venerdì 21 febbraio 2020

Zadie Smith / «Sto lontana dai social come un’alcolista dalla vodka»

Zadie Smith
Zadie Smith: «Sto lontana dai social come un’alcolista dalla vodka»

La scrittrice inglese racconta a 7 sogni («un bacio con John Lennon»), delusioni («Woody Allen»), il rapporto sentimentale tra scrittura e vita, progetti per il futuro. E confessa: «Odio comprare smartphone per i figli»


Luca Mastrantonio
21 febbraio 2020 (modifica il 21 febbraio 2020 | 00:42)

Zadie Smith


Zadie Smith, nata a Londra nel 1975 da padre inglese e madre giamaicana. Insegna Scrittura creativa presso la New York University. Il 25 febbraio uscirà in Italia la raccolta di racconti «Grand Union», edita da Mondadori
Chiamiamo Zadie Smith per l’intervista e risponde con un sms: «Quale intervista? Non ricordo, sono dal parrucchiere. Chiedo scusa». Dopo un’ora è tornata a casa, al Greenwich Village, dove vive con il marito Nick Laird, poeta nordirlandese, due figli e un cane (hanno lasciato Londra per New York anni fa). Le telefoniamo. La voce è sottile ma chiara, il tono oscilla tra gentilezza spontanea e scetticismo auto-ironico. Partiamo dal suo nuovo libro, Grand Union, una raccolta di racconti (Mondadori). La sua prima, dopo romanzi e saggi. C’è varietà di registri e soggetti: una festa di stili, temi e punti di vita. In un articolo su The New York Review of Books lei ha rivendicato l’incoerenza del suo carattere, la contraddittorietà, che la porta a immaginarsi nei panni degli altri: se pranza con uno zio devoto si immagina testimone di Geova, se la sua amica pakistana le trucca le mani, si pensa come sua sorella. «Sono una voyeuse delle pari opportunità: se entro in una casa immagino come sarebbe viverci dentro. Quando incontro le altre persone sembrano molto sicure di sé, più di me, forse è strano essere meno sicuri di sé. Ma io sono così».
Lei si è descritta come introversa/ estroversa. I timidi sono narcisi?
«Non penso di essere estroversa, però continuo a pubblicare e sembra un tentativo d’attirare l’attenzione. Entrambi gli aspetti sono veri. Mi piace esibirmi, ma in un’accezione diversa rispetto ai miei fratelli (Ben e Luke sono attori e musicisti, ndr). Non mi piace essere presente nel momento della performance. La scrittura è efficace in questo senso: ci si esibisce, ma non si è sul palco nel momento in cui si va in scena, è adatto al mio modo di essere».
Su «Brexit» ha criticato la demagogia dei populisti, ma pure la miopia dei progressisti. Ora la Brexit è realtà storica: cosa prova?
«Sono alle prese con i nostri disastri americani. Sento la Brexit molto lontana. Ho parlato con i parenti e so che tutti sono esausti, depressi. Ma per me è troppo tenere il passo con due apocalissi contemporaneamente... esiste il plurale di apocalisse? Apocalissi, non so».


La scrittrice Zadie Smith con il fratello Ben Bailey Smith, attore e rapper noto come Doc Brown (foto Paul Stuart/Camera Press/Contrasto)

