Ettore Scola |
Maestro di un cinema ricercato e popolare, Scola ha raccontato l’Italia
Ha descritto la nostra evoluzione insieme a quella, più generale, del Paese, le contraddizioni tipicamente italiane, i vizi, le manie, le grandezze e le meschinità
L’ultima
volta che ho incontrato Ettore Scola era quasi Natale, c’era quell’aria allegra
che precede le festività e lui, insieme alle figlie, era venuto a cena nel
ristorante della comune amica Paola, a pochi passi da piazza Cavour, un posto
molto accogliente, dove il mondo del cinema, romano, ma non solo, si raccoglie
spesso intorno a ottimi vini e pietanze succulente. Aveva l’aria allegra,
salutava con piacere, prese posto in un tavolo vicino alle finestre, con Silvia
e Paola, e con Giacomo Scarpelli, figlio di Furio, lo sceneggiatore e amico di
sempre. La fama di autore ironico, a tratti burbero, soprattutto allergico alle
domande di giornalisti a caccia di pareri, quella sera era stata smentita dai
fatti. Di rado lo avevo visto così contento di esserci, di incontrare, di
condividere. Come se il padre della commedia all’italiana, quello che, più
degli altri colleghi, l’aveva orientata verso l’analisi politica della storia
d’Italia, stesse vivendo una fase di quieta e piena soddisfazione.
Maestro di
un cinema ricercato e popolare, basato sulla forza di sceneggiature a lungo
cesellate, prima insieme a Ruggero Maccari, e poi con Age e Scarpelli, Scola ha
colto, nei suoi film più celebri, gli snodi fondamentali della storia del
nostro Paese. Basta pensare al capolavoro «C’eravamo tanto amati», del ‘74, a
«Brutti, sporchi e cattivi», alla «Terrazza», a «Una giornata particolare».
Affreschi che spaziano tra il pubblico e il privato, raccontando la nostra
evoluzione insieme a quella, più generale, del Paese, le contraddizioni
tipicamente italiane, i vizi, le manie, le grandezze e le meschinità.
Amato dagli
attori, che amava a sua volta moltissimo, e che valorizzava dandogli, in tanti
casi, le migliori occasioni delle loro carriere professionali, Scola è
diventato presto regista europeo, e non solo italiano, adorato dai francesi,
premiato ovunque. Gli incontri cruciali erano stati quelli con Marcello
Mastroianni, nel ‘70, per «Dramma della gelosia», con Nino Manfredi per
«Brutti, sporchi e cattivi», con Sofia Loren per «Una giornata particolare».
Alla galleria si aggiunse, nell’89, Massimo Troisi, l’attore napoletano di cui
Scola capì subito le immense possibilità artistiche tanto da decidere di
dirigerlo in due film «Che ora è» e Splendor». Gli scontri e le differenze
generazionali vennero descritti nella «Cena» dove, a ogni tavolo,
corrispondevano storie di personaggi di diverse età, mentre con «Gente di
Roma», l’autore offriva il ritratto malinconico di una città ormai difficile da
decifrare.
Alla luminosa carriera di regista,
Scola ha sempre affiancato, fin dai tempi in cui disegnava vignette sul
«Marc’Aurelio», l’impegno politico a sinistra, con dichiarazioni aperte, prese
di posizioni e incarichi come quello nel governo ombra del Partito Comunista
Italiano nel 1989 con delega ai Beni Culturali. L’ultimo film con la sua firma
è «Che strano chiamarsi Federico», il documentario dedicato a Federico Fellini,
in cartellone alla Mostra di Venezia nel 2013. Alla presentazione era stato
invitato il Presidente emerito Giorgio Napolitano: «Un piccolo ritratto -
spiegava Scola a proposito del film - di un grande personaggio». Nemico di toni
altisonanti e commozioni facili, tendeva, come sempre, a minimizzare. Se ci
fosse ancora, lo farebbe sicuramente pure adesso.
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