(Orlan)
Sigmund Freud parlava di anatomia, dunque di corpo, come di un destino.
Secondo questo assunto, il corpo che vesto è il solo possibile per me. Unico aspetto, unica pelle, unica immagine che mi possa rappresentare.
Eppure il corpo che mi è toccato potrebbe anche non piacermi. Potrei sentirmi condannata – più che destinata – a stargli dentro. Non sempre ci si riconosce in ciò che si è. Non necessariamente ci si sente comodi nei propri panni.
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Orlan, Saint Orlan |
Il corpo è un’entità fisica e biologica che determina la nostra identità. Così come può ingabbiarla. Perché, di fatto, l’identità è anche – e soprattutto – psichica. E può accadere che l’identità psichica non combaci esattamente con il corpo in cui abita. Ne consegue che, essendo la nostra un’identità biopsichica, non sempre ci sentiamo in accordo con ciò che siamo. Ad esempio: “destino, per un transessuale, è la ricerca faticosa di un’identità che trovi conferma in una adeguata anatomia, quella cui ci si sente destinati, non sempre quella in cui si nasce.” Le parole di Francesca Alfano Miglietti, estrapolate dal suo saggio Identità mutanti, sottolineano la possibilità di modificare o trasformare il proprio corpo in qualcosa di più pertinente alla propria identità. Nel caso specifico, si tratta di identità di genere. Ma sappiamo che le questioni relative all’identità sono molteplici. Al di là del genere, l’identità può avere mille altre sfaccettature e fragilità. Cosa significherebbe, allora, “indossare” la propria identità?
Nell’epoca in cui viviamo sembra sia molto più semplice scegliere di costruirsi identità fasulle o palliative, piuttosto che lasciar vivere la propria. La costruzione di una nuova identità o di una identità migliore – che sia all’altezza delle nostre stesse aspettative o dei canoni imposti – , è diventata la strada più semplice e più battuta. Mi modifico. Divento pian piano ciò che vorrei essere, mi trasformo nell’immagine che vorrei dare di me. Lo faccio per sentirmi più sicuro. Lo faccio per sentirmi valido. Per sentirmi migliore. Per sentirmi all’altezza. Per sentirmi “qualcosa”.
Siamo nell’epoca di un’identità sancita dallo specchio, di cambiamenti estetici che tradiscono una forte fragilità psichica di fondo. Vogliamo essere perfetti, impeccabili, sempre giovani. E allora ricorriamo a creme, diete, personal trainer, proteine, amminoacidi, bisturi. La chirurgia estetica ci soccorre. È un approdo risolutivo che ci consente di ottenere il cambiamento che desideriamo: ho il seno piccolo ma posso ingrandirlo, ho le labbra sottili ma posso gonfiarle, ho il naso aquilino ma posso rimpicciolirlo, ho adipe in eccesso ma posso eliminarlo, ho rughe sul viso ma posso appianarle. Non ho zigomi che sporgono ma posso ottenerli, non ho natiche sferiche, ma posso comprarle. Insomma, posso ottenere l’aspetto che desidero. Mastoplastica, addominoplastica, rinoplastica, liposuzione, otoplastica, blefaroplastica e lifting d’ogni sorta. Possiamo diventare ciò che vogliamo. Preconfezionare, con prove su prove di morphing al pc, una nuova identità estetica e ottenerla sottoponendoci a una serie di interventi chirurgici. Basta disporre di un florido conto in banca, e il corpo che abitiamo non è più un destino.
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Orlan, Corps sculptures, 1964 |
Tra chirurgia plastica, biotecnologia e ingegneria genetica il corpo non ha più limiti definibili. Siamo nell’era del corpo “postorganico” come direbbe Teresa Macrì, l’era in cui quasi tutti i confini sono stati superati. E l’arte, da sempre figlia del proprio tempo, ha indagato la questione nell’ambito specifico della Body Art e della Performance Art. Ma il salto dal corpo in azione al corpo che muta, è avvenuto sul finire degli anni Ottanta e il principio degli anni Novanta con il lavoro di una particolare artista: Orlan.