Anni fa, quando ci sentimmo per «Swing Time», lei disse che suo marito era dipendente dalle news su Trump: è migliorato?
«Siamo tutti esausti per Trump. C’è un giornalismo Trump-demented, ossessionato: arte, film, libri. In particolare per gli uomini, le news danno dipendenza. Hanno lo stesso ruolo dell’idea di virilità: “Devi mantenere la tua area sicura e cacciare”. Vanno a caccia di informazioni, ma non cambia nulla».
Come difendersi?
«I figli aiutano. E la cultura. Già da bambina evadevo la realtà con libri e canzoni. Siamo andati a vedere American Utopia di David Byrne, che ha cantato le canzoni dei Talking Heads, bello, un’utopia svanita quando siamo usciti dal teatro, ma finché eravamo lì sembrava un’America diversa. Un sogno».
Ci racconta un sogno fatto?
«In uno c’è uno tsunami e vengo sopraffatta dalle onde: è ricorrente. Sempre uguale. Noioso, no?».
Di sicuro brutto. Un sogno bello?
«Circa 30 anni fa ho sognato di essere ad una festa in casa e di incontrare John Lennon, che era ancora giovane e mi dava un bacio».
Un british che si trasferì a New York. Cosa la colpisce di più degli americani rispetto agli inglesi?
«L’amore per gli animali; è forte anche in Inghilterra, ma qui è più intenso. Non ho mai visto la stampa animarsi tanto per le vittime durante la guerra in Iraq come quando un soldato ha gettato un cane da una rupe in Afghanistan. Migliaia di persone morte nel corso delle ultime guerre sciocca meno di un cane? C’è un amore forte per gli animali, certo, e pure tanta ipocrisia».
«IL CULTO DEGLI ANIMALI IN AMERICA
COMPENSA LA BRUTALITÀ DELLA VITA»
I paradossi della pet-therapy?
«Il governo americano è duro con i suoi cittadini, la vita è brutale: tre settimane di ferie in un anno, se si è fortunati, dopo un figlio si torna subito a lavoro. Allora gli animali sono un conforto: un gatto, un cane, un cucciolo è una tregua, una distrazione dal mondo».
Per questo ha dedicato il libro al suo cane, un carlino, Maud?
«Il suo nome mi piace molto, ma la cosa buffa è che Maud non è per niente interessata a me: è un po’ una piccola fascista, non è una persona piacevole. L’abbiamo preso ispirati da Beatrice von Rezzori, la baronessa (che organizza un Premio letterario per stranieri tradotti, ndr) che aveva molti carlini a Firenze. Maud ha radici italiane».
Zadie Smith a Los Feliz, durante un incontro con il pubblico in occasione del suo debutto letterario, con «Denti bianchi», nel 2000


Si ricorda la nostra lingua?
«Un po’. Mi piace la parola “spaccare”. Mi tengo allenata guardando serie tv. Suburra, ma era troppo violenta, ho gettato la spugna, e Liberi sognatori, storie di persone che si sono opposte alla mafia e hanno fatto una brutta fine: della serie, si può essere brave persone, ma non funzionerà. C’è pure l’attore che fa il secondo ispettore di Montalbano: magro, capelli scuri, è molto bello, sembra un giovane cervo ( Peppino Mazzotta, ndr)».
Anche Luca Zingaretti è bello.
«Sì, è molto affascinante. Il fratello ( Nicola, ndr) meno».
Nel racconto Grand Union riavvolge la sua discendenza materna incontrando anche chi non c’è più. Lei chi vorrebbe rincontrare?
«Mi piacerebbe incontrare nuovamente mio padre. Per passeggiare insieme, con lui, ancora in Italia. Quando ero più giovane credevo di voler incontrare scrittori che avevo ammirato, come Virginia Woolf; ma ora a 44 anni conosco molti scrittori e so che il lato migliore di qualsiasi scrittore sono i libri».
«I POETI COME MIO MARITO VIVONO
L’AMORE MEGLIO DI NOI ROMANZIERI»
Mi sono appuntato una frase da «L’uomo autografo». Il protagonista si sorprende che “quando si eliminano i litigi, ciò che resta è l’amore, una immensa quantità di amore, che trabocca fuori di te”. Come possiamo eliminare i litigi?
«Non mi ricordo di aver scritto quella frase, suona giovanile, di quando pensi che ogni problema si risolve con una conoscenza aforistica. È bella! Ma è difficile metterla in pratica, litigo con tutti su tutto: su vestiti, razza, politica. Perciò non uso Twitter, tirerebbe fuori la parte peggiore di me, sto lontana come un alcolista dalla vodka, i social accentuerebbero il mio narcisismo».
Con suo marito litiga molto?
«Tanto, come tutte le persone sposate. Però meno di prima. A volte, entrambi lasciamo perdere: un po’ per sfinimento e un po’ perché invecchiando si realizza che non c’è una vincita, né un vincitore? Chi o cosa si vince? O si è gentili ed empatici vicendevolmente o si accetta che entrambi si è un disastro. Da giovani si pensa ancora che prima o poi si esporrà l’argomentazione perfetta e l’altro dirà “Ah sì, hai completamente ragione”».


