Oliver Sacks |
Oliver Sacks
Il dottore paziente
Addio al neurologo e scrittore diventato celebre per «Risvegli» Un’avventura intellettuale ora restituita dall’autobiografia che in Italia uscirà postuma
di Livia Manera
31 agosto 2015 (modifica il 1 settembre 2015 | 12:06)
«Credo davvero che l’analisi dei miei pazienti mi abbia salvato la vita più di una volta. Nel 1966 i miei amici pensavano che non sarei arrivato ai trentacinque anni, e ne ero convinto anch’io. Ma con l’analisi, buoni amici, con le soddisfazioni del lavoro clinico e della scrittura, e, soprattutto, con una buona dose di fortuna, ho superato gli ottant’anni contro ogni aspettativa».
È un Oliver Sacks molto diverso da quello a cui ci hanno abituati libri comeRisvegli e L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, quello che scriveva queste parole in On the Move, l’autobiografia destinata a uscire postuma da Adelphi il 15 ottobre con il titolo In movimento, dopo che il grande neurologo si è spento ieri a ottantadue anni stroncato dal cancro. A parlare in questo libro-testamento non è per una volta il medico inglese in magica sintonia con i suoi pazienti, ma un uomo fragilissimo e a disagio nel mondo: un concentrato di autodistruttività che gioca con la morte e che malgrado ripetuti e plateali fallimenti trova l’armonia che pareva fuori della sua portata grazie al lavoro clinico e alla scrittura.
Ci sono molti modi di leggere In movimento: come l’opera in cui Sacks sapendosi malato terminale affronta finalmente l’argomento di un’omosessualità sofferta e rarissimamente praticata – dopo un’avventura a quarant’anni ne sono seguiti trentacinque di celibato, fino a quando si è innamorato «(Per dio!) a settantasette anni» del compagno che gli è sopravvissuto Billy Hayes; come la cronaca di una serie di manie difficilmente associabili a un intellettuale lucido – dall’ossessione per le motociclette e la velocità, al sollevamento pesi che tocca punte di 600 chili; come la confessione di una passione per l’anfetamina che a trent’anni lo aveva già portato al delirium tremens; e come l’elenco dei sensi di colpa che per tutta la vita lo hanno torturato insieme all’onta (e a quel tempo il crimine) di essere omosessuale nell’Inghilterra che condannava un genio come Alan Turing alla castrazione chimica. A questo si aggiunga la vergogna di non avere fatto abbastanza per un fratello schizofrenico, la cui malattia ha spinto Sacks appena ventenne a fuggire un ambiente famigliare e culturale opprimenti per rifugiarsi in un altrove geografico (gli Stati Uniti) e mentale (la scrittura), e il quadro di un’esistenza torturata è completo.
Ma al di là delle confessioni e dei mea culpa, ciò che affascinerà il lettore di In movimento è la lezione che si annida nelle sue pagine scritte con una semplicitàche si accompagna a una singolare reticenza sul piano psicologico — un tratto paradossale, per un medico che ci ha insegnato a leggere le vite dei malati di Tourette, autismo, afasia e amnesia, come altrettante avventure di coraggio, resistenza e creatività. È come se in seguito alla scoperta della malattia terminale che gli ha fatto guardare alla propria vita «da una grande altitudine, come una specie di paesaggio, con un senso più profondo dei legami tra le sue parti», Sacks avesse sentito l’urgenza di raccontarsi, ma senza spiegarsi. Dicendo: sono nato in una famiglia di medici e scienziati ebrei nella Londra straniata dalla guerra; sono stato esiliato come tanti altri bambini inglesi in un collegio dai metodi sadici; ho deluso e fatto infuriare i miei genitori quando da adolescente mi sono confessato omosessuale (la madre gli disse: «Vorrei che non fossi mai nato»); sono fuggito negli Stati Uniti dopo che mio fratello Michael è diventato psicotico e l’aria in casa si è fatta irrespirabile; ho perso la verginità a ventitré anni ubriacandomi fino a perdere i sensi e la memoria dell’accaduto; mi sono innamorato di uomini sbagliati, ho spezzato cuori e ho avuto il mio a pezzi; ho corteggiato la morte con la velocità, il bodybuilding estremo e con le anfetamine; e solo quando mi hanno cacciato dai laboratori di ricerca perché ormai facevo solo disastri, e per ripiego ho cominciato dedicarmi ai pazienti, ho capito che la mia vita poteva avere uno scopo e non ho più lasciato quell’ancora di salvezza.
Ma la vera sorpresa per i lettori italiani sarà scoprire che Emicranie, il primo successo di Oliver Sacks, gli è costato la perdita del posto e un temporaneo esilio – il capo della clinica in cui lavorava gli disse: se pubblichi questa roba ti giuro che ti licenzio e non lavorerai mai più negli Stati Uniti. E che Risvegli, la commovente raccolta di casi di malati di encefalite letargica che lo ha reso famoso, gli ha procurato la diffidenza dell’ambiente scientifico ma anche accuse infamanti, come quella di avere abusato sessualmente di pazienti minori. Divulgare le storie private dei pazienti (col loro consenso, sebbene a volte dubbio) ha dato a Sacks un successo planetario, è vero, ma solo ora scopriamo a che prezzo. Quando suo padre gli ha mostrato la prima recensione (positiva) di Emicranie, lo ha fatto con il Times che gli tremava nelle mani. Una cosa era armarsi di curiosità, pazienza e compassione, e aiutare i pazienti a raccontare le loro storie — trovando in questo modo un rapporto con il genere umano che altrimenti la sua patologica timidezza gli avrebbe impedito. Un’altra era divulgare quelle storie al resto del mondo. Il paladino dei diritti dei disabili Tom Shakespeare ha detto che «Oliver Sacks è l’uomo che ha scambiato i suoi pazienti per una carriera letteraria». Persino il suo editore inglese, Faber & Faber, davanti al manoscritto di Risvegli ha avuto un sussulto etico e l’ha rifiutato.
Dunque questa è la vera storia di Oliver Sacks, e questa , se vogliamo, è anche la sua meravigliosa lezione: quella di uno scrittore che ha superato ostacoli giganteschi come la perdita di manoscritti, il rifiuto degli editori, il licenziamento dal lavoro e l’ostracismo della propria comunità professionale, per aver lavorato sulla linea che separa la scienza dalla letteratura, infrangendo un tabù. È una storia di resilienza, quella di Sacks. Di spregiudicatezza, anche. E una storia d’amore. Perché, come ha raccontato lui stesso in questo libro, «l’atto di scrivere, quando va bene, mi dà un piacere, una gioia, che non somiglia a nessun’altra. Mi porta in un altrove che mi assorbe interamente facendomi dimenticare tutto, ansie, preoccupazioni e persino il passare del tempo. In quel raro, paradisiaco stato della mente arrivo a scrivere senza sosta fino a che non riesco più a vedere il foglio. E solo allora scopro che è scesa la sera…».
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