Ettore Scola |
Pif: “Il mio anno con il Maestro, mi ha sedotto e abbandonato”
Il giovane regista: “Negli ultimi mesi ci siamo molto frequentati. È il mio modello, non sono riuscito a fargli vedere il nuovo film”
Pif e Ettore Scola alla Festa del Cinema di Roma
FULVIA CAPRARA
ROMA
La voce
spezzata che impone brevi silenzi, le parole che vengono fuori a fatica. Il Pif
del giorno seguente alla scomparsa di Ettore Scola non è quello che siamo
abituati a vedere dai tempi delle Iene: «Conoscevo Scola solo da un anno, ma
oggi mi sento come se fossi stato sedotto e abbandonato, conquistato e poi
lasciato lì, da solo».
L’incontro
ravvicinato era legato alla realizzazione di Ridendo e scherzando - Ritratto di
un regista all’italiana, documentario scritto e diretto dalle figlie
dell’autore, Paola e Silvia, con «l’amichevole partecipazione» in veste di
alter-ego di Pierfrancesco Diliberto, ovvero Pif. Presentato all’ultima Festa
del cinema di Roma, il film arriverà nelle sale il 1° e il 2 febbraio,
distribuito da 01.
La scelta
dell’intervistatore Pif non era stata casuale. Nella sua opera prima La mafia
uccide solo d’estate, c’è un tono che accomuna il grande maestro
all’esordiente, una capacità speciale di raccontare l’Italia seria con ironia,
di parlare di grande Storia usando piccole storie, di cogliere il particolare
per arrivare all’universale.
È anche su
queste somiglianze che si è basata la vostra amicizia?
«Il mio
sogno di partenza quando ho girato il primo film era proprio questo, riuscire
come faceva Scola a tenere insieme le due cose, a far incontrare la Storia con
la S maiuscola con la storia del film. Un incontro difficile, che non sapevo
bene come affrontare. Mentre ci pensavo, mi è tornata in mente una cosa che
aveva detto Scola una volta, una battuta che racchiudeva la scelta di fondo e
che riguardava il modo con cui si stava preparando ad affrontare un argomento:
“Non so se diventare Risi o Rosi”. Il punto era quello, ricordandomi quella
frase, ho capito tutto».
E infatti,
nella «Mafia uccide solo d’estate», il clima narrativo oscilla tra quei due
poli. Una caratteristica di Scola che per anni il cinema italiano non aveva più
saputo trovare.
«Infatti. La
stima professionale per Scola è scontata, a me colpiva soprattutto il suo
metterci sempre la faccia. E poi l’arte di denunciare, ma col sorriso, quello
che vorrei fare anch’io in tutta la mia vita. Ed è una cosa che, secondo me,
riguarda tutta la famiglia Scola».
In che senso?
«È una
famiglia dove si ride spesso, i loro pranzi e le loro cene sono pieni di
continue risate».
Scola era un
maestro, ma non ne assumeva mai l’aria. Con lei come è stato?
«Dirò cose
banali, lo so, ma è stato proprio così. Non era uno che parlava, preferiva fare
domande, soprattutto sul presente, e ascoltare le risposte. Mi chiedeva delle Iene,
del film che avevo fatto e di quello che stavo preparando».
Ora lo può
dire: che cosa rappresenta per lei Ettore Scola?
«Una persona
che è parte della natura stessa di chi sceglie di fare cinema, uno che sta
dentro di noi, e di tutto il Paese. Se cresci in Italia mangi un certo tipo di
cibo, certi piatti, stabilire in che misura Scola è presente nelle nostre vite
sarebbe come stabilire quanti spaghetti ci sono in media nella pancia di un
italiano».
Adesso che
cosa le manca di più?
«Da quando
l’ho conosciuto ci siamo frequentati molto, avrei voluto fargli vedere il mio
nuovo film. Appena avuta questa notizia tremenda, ho continuato a ripeter a me
stesso, vabbé, dai, domenica prossima ci vediamo, e andiamo a farci insieme un
“cacio e pepe”».
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