mercoledì 5 febbraio 2020

George Steiner / L’intervista postuma «L’Europa è un sogno che resta vivo»

George Steiner


George Steiner, l’intervista postuma «L’Europa è un sogno che resta vivo»
I motivi di questo colloquio

In un colloquio con il «Corriere» da pubblicare dopo la sua morte, il grande critico raccontava le sue passioni e i suoi errori. «Mi preoccupa l’irrazionalismo dilagante»





di Nuccio Ordine
4 febbraio 2020 (modifica il 4 febbraio 2020 | 13:24)


Il grande critico George Steiner è morto il 3 febbraio 2020 nella sua casa di Cambridge. Questa intervista venne rilasciata dallo stesso Steiner a Nuccio Ordine il 21 gennaio 2014 (e poi in parte rivista successivamente) con l’intesa che sarebbe stata pubblicata solo dopo la sua scomparsa.

Qual è il segreto più importante che vuoi svelare in questa intervista postuma?
«Posso dirti che per 36 anni ho indirizzato a una interlocutrice (il suo nome deve restare ancora segreto) centinaia di lettere che rappresentano il mio “diario”, in cui ho raccontato la parte più rappresentativa della mia vita e gli avvenimenti più significativi che hanno marcato la mia quotidianità. In questa corrispondenza ho parlato degli incontri che ho fatto, dei viaggi, dei libri che ho letto e scritto, delle conferenze e anche di episodi semplici e banali. Si tratta di un “diario condiviso” con la mia destinataria, in cui è possibile ritrovare anche i miei sentimenti più intimi e le mie riflessioni estetiche e politiche. Saranno conservate a Cambridge, in un archivio del Churchill College con altri carteggi e documenti che testimoniano le tappe di una vita, forse troppo lunga. Queste lettere-diario, in particolare, saranno sigillate e potranno essere consultate solo dopo il 2050, cioè dopo la morte di mia moglie e (forse) dei miei figli. Saranno rese pubbliche, insomma, solo quando molte delle persone a me vicine non ci saranno più. Qualcuno le leggerà dopo tanto tempo? Non lo so. Ma non potevo fare diversamente…».

Perché un’intervista postuma?
«Mi ha sempre affascinato l’idea dell’intervista postuma. Di qualcosa che dovrà essere resa pubblica proprio nel momento in cui io non potrò più leggerla sui giornali. Un messaggio per coloro che restano e una maniera per congedarmi facendo sentire l’ultima mia parola. Un’occasione per riflettere e abbozzare bilanci. Ho raggiunto un’età in cui ogni giorno, più o meno normale, è da considerarsi come un valore aggiunto, come un bonus che la vita ti regala. In questa fase, sono i ricordi del passato che diventano l’unico e vero futuro interiore. È un viaggio all’indietro fondato sulla rimembranza che ci permette di coltivare alcune speranze. Non abbiamo le parole esatte per indicare il ricordo che racchiude in sé il domani. Mi trovo in un momento della mia vita in cui il passato, i luoghi che ho frequentato, le amicizie che ho intrattenuto, l’impossibilità di rivedere persone che ho amato e continuo ad amare e la stessa relazione con te costituiscono l’orizzonte del mio futuro più di quanto possa esserlo il futuro reale».

Ti rimproveri qualcosa in particolare?
«Certo. Più di una cosa. Ho scritto un piccolo libro, Errata, in cui ho parlato degli errori che ho commesso. Non sono riuscito a cogliere alcuni fenomeni essenziali della modernità. La mia educazione classica, il temperamento, la carriera accademica non mi hanno permesso di comprendere a pieno l’importanza di certi grandi movimenti del modernismo. Non ho capito, per esempio, che il cinema, in quanto nuova forma espressiva, avrebbe potuto svelare talenti creativi e nuove visioni meglio di altre forme più antiche, come letteratura o teatro. Non ho capito il movimento contro la ragione, il grande irrazionalismo della decostruzione e, per certi aspetti, del post-strutturalismo. Avrei dovuto rendermi conto che il movimento femminista, che appoggiai a Cambridge con grande convinzione riconoscendo l’importanza del ruolo delle donne, avrebbe poi assunto, nella lotta per occupare un posto dominante nella nostra cultura, una funzione politica e umana straordinaria».




