domenica 23 febbraio 2020

Dolce e Gabbana / «Laceri e pieni di ferite, ma in Cina siamo cresciuti»


Stefano Gabbana, 57 anni, e Domenico Dolce, 61. Si sono conosciuti all’inizio degli Anni Ottanta (lavorando insieme nello studio dello stilista Giorgio Correggiari) e poco dopo hanno fondato la loro maison Dolce&Gabbana (foto Ansa)

Dolce e Gabbana: «Laceri e pieni di ferite, ma in Cina siamo cresciuti»

A 35 anni dal debutto della loro maison, i due stilisti si raccontano al magazine 7: «Oggi siamo più forti, sbagliare insegna cosa conta». L’augurio: «Che la follia di quanto ci è accaduto a Shanghai diventi solo un ricordo»


Daniela Monti
17 gennaio 2020 (modifica il 17 gennaio 2020 | 15:22)


«Oggi, a 61 anni io e 57 Stefano, ci sentiamo più forti, maturi, completamente focalizzati sul nostro lavoro: entrambi, quando vediamo certe cose - la signora che ricama, ma anche quella che fa a mano le orecchiette, che impasta il pane con il lievito madre -, ci emozioniamo allo stesso modo. Questi sentimenti li proviamo da sempre, ma ora li abbiamo messi davvero a fuoco: abbiamo preso coscienza che la bellezza della manualità, delle cose fatte bene, dell’alto artigianato, è diventata basilare nel nostro modo di vivere, di pensare, di essere. Sono le radici della cultura italiana e sono anche le radici della nostra personalissima cultura», dice Domenico Dolce. E Stefano Gabbana: «Ci nutriamo delle nostre passioni, del nostro mestiere e anche della nostra libertà: siamo nati liberi, siamo cresciuti liberi e continueremo ad esserlo. Non bramiamo ricchezze, probabilmente perché le abbiamo già. La nostra vera ossessione è cercare di creare bellezza. La nostra forza è essere insieme: abbiamo i tavoli da lavoro uno di fronte all’altro, parliamo, parliamo tanto. Abbiamo un modo di procedere molto narrativo».

Amore e senso del tempo

Parlano da quarant’anni. Gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana si sono conosciuti a Milano nel 1980. Il bilancio professionale è nei numeri della loro azienda, arrivata a 1,349 miliardi di ricavi nell’esercizio chiuso a marzo, l’80 per cento all’estero, con una rete di 220 negozi monomarca gestiti direttamente e 80 in franchising, che dà lavoro a 5.500 persone, che diventano 25 mila con terzisti e fornitori. Fra le voci in attivo del bilancio personale c’è invece il loro legame, sopravvissuto alla fine del rapporto sentimentale nel 2004 e raccontato per la prima volta proprio sulle pagine di 7, vent’anni fa. Allora, alla domanda “vi siete mai mollati seriamente?”, Dolce rispose: «Neanche un giorno. Noi viviamo 365 giorni all’anno insieme, attaccati...». E Gabbana: «E se non siamo attaccati fisicamente, lo siamo con la testa».

Domenico Dolce mentre sistema un abito prima di una sfilata di Alta Moda


E oggi? Esiste un nome per raccontare il rapporto che c’è fra voi? Non siete più amanti...

Dolce: «Ci manca pure questo»

...ma neppure solo amici, solo soci, solo colleghi.

Dolce: «Quello che ci lega è un intreccio indissolubile, una forma di amore, di rispetto, di complicità assoluta. Siamo due entità che si sono trovate unite, come lo yin e lo yang. A volte penso che ci siamo incontrati per un destino divino, un disegno, persino contro le nostre volontà. Ci lega la stessa malattia, fobia, idea fissa di coltivare la bellezza».

«COME YIN E YANG, IL SENTIMENTO
CHE CI UNISCE È INDISSOLUBILE»

Il bilancio dei vostri quarant’anni insieme?

