento che mi viene da un Paese che ha alte tradizioni di cultura e di profonda fede democratica. Mi ripropongo di andare in Svezia e ringraziare personalmente i miei nuovi amici». 
Segue un’immediata postilla: «Andrò a Stoccolma, ma non vorrei fare discorsi». È quasi mezzogiorno. Lo prende un dubbio: «E se poi non vinco? E se poi decidono di cambiare opinione?». Ride nervoso. Gli ricordo che il Nobel coincide con i 50 anni di Ossi di seppia. «Il volume costava sei lire», risponde. «Ne furono stampate mille copie. Dovetti darmi da fare per convincere parenti e amici a prenotarlo. Il primo titolo che avevo proposto era “Rottami”».

Un fischio, un segno

Il tempo scorre lento. Si parla di giornali: «Ho sentito che quello di Scalfari, “La Repubblica”, uscirà in un formato quasi tabloid. Che convenienze ci sono?». Poi il discorso passa al «Corriere»: «Chi c’è nella stanza dove stavo io con il povero Emanuelli? Via Solferino è diventata troppo lontana per le mie gambe. Devo muovermi ogni giorno, me l’ha ordinato il medico, ma non fare tanta strada. Se andrò a Stoccolma dovrò tirare fuori lo smoking. È da quando ho smesso di fare il critico musicale che non lo indosso più». «Ha scritto poesie in queste ultime settimane?», domando. «No, sono appena rientrato da una lunga vacanza a Forte dei Marmi. Adesso posso concedermi lunghe vacanze. Andavo alla spiaggia tutte le mattine. Ma non ho scritto poesie». Non sembra sincero del tutto. In qualche cassetto forse c’è qualcuno di quei foglietti su cui ha sempre abbozzato le sue poesie: quei foglietti che un’antica domestica, Maria Bordigoni, trovava nelle sue tasche e buttava via. Maria non sapeva leggere. Le interessava ricuperare i fiammiferi o i bottoni che si erano staccati.


Eugenio Montale

Sarebbe forse ora di fare qualche domanda sull’intera sua vita, sull’intera sua opera. «Globale è un aggettivo che detesto», replica subito: «Messaggi? I messaggi è meglio non mandarli». Si stenta a superare il muro del paradosso. Montale è sempre stato così. L’imminenza del Nobel non l’ha cambiato. Concede una brevissima frase: «Per me la poesia è un invito alla speranza» ma subito se ne ritrae. «Ho sempre provato un po’ di vergogna a sentirmi chiamare poeta. Nei registri degli alberghi, mi sono sempre qualificato come giornalista». «E dopo il Nobel?», azzardo. «Magari diventerò Papa. Se c’è tanta avanguardia, tanto dissenso nella Chiesa, perché un borghese non potrebbe diventare Papa?».
Gli chiedo: «E se Mosca, sua moglie, fosse ancora viva, che cosa direbbe in un giorno come questo?». «Sarebbe contenta, ma poi aggiungerebbe che hanno un po’ esagerato». Gli vengono in mente dei versi che ha dedicato a Mosca: «Avevamo studiato per l’aldilà – un fischio, un segno di riconoscimento. – Mi provo a modularlo nella speranza – che tutti siamo già morti senza saperlo». Fa sentire com’era quel fischio, lo «modula». Sembra un pigolio che esca da una gabbia, o da un nido. «Non era un’invenzione poetica. L’avevamo studiato davvero, ma c’era un grosso errore, l’ho capito dopo. Se si è morti, si è senza corpo. Il fischio esige un corpo. È tutta una faccenda che non sta in piedi». 

Alla radio

È l’ultimo paradosso. Sono le tredici. Arriva la telefonata dell’ambasciatore di Svezia. La Gina apre la radio, stanno dando la notizia. Mettono in onda un’intervista di qualche anno fa, quando uscì Satura. La radio è in cucina. Per chi crede nella poesia e in Montale, non è un momento come tanti altri. Questo non se andrà mai dalla memoria. Una cucina, una pentola che fuma, le pareti vuote, il senso d’una distanza che nemmeno il Nobel riesce a valicare. Fuori c’è la città. C’è anche l’indifferenza della città. La sua «decenza quotidiana» forse è una lezione troppo ardua. La sento presente in questo silenzio appena rotto dalla radio, in queste stanze dove si è accumulata come un pulviscolo una lunga, lucida solitudine. Montale si siede, ascolta la sua stessa voce. È scosso, e la mano che accende la sigaretta trema più di sempre. Invano cerca di vincere l’emozione con la battuta che ho già citato: «Dovrei dire cose solenni…».


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