Sul piano più strettamente personale, quali sono gli errori che hai commesso?

«Avrei dovuto, essenzialmente, avere il coraggio di cimentarmi nella letteratura “creativa”. Ho scritto racconti e da giovane anche versi. Ma non ho voluto mai assumere il rischio trascendente di sperimentare qualcosa di nuovo in quest’ambito che mi appassiona molto. Il critico, il lettore, l’erudito, il professore sono mestieri che amo profondamente e che vale la pena di esercitare bene. Però è tutt’altra cosa rispetto alla grande avventura della “creazione”, della poeisis, del produrre nuove forme. E, probabilmente, è meglio fallire nel tentativo di creare che avere un certo successo nel ruolo di “parassita”, come mi piace definire il critico che vive alle spalle della letteratura. Certo, anche i critici (l’ho sottolineato più volte) hanno una funzione importante: ho cercato di lanciare, talvolta con successo, alcune opere e ho difeso autori che ritenevo meritevoli di sostegno. Ma non è la stessa cosa. La distanza tra chi crea letteratura e chi la commenta è enorme: una distanza (per usare una parola pomposa) ontologica, una distanza dell’essere. I miei colleghi universitari non mi hanno mai perdonato l’aver sostenuto queste tesi: molti baroni e una certa critica strettamente accademica non hanno visto di buon occhio che io prendessi in giro la loro presunzione di essere, talvolta, più importanti degli autori di cui parlavano…».

A chi vuoi indirizzare un messaggio in questa intervista postuma?
«Penso ad alcuni allievi, più brillanti di me, che stanno portando a termine lavori importanti: il loro successo è per me una ricompensa enorme. Penso, con una profonda gratitudine, ad alcuni miei colleghi che mi hanno accompagnato lungo il cammino accademico. E penso soprattutto a persone più intime, come te, che hanno compreso ciò che ho cercato di fare e grazie alle quali ho potuto vivere un’intensa avventura intellettuale e affettiva. Ma, in questo momento, cerco in primo luogo di capire perché sta crescendo sempre di più la distanza tra me e l’irrazionalismo moderno e, oso dire, la crescente barbarie dei media, la volgarità dominante. Credo che stiamo attraversando un periodo che si fa sempre più difficile…».

Qual è la cosa che ti ha fatto più soffrire?
«Mi ha fatto soffrire la coscienza di aver pubblicato saggi che avrei desiderato scrivere meglio. Certo: ci sono pagine della mia opera che ho difeso e difendo con convinzione, e anche aspramente. Però so che probabilmente non è ciò che io avrei desiderato di scrivere. E penso spesso all’ingiustizia del grande talento: nessuno capisce come abbiano origine e come siano distribuiti questi doni supremi. Penso a un fanciullo di 5 anni e mezzo che disegna un acquedotto romano vicino Berna e poi, improvvisamente, raffigura un pilastro con delle scarpe: da allora grazie a Paul Klee, questo è il suo nome, gli acquedotti camminano nel mondo intero. Nessuno può spiegare le sinapsi neurologiche che possono scatenare in un ragazzino questo “colpo di fulmine” della metamorfosi, quest’intuizione geniale che cambia la realtà. Ho pensato che sia un’ingiustizia il fatto che noi possiamo provare, riprovare, sforzarci ancora, per riuscire solo a restare sulla scia dei grandi, ma senza raggiungerli, perché loro sono diversi da noi».

E la cosa che ti ha fatto più piacere?
«La felicità di aver insegnato e di aver vissuto in molte lingue. Felicità che ho cercato di coltivare ogni giorno fino all’ultimo, tirando fuori dalla mia biblioteca un poema per tradurlo nelle mie 4 lingue (francese, inglese, tedesco e italiano). E anche se non l’ho tradotto bene, ho comunque avuto l’impressione di aver aperto una finestra per far entrare un raggio di sole nella mia quotidianità».