Ancora Dolce: «Alla mia età ho capito due cose: che il tempo mi sfugge (un’esperienza può sembrarmi breve anche se è durata quarant’anni e lunghissima anche se è durata poco, ma l’ho vissuta male) e che i sentimenti sfuggono alla parola, non si lasciano rinchiudere in una definizione. Dire a Stefano “ti amo, ti voglio bene” non rende giustizia al sentimento privato, personale, unico, che ho verso di lui. Tanta gente ama qualcun altro, ma il loro sentimento non è uguale al nostro: il nostro è legato a un’idea particolare della moda, all’emozione che proviamo davanti a un tessuto, un ricamo, un pizzo». «Tutti i sentimenti che proviamo li buttiamo nel nostro lavoro», dice Gabbana.

E Dolce: «Ci chiediamo spesso: che facciamo della nostra vita? Che cosa ci rende felici? Che cosa ci dà la serenità di stare qui in ufficio dalla mattina alla sera? L’età avanza, oggi raccogliamo le esperienze, la maturità, la saggezza, la conoscenza, oggi diamo valore a ciò che conta. Da quando nel 2004 la Borsa ha invaso la moda, siamo stati tentati di vendere, ci hanno sventolato sotto il naso pacchi di soldi che sembravano non finire mai. Ma è questo che ci fa felici? Avere quei soldi, ma perdere la libertà di decidere a livello creativo? Abbiamo visto stilisti geniali vendere e pentirsene sei mesi dopo. La moda è finanza? Io penso di no: con le multinazionali finisce che non crei più».


Stefano Gabbana mentre sceglie i tessuti per la collezione «Fatto a mano»



L’anima dell’azienda

Mai avuto un blocco creativo, raccontano. «Errori tanti, blocchi mai». «Domenico la mattina arriva in ufficio con i taccuini pieni dei disegni che ha fatto la sera o la notte, a casa. Io riesco a staccare completamente, lui mai, persino in vacanza entra in crisi da astinenza dal lavoro», dice Gabbana. E Dolce: «Non è una fatica, mi piace. L’altra sera ero distrutto, poi improvvisamente mi è venuta un’idea e subito ho dovuto schizzarla, per paura di dimenticarmela. Essere stilista per me è avere il “male”, non è una professione, è una vocazione». Così l’anima dell’azienda, raccontano, sono gli abiti — certo insieme alle borse e alle scarpe — «con l’abito parli, ti relazioni, ti distingui dagli altri, racconti quello che vuoi far sapere di te. Il fatto che in questi anni i grandi gruppi abbiano boicottato gli abiti a favore degli accessori, ha impoverito la storia di tutti noi. Cosa racconteremo ai posteri: che in un determinato periodo storico abbiamo portato in giro quella borsa e non quell’altra? L’abito è cultura, la sua funzione è anche terapeutica: quello che indossi deve sedurti, darti serenità, felicità, sicurezza. Quando l’allora sovrintendente della Scala, Alexander Pereira, ci ha chiesto di fare i costumi per l’opera, gli abbiamo risposto di no perché non ci sentiamo all’altezza: non conosciamo in modo così approfondito la storia e se fai un costume di una certa epoca, devi tagliarlo e cucirlo esattamente come si faceva allora. Siamo ossessionati dai dettagli».

Vestite quasi sempre di nero. Se l’abito è comunicazione, cosa comunicate?

Gabbana: «Non ci mettiamo d’accordo, eppure finisce che ci vestiamo sempre in modo simile: io più sportivo, Domenico più classico, ma il mood è lo stesso. La scelta del nero, ora che ci penso, viene forse dalla necessità di annullarci. È come se fossimo una lavagna su cui poter disegnare».

Dolce: «Non prendiamo mai un abito di sfilata (Gabbana lo interrompe: “Una volta eravamo in taglia, oggi, anche volendo, che potremmo prendere? Un paio di scarpe!”), piuttosto indossiamo completi delle collezioni precedenti, non vogliamo mancare di rispetto ai nostri clienti. E ogni cosa che ci portiamo via dal negozio la paghiamo (abbiamo lo sconto del 30%): alla fine sono sempre soldi nostri, ma quello che conta è l’esempio».


Stefano Gabbana fra Eva Herzigova e Claudia Schiffer nel 2008



Più forti di prima

«La storia va letta a distanza. Devi sederti sulla riva del fiume e aspettare, come dicono gli orientali. Io l’ho imparato dalla vita: l’attesa dà la risposta», dice Dolce.

Sedersi sulla riva del fiume ad aspettare cosa?