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Orlan surgery, 1990-1993 |
Al secolo Mireille Suzanne Francette Porte, Orlan – pseudonimo adottato nel 1968 – nasce a Saint-Étienne nel 1947, ed esordisce come body artist e performer nella prima metà degli anni Sessanta. Le sue prime performance hanno già l’impronta distintiva della sua ricerca, sono cioè una continua riflessione su se stessa come donna e come individuo. Ironiche, dissacranti e autocelebrative, da subito si riferiscono alla questione identitaria. In Corps-sculptures, uno dei suoi primi lavori datato 1964-1967 e documentato fotograficamente, Orlan tenta di partorire se stessa, di autogenerarsi. Nelle foto il corpo appare nudo e assume pose contorte. Il passo successivo è il travestimento. Orlan prende a mascherarsi. Indaga sulle questioni relative all’identità di genere. In una performance del 1968 si fa ritrarre durante una manifestazione con un cartello in mano, riportante la frase “ io sono un uomo e una donna”.
Allo stesso anno risale Sperme, una performance in cui l’artista incontra i suoi amanti sul letto della madre, sporcando lenzuola candide con lo sperma di questi uomini. Prende poi quelle lenzuola e va a ricercarne le macchie, assumendo la posa della Ricamatrice di Vermeer. Da qui parte un’altra serie di lavori fotografici che realizzerà negli anni Settanta, scatti in cui la ricerca di mutazione identitaria abbraccia la mimesi: Orlan decide di vestire i panni di alcune celebri icone femminili recuperate dalla storia dell’arte, dalla Venere di Botticelli alla Grande Odalisca di Ingres.
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Orlan, Self-Hybridations Africaines, 2000-2003 |
Gli anni Settanta la vedono poi ornarsi di drappeggi e incarnare l’immagine, irriverente e ridondante, di una santa ammiccante dai seni scoperti. È la volta di Saint Orlan. A partire dal 1971, infatti, l’artista santifica se stessa. Ossessionata dall’estasi di Santa Teresa di Gian Lorenzo Bernini, veste abiti ripresi dall’iconografia cristiana per smascherare il bigottismo. Per svelare quanto falsificante possa essere l’immagine perfetta e perbenista che vogliamo dare di noi. In una di queste fotografie, Orlan sbrana un bambin Gesù realizzato in pasta di pane, inscenando il cannibalismo dietro l’acquasanta. Il concetto di santità profanata viene riproposto in una performance del 1976 intitolata Le Baiser de l’Artiste e realizzata al FIAC, Grand Palais di Parigi. In questa occasione l’artista si nasconde dietro una fotografia del proprio corpo nudo e bacia chiunque inserisca nell’apposita fessura aperta al centro dei seni, una moneta da cinque franchi. Una riflessione sulla prostituzione o sul preconcetto?
Votata alla provocazione e allo scandalo, Orlan finisce, con questa performance, per essere espulsa dall’Accademia di Belle Arti di Lione e disconosciuta dalla sua famiglia. Il suo lavoro, però, è molto più profondo di quanto appaia. Non si tratta di mera provocazione, ma di una vera indagine sociologica e psicanalitica. Orlan indaga l’identità effimera, caduca e mutante. Smaschera la fragilità e la labilità dell’individuo. La menzogna del suo apparire. L’ostentazione di ciò che non è. Indaga l’uomo minimo che si atteggia a semidio. E che etichetta la donna per giganteggiare su lei.
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Orlan, Sef-Hybridation Indian, 2000 |
Perfettamente in linea con le tematiche femministe di quegli anni, il suo lavoro si fa sempre più audace e dirompente. La santa diviene donna dai facili costumi nel bacio d’artista. E questo svela le due immagini pregiudiziali che albergano nella mentalità maschilista. Donna-santa o donna-puttana. Non esistono diritti o vie di mezzo. Esiste solo la claustrofobica scatola del preconcetto.
È il 1984 quando, a dispetto di scandali e polemiche, il suo ruolo di artista inizia a ricevere validi riconoscimenti: Orlan diviene curatrice dell’International Symposium of Performance di Lione e docente presso la Scuola Nazionale di Belle Arti di Digione. Il lavoro sull’identità e sulla mutazione, però, richiede un passo ancora più audace. Quello di agire direttamente sulla carne. Sul finire degli anni Ottanta, Orlan presta attenzione a quel fenomeno sociale che ormai ha preso piede con il nome di chirurgia estetica. Uomini e donne si rivolgono al chirurgo per modificare i propri connotati, con l’obiettivo di aderire sempre più a canoni di bellezza propinati dai media.