Zadie Smith con il marito, il poeta Nick Laird. Si sono conosciuti a Cambridge negli Anni 90: «Ci siamo scritti delle email, chissà che fine hanno fatto?», dice l’autrice



Sull’amore cita spesso suo marito. Le sue poesie la ispirano ancora?
«Ho usato per un mio libro il suo verso “il tempo è come spendi il tuo amore”. La sua poesia ha pazienza e mostra capacità di amare. Tutti vogliamo essere degni di essere amati, ma qualcuno deve occuparsi di amare, che è più difficile. L’amore è una specie di esercizio. I poeti sono molto attenti alle piccole cose, ai momenti, alla luce, a quello che succede, mentre gli autori di romanzi sono pieni di teorie sulla vita che poi vivi e scopri che non è così... Siamo pieni di ideali, ingenui, umili e questa cosa diverte i lettori, credo. La poesia è più capace di vivere, è questo che imparo da Nick: un’attitudine a vivere, piuttosto che a pontificare come sto facendo proprio ora. Della sua poesia mi piace il mix di mascolinità tradizionale e vulnerabilità preziosa, qualcosa che si può ritrovare nel mondo di Ted Hughes: ma spero di non finire come Sylvia Plath con la testa in un forno, Gesù Cristo!».
La sua ultima raccolta di saggi è «Feel free». Oggi cosa le fa sentire di essere libera?
«Nuotare mi fa sentire libera. Sono una newyorkese, quindi vado a correre, mi alleno, ritengo che anche queste forme di autopunizione possano portare gioia. Ma nuotare in mare è la cosa migliore che mi venga in mente. Anche le piscine sono belle. Non c’è lusso maggiore di avere una piscina: chi ha una piscina non dovrebbe chiedere di più dalla vita e invece lo fa».
«LA DIFFUSIONE DEI TELEFONI IPERCONNESSI? PENSO
SIANO LETALI PER LO SVILUPPO DEI GIOVANI: TI
LOCALIZZANO, SONO PROGETTATI PER CREARE DIPENDENZA»
Quand’è che invece sente la sua libertà minacciata, in pericolo?

«Passerò per luddista, ma sapere che prima o poi, attorno ai 13/14 anni, dovrò dare ai miei figli degli smartphone mi fa imbestialire. Ora resisto, ma non c’è via di uscita, sarebbero emarginati dal sistema scolastico e poi universitario. Odio questi telefoni, penso siano letali per lo sviluppo dei giovani: ti localizzano, sono progettati per creare dipendenza... come se un’intera società, un governo e un’istituzione privata mi dicessero: “A 14 anni tuo figlio deve assumere eroina, tutti sono dipendenti dall’eroina”. Lo trovo vergognoso! Ma non ho scelta ed è lesivo della mia libertà».

Oltre alla dipendenza, qual è il rischio principale di una vita digitalmente iperconnessa?