«Che la follia di ciò che ci è accaduto in Cina diventi solo un ricordo», risponde.

A un anno e due mesi dai fatti cinesi, gli stilisti raccontano di essere più forti di prima. Dicono che i successi sono graditi - e come potrebbe essere altrimenti - ma raramente sono buoni maestri: ci sono vittorie che si conquistano solo se si è stati capaci di perdere qualche battaglia, cadere e risorgere. La loro battaglia persa si chiama #DGTheGreatShow, l’evento con un migliaio di ospiti organizzato a Shanghai nel novembre 2018. Un’avventura iniziata con tre brevi video lanciati su Instagram in cui una modella cinese tenta di mangiare alcune specialità gastronomiche italiane con le bacchette, e finita in modo rocambolesco, quasi grottesco: insulti sui social (“razzisti”, “sessisti”, “offendete la Cina”), negozi picchettati, boicottaggio da parte delle piattaforme di e-commerce, che hanno sospeso la vendita dei prodotti della maison italiana, video con le scuse dei due stilisti, annullamento della sfilata, precipitoso rientro a casa.

« LACERI, PIENI DI FERITE. MA
IN CINA SIAMO CRESCIUTI»

«È stato come tornare dalla guerra: sconfitti, laceri, pieni di ferite. Ce le siamo bendate e medicate, ci sono voluti mesi per uscirne. Ma siamo positivi, non abbiamo rancori, abbiamo chiesto scusa nella maniera più onesta del mondo. Basta, finita lì. I clienti non li abbiamo mai persi, chi ci conosce non ci ha mai lasciato», dice Dolce. Gabbana: «Tu sei stato più male di me. Sì, ho sbagliato una comunicazione, ma non volevo offendere nessuno, è stato un errore stupido, naïf. Ci hanno accusati di razzismo: io razzista! Mi ci vedi, Domenico, razzista? Se c’è una cosa che non sono è questa. Nella storia e nella cultura degli italiani il razzismo non c’è. C’è l’accoglienza».

«POLITICALLY CORRECT È
TARE NEL GREGGE»

Molte aziende occidentali hanno avuto, nell’era del mercato globale, problemi di comunicazione in Cina - Paese che negli ultimi dieci anni ha rappresentato il 38% della crescita dell’industria della moda in tutti i segmenti e le previsioni parlano di un’onda favorevole che durerà fino al 2025 - ma lo schianto a terra di Dolce e Gabbana è stato così violento e ha avuto un’eco mediatica così ampia da diventare un caso di scuola: sui pericoli della comunicazione diretta, non filtrata; sulla trappola dell’“arroganza culturale”; sulla forza e rapidità di reazione dei consumatori quando i loro sentimenti vengono feriti; sull’opportunità di una “neutralità” di linguaggio mirata ad evitare ogni potenziale equivoco o malinteso (se siete fra chi pensa che il politicamente corretto abbia fatto delle vittime, converrete che una di esse è l’ironia).
Domenico Dolce abbraccia la super top Naomi Campbell al termine di una sfilata della collezione estiva di Dolce & Gabbana della seconda metà degli Anni Ottanta


Il politicamente corretto fa male alla moda?
Gabbana: «I video della ragazza che mangia i cibi italiani usando le bacchette li avevamo pensati come un tributo al Paese. Ma abbiamo imparato che ci sono argomenti che non si devono toccare, perché per gli orientali sono sacri. Comunque politicamente corretto, per me, significa non essere del tutto sincero, avere paura di dire ciò che davvero penso, fino in fondo. Vuole dire restare nel gregge». Dolce: «Politicamente corretto per me è sinonimo di ruffiano, è un’attitudine falsa...». Gabbana lo interrompe: «Non falsa, direi un’attitudine non spontanea e noi due invece siamo super spontanei, diciamo cose che non stanno nel pensiero comune dominante». Dolce: «Gli eventi della vita mi hanno fatto capire che non devo cambiare per gli altri, perché così mi annullerei, non potrei più fare il mio mestiere. Sono coerente con me stesso, ma ho imparato a non esprimermi nel posto e nel momento sbagliato. Continuo a credere nella diversità: non devi pensarla come me per essere mio amico. Conosco persone di tutti i Paesi, di tutte le religioni. Dov’è il problema? Vado alle feste dei miei amici ebrei e sono curioso di tutto quello che riguarda le loro usanze. Poi torno a casa con le mie madonnine, i miei santi e la mia fede. Ma la conoscenza è bellissima, rafforza il tuo sapere o lo mette in dubbio. E se il dubbio vince, ti ritrovi per forza a cambiare». Gabbana: «Siamo diventati saggi non politically correct. Dolce & Gabbana è un’azienda coraggiosa». Dolce: «Anche un po’ incosciente, ma abbiamo fatto così tante esperienze che, se abbiamo un minimo di materia grigia, non possiamo usarle se non per migliorarci».