Orlan parte da questo per rovesciare i criteri di partenza. Anziché intervenire per perseguire una bellezza ideale, l’artista si fa operare più volte per sfasciare tali canoni, e ricrearne dei propri. Le icone della storia dell’arte dalle quali aveva preso ispirazione per i suoi travestimenti, diventano ora spunto per trasformazioni dirette. Orlan vuole il mento della Venere botticelliana, la fronte della Gioconda di Leonardo, la bocca dell’Europa di Moreau. Vuole insomma ricreare su di sé una nuova identità che sia la sintesi di modelli personalmente scelti e che non risponda a nessuno dei canoni socialmente imposti.
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Orlan, Grande odalisque, 1977 |
È il 30 maggio 1990, giorno del suo quarantatreesimo compleanno, quando decide di avviare questa mutazione. Quel giorno, a Newcastle, dà il via a una serie di operazioni chirurgiche che si concluderà nel 1993. Le operazioni saranno per la precisione nove, e verranno documentate mediante registrazione video, oltre che trasmesse in alcuni casi via satellite in più istituzioni al mondo. La pianificazione di questa nuova identità fisica viene fatta mediante morphing al pc. Segue poi l’intervento in sala operatoria. Una sala trasformata scenograficamente in un vero e proprio set fotografico. Ogni operazione si apre con la lettura, da parte dell’artista, di brani di psicanalisi o filosofia, letteratura o sociologia. Testi di Lacan o Freud si alternano a quelli di Artaud o Serres. Mentre la operano, Orlan parla con i chirurghi o con i tecnici delle luci. Il dolore fisico scompare grazie all’anestesia locale e l’artista si mostra vigile e serafica. Non viene scossa dai bisturi o dalla sua stessa carne aperta, ma si dona alla telecamera con aria rilassata. Ciò che resta di questi interventi – sangue drenato o carne liquefatta – diventa reliquia. Viene raccolto in fiale ed esposto in gallerie o musei.
“Posso osservare il mio corpo sezionato senza soffrire. Posso vedere me stessa fino in fondo alle mie viscere, sotto un nuovo punto di vista…” (Orlan).
Nella stessa Francia in cui Gina Pane aveva fatto della ferita e del dolore la cifra dell’Art Corporel, Orlan apre la strada a una poetica del corpo mutante: l’Art Charnel. E lo fa stilando un vero e proprio manifesto, in cui spiega come questa sia una pratica artistica che utilizza mezzi tecnologi per stravolgere l’immagine concretamente. Nella carne. Una carne che si fa materia da plasmare, duttile e modificabile, esattamente come ogni altro materiale artistico. Il dolore fisico non le interessa. Viene anestetizzato. E il sangue non è che se stesso. Ciò che conta è il dopo. È il risultato. Mutazione estetica, chirurgia, biotecnologia. L’arte Carnale è l’arte del corpo che si fa. Che diventa opera mediante l’azione chirurgica. E Orlan sembra guardarci sorniona dalla sua sala operatoria, e dirci: signori, questo è il mio corpo e la mia opera d’arte sono Io!
Successivamente alle Surgery-Performance, in un'apoteosi dell’ibridazione, Orlan produce una serie di autoritratti virtuali, digitalmente modificati, in cui mixa sul suo volto differenti etnie. Caratteristiche degli indiani del Nordamerica si mescolano a fattezze africane o precolombiane. Per un’estetica dell’ibrido postumano.
“L’anatomia è una scelta, è una possibilità modificabile, e sono dunque modificabili il destino e la propria identità come alterità e scelta” (Francesca Alfano Miglietti).
Dopo ben quarant’anni di attività artistica, l’istrionica Orlan vive oggi tra Los Angeles, New York e Parigi. Il suo lavoro è esposto in diversi musei, come il Centre Georges Pompidou di Parigi o il Getty Museum di Los Angeles. La più grande restrospettiva che le è stata dedicata è stata realizzata al Museé d’Arte Moderne Métropole di Saint-Etienne nel 2008, con la curatela di Lorand Hegyi ed Eugenio Viola.