mercoledì 16 settembre 2020

«Una grande storia d’amore» / Susanna Tamaro torna alla narrativa

«Una grande storia d'amore»: Susanna Tamaro torna alla narrativa
Susanna Tamaro (Ulf Andersen)

«Una grande storia d’amore»: Susanna Tamaro torna alla narrativa

Il 17 settembre esce per Solferino il nuovo romanzo della scrittrice: qui sotto il capitolo iniziale. Il 16 settembre l’intervista su Corriere.it con il direttore Luciano Fontana



di SUSANNA TAMARO

15 settembre 2020 (modifica il 15 settembre 2020 | 22:00)

 
Per due giorni ha piovuto ininterrottamente. Nubi basse, gonfie, cupe, scese come un manto a coprire l’orizzonte che si apre al di là del mare. La casa umida, il cuore stanco, il tempo passato sul divano davanti al camino a sfogliare libri che mi lasciavano indifferente.
Nel tardo pomeriggio, con il nostro vecchio ombrello dalle stecche rotte, sono andato a chiudere le galline nel pollaio. Non ho dovuto fare molta fatica, erano già tutte e quattro dentro, appollaiate sui loro posatoi.



La copertina del nuovo romanzo di Susanna Tamaro «Una grande storia d’amore» (Solferino, pagine 288, euro 17) in uscita il 17 settembre
La copertina del nuovo romanzo di Susanna Tamaro «Una grande storia d’amore» (Solferino, pagine 288, euro 17) in uscita il 17 settembre
Solo tornando verso casa mi sono accorto che a ovest, nella direzione in cui nei giorni limpidi scorgevamo la sagoma azzurrina della Corsica, il muraglione grigio si stava aprendo, due cumoli si erano separati e, nello spazio tra di loro, prima timidamente e poi con più baldanza, erano comparsi i raggi del sole; con lenta caparbietà avevano conquistato alla luce strati sempre più ampi del cielo. Nel tempo che ho impiegato per sistemare le ultime cose e chiudere le imposte, le nubi si sono sollevate come un pesante sipario di un teatro, lasciando intravedere dietro di sé la tinta delicatamente rosata che, al crepuscolo, preannunzia il ritorno del bel tempo. Contro quella speranza, i rami e i rametti ancora neri e nudi degli arbusti sembravano frasi di quella lingua per me misteriosa che tu tanto amavi decifrare.
Sono entrato in cucina: era fredda, da troppo tempo niente sfrigolava su quei fornelli. Mi sono fatto un tè, un toast farcito delle poche cose che c’erano in frigo. Con un piccolo vassoio ho raggiunto il divano, il grande ceppo aveva quasi finito di ardere; ne ho aggiunto un altro, soffiato un po’ con il mantice per rinfocolare le braci, poi mi sono lasciato cadere sui cuscini, ho acceso la tv e ho mangiato distrattamente il toast, mentre una carrellata di politici riversava le sue concioni irrilevanti nel silenzio della stanza.
Coperto solo da un plaid, mi sono addormentato.
Nella confusione astrusa dei sogni, a un certo punto sono comparse le tue amatissime arnie. Nessuna ape entrava, nessuna usciva, sembrava non ci fosse più vita all’interno. Da quanti mesi erano abbandonate a loro stesse? Da tanti, forse da troppi. In uno dei tanti brevi risvegli ho provato un piccolo rimorso. Dovrei occuparmene, mi sono detto, almeno provarci. Domani magari, ho pensato, se ci sarà il sole, sì… Poi l’intermittente sonno degli infelici ha confuso le carte, consegnandomi all’oscurità della notte.
Il giorno dopo il sole splendeva. La pioggia aveva fatto bene alle piante e al prato, il grigiore dell’inverno era ancora lì, ma già si vedeva l’incalzare primaverile del rinnovamento. Uno stelo più verde, sui rami il discreto ingrossarsi delle gemme da cui, a breve, sarebbero comparse le foglie. Ho atteso l’ora di pranzo, come tante volte ti avevo visto fare, ho controllato che non ci fosse neppure un alito di vento. Intanto pensavo con un certo timore a quelle strane scatole e al loro minaccioso contenuto.
Negli ultimi anni me ne parlavi in modo quasi ossessivo. Se avevamo degli ospiti, dopo un po’, con discrezione, ti interrompevo temendo che si annoiassero alle tue entusiastiche descrizioni del mondo degli imenotteri. Quando eravamo soli ogni tanto mi chiedevi: «Mi stai ascoltando?». E mentre annuivo con lo sguardo vago, tu come un’implacabile professoressa: «Allora ripetimi quello che ho detto!». A quel punto tentavo di barare, e lo facevo in modo così clamoroso da farti scoppiare a ridere. Ora sono pentito. Perché non ti ho ascoltato?
Forse perché, nella distrazione in cui spesso galleggio, fra tutti i pensieri possibili non era mai comparso questo: che tu te ne saresti andata e io sarei rimasto qui, nella nostra casa, a fare la vestale delle tue api.