«UNA VOLTA CI SIAMO MENATI. ERA
PRIMA DEL 1985, IN PIAZZA 5 GIORNATE»

Vi siete mai presi a botte?

«A Milano, in piazza Cinque Giornate», risponde Gabbana, «lui mi aveva prestato dei soldi e siccome non sono uno che vuole avere debiti, ero pronto a restituirglieli. Ma Domenico non voleva prenderli, allora glieli ho buttati in faccia. Figurati! Mi è saltato addosso». Dolce: «Avevo una camicia di jeans e me l’hai strappata. Che anno era? La Dolce & Gabbana non esisteva ancora, quindi prima del 1985».



La bolla di bugie creata dal web
«Non esiste una sola realtà, ciascuno legge ciò che gli accade intorno secondo le proprie esperienze, le proprie ossessioni, la propria paura, cattiveria o buon animo», riflette Dolce. «Lo capisco, è normale, è una cosa umana. Così c’è chi ha visto nei nostri video lanciati su Instagram a Shanghai un razzismo che non c’era. Anche il nostro lavoro nella moda, in tutti questi anni, è stato letto in modi molto diversi: è stato esaltato, applaudito, frainteso, distorto...». «Ti ricordi cosa ci disse quel tale dopo le prime sfilate? Non uscirei mai con una donna vestita Dolce & Gabbana. E perché mai? A me i nostri abiti ricordano quelli di mia madre, mia nonna, la loro eleganza, la loro magia. A lui ricordavano le troie», interviene Gabbana. E continua: «Il disastro ce l’hanno augurato in tanti, avrebbero voluto vederci morti perché diamo fastidio, siamo cani sciolti, non facciamo parte di nessuna fazione, lobby o gruppo, per cui siamo un bersaglio facile, appena possono caricano il fucile».



«A noi la Cina è sempre piaciuta»
«A noi la Cina è sempre piaciuta, siamo stati fra i primi a portare le modelle orientali a Milano, abbiamo speso capitali per organizzare sfilate e fare eventi. Chi farebbe certi investimenti in una terra che non ama? Solo uno stupido», insiste Dolce. «Quello che abbiamo fatto in Cina in tutti questi anni è scritto nella storia. Ma il mondo dei social spesso non conosce niente, non è documentato. Vale solo per quel breve arco di tempo in cui fa rumore, con i suoi insulti e i suoi attacchi. È il segno di una decadenza e ha creato una bolla di bugie. Ma, come tutte le cose, arriva e va. Credo che in tanti siano già stufi di questo modello culturale. Non si può vivere senza sapere niente, nessuno può nutrirsi di ignoranza: solo la bellezza fa crescere». Gabbana: «Io ho lasciato i social. Non sono cambiato, ma non mi interessa più far sapere a tutti quello che faccio e che penso. Prima ero spontaneo, ora non mi diverto più».

Uno scatto dall’album personale dei due stilisti, durante una vacanza al mare



La rivincita dell’Expo 2019 a Shanghai
Dolce: «L’Expo di Shanghai dello scorso novembre per l’azienda è stata un grande successo, una rivincita. Ma dal 2018 noi non siamo più tornati in Cina. Abbiamo viaggiato poco ultimamente: una pausa ci sta. Per la primavera abbiamo grandi progetti». Qualcuno vi chiamò per esprimere solidarietà? Dolce: «Non abbiamo rapporti con nessun collega, diciamoci la verità. Una volta avevamo degli amici, oggi no». Gabbana: «L’invidia fa parte dei sentimenti umani, se riesci ad arrivare in alto perdi tutta una serie di cose fra cui l’amicizia di chi lavora nel tuo settore. Magari qualcuno, nei pensieri, la solidarietà ce l’ha pure data. Ma a parole no».