Quali desideri non hai potuto realizzare?
«Tantissimi: viaggi che non ho avuto l’audacia di fare, libri che avrei voluto scrivere e che non ho scritto, soprattutto incontri cruciali che ho evitato per mancanza di coraggio o disponibilità o energia. Avrei potuto, per esempio, incontrare Martin Heidegger: ma non ho osato. E credo di aver avuto ragione. Ho sempre rispettato un principio: non bisogna importunare i grandi, hanno altro da fare. E poi non ho mai sopportato coloro che si rendono importanti collezionando appuntamenti con grandi nomi. Le persone eccellenti hanno il diritto di scegliere gli interlocutori con cui vogliono “perdere” il loro tempo. Poi accade che un giorno, aprendo i libri di memorie, si leggano frasi del tipo: “Sono stato importunato dal signor X che ha insistito per incontrarmi, ma non aveva niente da dire”. Ho sempre temuto di poter scivolare in un errore così grossolano. Penso a Jean-Paul Sartre, per esempio, specialista nel rivelare circostanze legate a famosi “scocciatori”. E mi è costato molto rinunciare, negli ultimi tempi, alla compagnia di un cane. Dopo la morte di Muz, ho capito che alla mia età era molto rischioso prenderne un altro. Amo questi animali, ma alla soglia dei novant’anni mi sembrava terribile offrirgli una casa per poi lasciarlo solo…».

Qual è la vittoria più bella?
«Quella di aver insistito sull’idea che l’Europa continua a essere una necessità importantissima e che, nonostante le minacce e i muri che si costruiscono, non bisogna abbandonare il sogno europeo. Sono antisionista (posizione che mi è costata molto, fino al punto di non riuscire a immaginare la possibilità di vivere in Israele) e detesto il nazionalismo militante. Ma adesso che la mia vita volge al tramonto, ci sono momenti in cui ho qualche vivo rimpianto: forse mi sono sbagliato? Non era meglio lottare contro lo sciovinismo e il militarismo vivendo a Gerusalemme? Avevo il diritto di criticare, comodamente seduto sul divano della mia bella casa a Cambridge? Sono stato arrogante quando, dall’esterno, ho cercato di spiegare a persone in pericolo di morte come avrebbero dovuto comportarsi?».

Ti ricordi di aver pianto nella tua vita?
«Certo. In questi ultimi tempi mi capita spesso di ricordare particolari circostanze. Penso, per esempio, a grandi esperienze umane che si sono concluse senza che io ne avessi previsto la fine. La scomparsa improvvisa di alcune persone che non potrai più rivedere. O luoghi che hai frequentato e che non potrai più frequentare. E penso anche a cose più semplici, forse banali: pesci e cibi che hai gustato in alcuni posti magici e che non potrai più gustare. E, talvolta, incontrare nell’angolo di una strada o in un giardino l’ombra di una persona che ami, e di cui hai un enorme bisogno, ma che sai di non poter più raggiungere».

Che peso ha avuto l’amicizia nella tua vita?
«Un peso enorme. E nessuno meglio di te può saperlo. Avrei vissuto malissimo questi ultimi decenni della mia vita senza di te e senza altri due o tre amici, con cui ho intrecciato una fittissima corrispondenza. Interlocutori privilegiati, con cui ho condiviso una profonda intimità affettiva. Forse l’amicizia è più preziosa dell’amore. Difendo questa tesi, perché nell’amicizia non c’è nessun egoismo del desiderio carnale. L’amicizia, quella autentica, si fonda su un mistero che Montaigne (nel tentativo di spiegare la sua amicizia con Étienne de la Boétie) ha racchiuso in una bellissima frase: “Perché era lui; perché ero io”».

E l’amore?
«L’amore ha avuto un peso grandissimo, forse troppo, troppo grande. In primo luogo, la felicità che mi ha dato il mio matrimonio, che non posso spiegare con parole, in maniera razionale. E poi uno o due altri incontri che sono stati decisivi nella mia vita. Penso che le donne abbiano una sensibilità potenziale superiore a quella degli uomini. Ho avuto l’enorme privilegio di fare l’amore parlando diverse lingue (ho scritto molto su questo tema): il dongiovannismo poliglotta è stato per me una grande ricompensa, un’occasione per vivere molteplici vite. Ed è curioso che né la psicologia né la linguistica, si siano mai occupate di questo appassionante fenomeno. Ecco perché in Dopo Babele ho coniato una definizione originale della traduzione simultanea: è un orgasmo ben riuscito. Il fenomeno delle parole e dei silenzi in relazione all’eros è sempre stato per me un tema capitale…».