Nella memoria emergevano frammenti, ma erano frammenti confusi, non avrei mai saputo metterli uno accanto all’altro, creando qualcosa che avesse senso. Avevo solo un’immagine chiara: tu che ti avvicinavi cantando piano, con voce calma, a quelle scatole e, prima di sollevare con una lunga leva il coperchio, bussavi dolcemente sulla parete di legno come ti trovassi davanti la porta della stanza dei bambini. «Posso?» chiedevi e solo dopo, con calma, scoperchiavi l’arnia. «Perché lo fai?» ti ho chiesto un giorno. «Perché è gentile farlo» mi hai risposto. «Gentile perché?» «Se tu vivessi nell’oscurità, non vorresti essere avvisato che sta per irrompere la luce?».
Quanti sono i modi in cui il vento può soffiare? E quanto silenzio può esserci in una casa in cui gli unici passi a risuonare sono i tuoi? Quando navighi e il vento sferza la barca, il suo ululato, diverso solo nell’intensità, ti avvolge ogni istante e, oltre alla tua voce, senti solo il tintinnio di tutto ciò che si muove. Quando invece un forte vento si abbatte sulla casa, sono le stanze a parlare: l’imposta che sbatte, gli infissi che cigolano, i rumori di una vita che balzano fuori da qualche luogo misterioso e ti danzano intorno con l’ossessiva fedeltà della memoria. Cos’è questo ronzio? Possibile che sia il frigorifero? E quella specie di sinistro lamento sarà il cardine della porta della soffitta che da troppo tempo devi oliare? O forse il monotono canto di un uccello notturno, lo scricchiolio delle assi del pavimento nella stanza accanto? Spalanchi la porta con fare burbero e gridi: «Chi è?». Ma l’unico a risponderti è ancora una volta il vento.
I morti abitano le case?
O è solo la nostra paura ad abitarle?
L’incontro al «Corriere» il 16 settembre e il 20 a Pordenonelegge
Una grande storia d’amore, di Susanna Tamaro, esce il 17 settembre per Solferino (pp. 288, e 17). Il 16 settembre l’autrice sarà a Milano, nella Sala Buzzati del «Corriere», intervistata dal direttore Luciano Fontana (ore 18.30, letture di Monica Ghisleri). L’incontro, chiuso al pubblico, sarà visibile in streaming sucorriere.it. Domenica 20 Tamaro sarà a Pordenonelegge (ore 10.30, Spazio Gabelli, letture di Lorenzo Zuffi). Alle 12 l’incontro sarà disponibile in video differita sulla PNlegge tv.
  • Andrea e Edith: la forza di due anime intrecciate
Di quanti strati è fatta la vita? Di uno, di due, di dieci, di cento? Una volta, durante una delle nostre gite a Cortina, guardando l’Alpe di Fanes, hai osservato che in fondo noi non siamo diversi dalle montagne, prima non c’erano e ora ci sono». Chi parla è Andrea, e parla a Edith. Edith che non c’è, ma c’è stata a lungo, una vita. Capitano di mare lui, qualche quarto di nobiltà nel sangue, educazione rigida, disciplina militare. Lei giovane ribelle, presa dalle lotte studentesche, dal rifiuto convinto delle sue origini piccolo borghesi. Si incontrano per caso, su un traghetto diretto in Grecia. Si ritrovano fortunosamente, a Venezia. L’acqua alta — il destino — li blocca per qualche giorno nello stesso appartamento sospeso nel tempo. Poi, sarà tutto un rincorrersi. Amarsi, ritrovarsi. Andrea e Edith sono i due poli diUna grande storia d’amore, il libro con cui Susanna Tamaro torna alla narrativa. In libreria da domani, per Solferino, il racconto (qui sopra ne anticipiamo il capitolo iniziale) è una corsa che trascina, come la forza magnetica che spinge i due protagonisti l’uno verso l’altra. Giovani, innamorati, pronti a sbagliare, correggersi, rifare sopra le macerie. Una corsa che Andrea ora riguarda da lontano, in una pausa forzata che serve a riflettere: lui, voce fuori campo eppure più che coinvolto nei fatti che rievoca, ricorda il passato da un’isola battuta dal maestrale. Racconta, e intanto nota i piccoli cambiamenti del suo corpo, i segni della vecchiaia, e il giardino, le api di Edith, la natura che prosegue la sua vita intrecciata con le nostre. La sua voce, quasi una lettera scritta alla moglie, è forse anche quella dell’autrice che ha nelle corde l’osservazione attenta del cuore umano e dei prodigi, minuscoli e meravigliosi, della botanica. Susanna Tamaro ha scelto quasi un anno fa di ritirarsi dalla vita pubblica: torna ora con due sole eccezioni (il 16 settembre, al «Corriere», intervistata dal direttore Luciano Fontana, e il 20 a Pordenonelegge, dove è di casa). Poi, dal 17 settembre, sarà il suo libro a parlare per lei. (giulia ziino)






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