«Oggi si fa fatica a esercitare il proprio pensiero individuale, indipendente, l’oggetto che abbiamo in mano è strumento con cui si scrive, si pensa, si lavora, ci si nutre, si ama... e mira a rendere smart la nostra casa, la nostra vita, ma quello che è smart spesso per noi è stupido, perché ci sono algoritmi e automatismi più complessi di noi che ci stimolano e ci punzecchiano in continuazione. Così si è delusi da quello che si è scritto o fatto. I social creano una narrazione di noi che sembra dotata di senso, ma non è così. Sì, siamo sempre stati influenzati dalla cultura, dai media, dalla famiglia e dalla comunità: hanno un effetto calmante. Uno dei motivi per cui non corro nuda per strada è perché i miei cari e gli amici non approverebbero. Ma questa disapprovazione ha un carattere limitato, nella mia vita. Invece soprattutto per i più giovani oggi l’approvazione o disapprovazione sociale è totale, invasiva, rende schiavi».



Zadie Smith alla presentazione del suo libro «On Beauty» nel 2005






Tre anni fa, disse che non lascia sua figlia più di 5 minuti davanti allo specchio: è ancora così?
«Ecco come il web fraintende. Parlavo di Tolstoj e della felicità familiare, dicevo che impiego circa 6-8 minuti per mettermi quello che mi metto in faccia e non vorrei sprecarlo e a mia figlia dico: “Perché dovresti fare qualcosa che tuo fratello non farebbe? È tempo che togli alla tua vita”. Mia figlia prenderà le sue decisioni sulla femminilità, ma io personalmente non ho tempo per questo. Mi dà fastidio dedicare tempo a depilarmi le gambe, lo faccio e mi odio perché lo faccio solo per non provare imbarazzo, ma so che non ci credo. Non credo dovrei preoccuparmi di depilarmi le gambe eppure lo faccio: è motivo di tedio e odio per me stessa».
Altri modi di tempo sprecato?
«Il baseball e i videogiochi! Ma è un assurdo fastidio materno: trovo giocare ai videogiochi una cosa senza scopo, ma io faccio lo stesso quando suono il pianoforte!».

Zadie Smith
Poster di T.A.
«L’ARGOMENTO PIÙ DIFFICILE CON I MIEI FIGLI:
È STATO DURO SPIEGARE PERCHÉ MICHAEL JACKSON
SI ERA SCHIARITO LA PELLE. DIFFICILE SPIEGARE
L’ODIO PER SE STESSI... E LA SOCIETÀ LO INCORAGGIAVA»

Zadie Smith
Poster di Triunfo Arciniegas
Qual è stato l’argomento più difficile da trattare con i suoi figli?
«Perché Michael Jackson si è schiarito la pelle. Preferirei rispondere a qualsiasi domanda sulla sessualità piuttosto che rispondere a questa: è difficile spiegare l’odio per sé stessi, il disgusto verso la propria persona, e bisogna anche parlare di una società che addirittura lo incoraggiava in tal senso».
Con Michael Jackson e le ombre che lo avvolgono il rischio è confondere l’artista e la sua arte. Con Woody Allen, attaccato dal #MeToo, si corre lo stesso rischio?
«No, non penso. I difetti di Woody Allen come persona sono presenti anche nei suoi film. Da ragazza ero una grande fan, ma non mi ero resa conto che fosse un misogino impressionante, lo è sempre stato, i suoi film in parte ne parlano e Manhattan ne è l’esempio più classico: i difetti estetici e quelli etici sono gli stessi. Annie è un mezzo personaggio, perché lui capisce molto poco delle donne. Ma capisce molte cose, nei suoi primi film, circa la sua particolare forma di inadeguatezza, la tipologia di uomini sessualmente preoccupati, capisce molto di tante cose. E ci sono tante altre cose che non hanno alcuno spazio nelle sue opere. E una totale mancanza di valori morali nella sua vita. Ed è tutto qui. Il nostro giudizio, in un modo o nell’altro, non aggiunge nulla e non toglie nulla».
I suoi progetti per il futuro?
«Ho da scrivere due romanzi. Vorrei fare un viaggio in Giappone. E voglio tornare a Roma, invecchiare. Forse mi chiameranno “la Smith” ( in italiano, ndr) come dicono quando una donna diventa vecchia e abbastanza sopra le righe per meritarsi anche il giusto articolo con il nome».
CORRIERE DELLA SERA


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