Ti capita di pensare alla morte…
«Continuamente. Ma non solo ora. Anche quando ero giovane mi capitava. Sono cresciuto all’ombra della minaccia hitleriana e ricordo bene che nella mia classe di liceo solo io e un altro compagno siamo riusciti a sopravvivere. Papà e la vita mi hanno preparato ad affrontare i temi della perdita e del pericolo della morte. Adesso penso che il confronto con la morte possa essere interessante, possa rivelarsi una maniera per capire meglio tante cose...».

Pensi che ci sia qualcosa dopo la morte?
«No… Sono convinto che non ci sarà niente. Però il momento del passaggio potrà essere molto interessante. Mi pare infantile la reazione di coloro che, dopo aver pensato sempre al nulla, nella fase finale della loro vita cambiano idea, immaginando un “mondo” ultraterreno. Credo che sia un fatto di dignità il non avere paura: non bisogna perdere il rispetto della ragione e le cose vanno chiamate chiaramente con il loro nome. Certo, si può cambiare idea. Ho avuto la fortuna di vivere sempre a contatto con grandi scienziati e so che ogni giorno si imparano nuove cose e se ne correggono altre. Ma questo è normale nella scienza. Credere in una vita altrove, invece, è ben altro affare…».

In questa intervista postuma, vorresti scusarti con qualcuno con cui hai litigato?
«Sì, vorrei scusarmi con una persona di cui non posso dire il nome. Penso che lui stesso preferirebbe restare anonimo. Si tratta di un uomo eminente, per lungo periodo amico intimo, con cui ho litigato per una stupida questione: una frase mal scritta in una lettera ha finito per mandare in frantumi la nostra antica relazione. Ho imparato tanto da questa esperienza: come, talvolta, un attimo insignificante possa trasformarsi in qualcosa di decisivo nella tua vita. Corriamo spesso questo rischio: un gesto irrilevante o una semplice parola, in un solo secondo, possono provocare vere e proprie tragedie. E adesso, dopo tantissimi anni, vorrei dire a questo mio amico: vieni, pranziamo insieme e ridiamoci sopra. Però, con molto rimpianto, mi rendo conto che ormai non c’è più tempo. È troppo tardi…».

Ma la tua irascibilità è famosa. È stato sempre un punto debole del tuo carattere?
«È vero. Ma non solo da adulto. Ricordo che da ragazzo andavo in escandescenza per piccole cose e, talvolta, senza vere ragioni. Questi comportamenti hanno creato molte inimicizie. Poi con gli anni ho dovuto imparare a moderarmi. Ma ho anche pagato per la mia ironia, spesso molto tagliente e non sempre gradita. E forse la tristezza, frutto della coscienza della mia mediocrità, ha messo non poche volte a disagio alcuni miei interlocutori. In tanti anni ho collezionato, purtroppo, molte ostilità e ho rotto tante amicizie. È triste riconoscerlo. Ma è così…».

Un consiglio ricevuto che ti ha cambiato la vita?
«Eccome: soprattutto quelli che, con grande affetto, ho avuto dalla mia mamma. Debbo a lei gli incoraggiamenti a una fruttuosa convivenza con il mio handicap. Da piccolo, per scuotermi nei momenti di sconforto, mi diceva che la “difficoltà” era un “dono” divino: oltre ad avermi salvato dal servizio militare, infatti, mi aveva anche offerto l’occasione per imparare a fare meglio. Per cercare di capire che senza sforzo non si ottiene nulla nella vita. L’ho ricordato in diverse circostanze: uno dei traguardi più belli della mia esistenza è stato quando, per la prima volta, sono riuscito ad allacciare le scarpe con la mano offesa…».

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