Derive
Il mondo sommerso
Ti vedevo dall'alto. Nettamente. Della folla tu eri l'occhio. La tua testa l'iride accesa di bellezza. Le spalle bianche, ampie. Il movimento lento, tuo.
Tra tutti i muri, le scale, le ringhiere, gli ostacoli naturali e innaturali che si contrappongono a noi, come i promessi sposi della periferia est di Milano, che manco si conoscono, dalla cima delle rovine del mondo, io ti guardo, con la mia tazza scheggiata di caffè, il mio pigiama largo alle estremità, consumato dal mio continuo strisciare sotto il filo spinato dei sogni che non voglio. Ti guardo e sei lo spettacolo del mio planetario minuscolo dove tu sei unico astro. Ne abbiamo fatte tante di manifestazioni, di cortei contro qualcosa, prima di voi. Ne abbiamo sventolate tante di bandiere, comprate nelle cartolerie insieme ai pennarelli indelebili, alle forbici con le punte arrotondate. Ne abbiamo urlate di rime che ci spaccavano il petto come quelle delle poesie, ma più stupide e più violente, bombe di ironia nella nostra vita serissima.
E adesso tocca a te, essere lì sotto al sole invece che sui banchi di scuola, a protestare contro il sistema, lo stesso che ti ha messo l'abbonamento mensile in tasca, la bustina del tabacco, e gli appuntamenti mancati di tuo padre con tua madre che per sempre lo aspetta come una colonna di speranza. Adesso tocca a te, che ti divincoli dalle sciarade dell'essere grande e ancora vuoi qualcuno che ti rincorra per non farti cadere, mentre corri, corri, corri, e non sei altro che un occhio cieco che commuove la vita.
Sorseggio caffè e il muro è freddo sul mio braccio destro, e il vetro diventa umido di me sul contorno delle labbra riflesse, e non mi verrebbe mai in mente di aprire la finestra, o di urlare il tuo nome. Me ne sto lenta come la moviola di ciò che tu conosci, a gustarmi il panico composto del tuo essere parte del tutto, significando niente. Poi ti vedo scavare nella tasca, avvicinare la mano all'orecchio, ed in quello stesso istante il mio telefono squilla. Il tuo nome sul display. “Posso salire?”. “Sali.”
Mi metto il cardigan di lana rosso, mi lego i capelli in alto, scomposti. Mi guardo nello specchio dell'ingresso. Ho trentaquattro anni in ogni angolo del viso. Il campanello suona, leggero come se spingesse un dito di vento. Apro. Hai l'affanno. I capelli neri con la griglia di luce da cartone animato. Gli occhi fissi, le labbra socchiuse inchiodate di fossette sul viso liscio. Sembri chiedermi aiuto per qualcosa che non so e che non sai. Per qualcosa che ti ha ingannato, per una promessa che mai ti è stata fatta.
“Entra”, dico. Cammini mentre cammino, e in mezzo all'universo io sono quella che ora ti cammina accanto, non più la folla strepitante che ti chiudeva, gabbia toracica della tua gabbia toracica. “Che succede?” chiedo. “Non so nemmeno cosa vogliamo.” dici. E sembri chiederlo a te, a me, al mondo, a quelli che fanno inni banali sotto la mia finestra. “Mi sentivo una barca senza remi”, dici. “Che andava alla deriva.”
Ti guardo. Sorrido. Ti invito a sederti, vado a prenderti una tazza di caffè. Torno e sei sul margine più esterno del divano. Ti dico che di certo non te ne intendi di linguaggio del corpo, visto che quello è un netto segnale che indica che vuoi scappare via. Sorridi, e dici: “Ma no, no...” sottovoce. Ti tiri indietro per affondare nei cuscini, per farmi capire che invece vuoi restare.
“Vi ha trovati preparati il professor Rinaldi?”, chiedo. “Uhm, boh. Abbastanza.” dici. Ti guardi la mano aperta sulla coscia, l'altra mano stringe sospesa la tazza fumante. “Com'è andata l'ultima versione?” chiedo. “Ma che ne so. Che senso ha studiare il latino, boh... Una lingua così vecchia... Cioè, non per offendere lei eh, anzi. Lei è stata meglio del prof Rinaldi.” “Non mi sembra.” Rido. Sorridi, guardi giù. Hai ciglia che sembrano ali.
Sollevi lo sguardo. Torni serio. Il rosso del sangue emerge tenue sulle tue guance. “Ritornerà?” chiedi. “No. Ho chiuso con le supplenze.” dico. Tutti i progetti per organizzare il mio futuro mi scorrono davanti agli occhi, e mi sembrano troppo complicati da spiegare, e quindi non spiego. Non serve. “Perché me lo chiedi?”. “No, così.”. Così. Così. Nella somiglianza che cerco con qualcuno o con qualcosa, nel tuo fissare il niente attraverso lenti di purezza, io cerco memoria di me. Sei la nostalgia che si fa corpo, che si condensa. Che mi viene in soccorso, che mi risveglia. Come ero io, come sarei stata adesso, avrei abbracciato il tuo corpo sul sedile di dietro del tuo scooter, avrei aspettato di baciarti sulla soglia di casa mia, prima di fare i compiti, con mia madre che mi chiama perché è finito il nostro tempo, perché siamo valvole di libertà in questa asfissia del mondo dei grandi, che mettono regole e tubi al gas euforico della nostra esistenza. Però non sono e non sarò più coetanea della tua carne, del tuo gruppo preferito, del tuo lunedì mattina, della tua maglia bianca. Sono anche io, qui, ora, grande, a riparare gli strappi che la tua inesperienza mi produce. Ma sono in questa età di mezzo in cui non sono niente, in cui mi vedo fiorire e sfiorire, come una pianta carnivora con la trappola a scatto, e più sbrano per vivere e più muoio.
E sono sempre così lontana dalla follia che la posseggo, e sono vittima di ogni retaggio, sono costretta a toccare ogni suolo, a rinnegare, a dimenticarmi nell'ospizio prima ancora di diventare vecchia, perché questo è un passaggio in cui io devo essere qualcuno o qualcosa, e fare figli, e avere marito, e avere un lavoro, e avere dei soldi, e avere dei mobili miei, e avere un conto in banca, e avere il frigo pieno, e avere i vestiti in ordine, e intanto ti sono addosso, che sei maggiorenne da dieci giorni e poche ore e quando tu sei nato forse io facevo l'amore con un altro come te che era come me ed io ero la prima, ed io sono la prima ora, e mi muovo su di te, coi remi delle mie dita che ti cercano e ti guidano, e stiamo andando alla deriva, sì, e senti le onde perché io sono le onde, e trattieni il respiro, e sotto di noi l'oceano degli altri brilla di coralli e brulica di squali, e non c'è niente che possa farmi sentire in colpa, perché mai sono stata così infinitamente viva.
Così infinitamente viva.
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