Dolce: «Dopo un anno e due mesi, posso dire che la scivolata cinese, questo salto mortale triplo dove ci siamo spaccati il collo, ci ha rafforzati: se prima le radici erano a 2,5 metri di profondità, adesso sono arrivate a 5 metri...».




Sbagliare meglio
Even tried. Even failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better, scrive lo scrittore irlandese Samuel Beckett. Ho sempre tentato. Sempre fallito. Non importa. Tenterò di nuovo. Fallirò di nuovo. Fallirò meglio. Beckett è un paladino della cultura dell’errore. Anche Dolce e Gabbana potrebbero iscriversi allo stesso fan club: in fondo, sostengono, ci sono cose impossibili da comprendere se non si passa attraverso l’errore.

«Ho imparato che quando si dice: che sfiga... la verità è che non si è stati capaci di ascoltare la vita. Per superbia, vanità, ignoranza, incoscienza, negligenza. La vita ti punisce, ma è come a scuola, quando hai un maestro severo: la punizione ti rimette sull’attenti. Resetti e riparti», dice Dolce. «Un insuccesso è come un avvertimento», prosegue Gabbana. «Impari a migliorarti. Dici: va bene, ho capito, mi organizzo per fare meglio».
Dolce: «Se poi sei recidivo e non vuoi vedere la verità - perché a volte vedere la verità fa molto male - la colpa è tua. La mia filosofia è mettermi devoto davanti all’errore, studiarlo, lavarmi via tutta la merda che mi è finita addosso, ripartire. Gli inciampi sono quelli che fanno fare un salto in avanti, altrimenti rischi di restare standard. Sempre lì, allo stesso punto».
Gabbana: «Sbagliare è una cosa che nessuno si augura, ma noi cerchiamo sempre di girarla a nostro favore, perché siamo positivi. È difficile beccarci tutti e due down. Se uno è down l’altro è up, o per lo meno fa finta di esserlo».




Mandela diceva: non perdo mai. O vinco o imparo.

Dolce: «Non abbiamo tutta questa sicurezza in noi stessi, però siamo ottimisti verso le persone, la vita, i progetti. Ci piace seminare positività». Gabbana: «L’altro giorno stavamo lavorando al progetto dell’Alta Moda estiva. E, non so perché, mi è venuto in mente di aggiungere un’altra sfilata al nostro evento. Siamo sempre pieni di idee. Se avessimo più soldi potremmo fare tante più cose! Siamo sani, produciamo, ma non disponiamo della liquidità dei grandi gruppi».

Il sogno da realizzare?

Gabbana: «Io voglio poter lavorare fino all’ultimo giorno della mia vita». Dolce: «A me piace sfilare, condividere». Gabbana: «Di’ la verità: il tuo sogno è avere i capelli». Dolce: «Non lo sognavo neppure a vent’anni, figurati oggi. Della testa mi importa poco, sono un passionale, preferisco puntare al cuore».

Monica Bellucci, una delle donne icone dello stile Dolce & Gabbana. L’immagine è stata scattata a Portofino nel 2011, durante un setting fotografico


CARTE D’IDENTITÀ

Domenico Dolce — È nato il 13 agosto del 1958 a Polizzi Generosa, in provincia di Palermo. Il padre è sarto, la madre ha una bottega in cui vende abiti e tessuti. Alla fine degli anni Settanta lascia la Sicilia per Milano: si iscrive a una scuola di moda che frequenta per un anno e mezzo, poi comincia a lavorare nello studio dove incontra Gabbana. È il 1980. Cinque anni dopo, la loro prima sfilata segna la nascita della Dolce&Gabbana

Stefano Gabbana — È nato a Milano il 14 novembre 1962, secondogenito di una famiglia di origini venete, padre tipografo e madre stiratrice. Studia grafica e inizia a collaborare con alcune agenzie di pubblicità, ma la sua vera passione è la moda. Ottiene un lavoro in una sartoria dove incontra Dolce, che è primo assistente dello stilista. La loro relazione sentimentale è terminata nel 2004




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