sabato 27 febbraio 2021

Ragazzo Italiano / Com’è il grande romanzo italiano dell’esordiente professor Ferrari

 


Ragazzo Italiano

Com’è il grande romanzo italiano dell’esordiente professor Ferrari


Storia personale dell’Italia che esce dal buio e dal passato, anche se non del tutto, vacillando, ubriaca e facendocela a metà. Praticamente come oggi, anche se oggi non c’è nessuno che ci tiene per mano


Simonetta Sciandivasci
14 Febbraio 2020


Ragazzo italiano, titolone che piacerà ai sovranisti residui, è il primo romanzo di Gian Arturo Ferrari, il primo che scrive lui, dopo che per anni s’è occupato dei romanzi degli altri. Parla di Ninni, che però è una scusa, quello che nei libri si chiama espediente narrativo, per parlare di dopoguerra, il grande romanzo italiano, romanzo a sé, inconcluso, tradito, forse fallito, e che Ferrari racconta in trecento pagine e descrive in un rigo, il primo, in incipit. Questo: “Andavano sgangheratamente nella notte, il bambino e la nonna, sembravano due ubriachi”. Sono Ninni e sua nonna che, insieme a tutta la famiglia, vanno a prendere il treno per Milano, dove si trasferiscono per sempre, dall’Emilia. Ed è l’Italia che esce dal buio, dal passato, anche se non del tutto, vacillando, ubriaca, spaventata, con gli occhi asciutti, facendola per metà.


Photo by Tommaso Pecchioli on Unsplash

Ferrari racconta molto della baldanza di quegli anni, dei contrasti, della spavalderia delle città e della contrizione delle campagne, dell’imbarazzo della provincia, e lascia soltanto trasparire quello che Carlo Levi, invece, aveva indagato a fondo, del dopoguerra, ne L’orologio, e cioè la corruzione, il vecchio che mangia il nuovo, il compromesso che stritola tutto, i partiti che cercano di riaversi dalla dissoluzione, la politica che non riesce a farsi guidare dai ragazzi italiani, a essere una ragazza. Come è scissa in Ferrari, la notte del dopoguerra italiano, lo è anche in Carlo Levi. Scissa tra presagio cattivo e buon auspicio. Così (prendiamo da Levi): “La notte a Roma par di sentir ruggire i leoni. Un mormorio indistinto è il respiro della città, e a tratti un rumore roco di sirene, come se il mare fosse vicino, e dal porto partissero navi per chissà quali orizzonti. E poi quel suono, insieme vago e selvatico, crudele ma non privo di una strana dolcezza, il ruggito dei leoni, nel deserto notturno delle case”. A Milano non ruggiscono i leoni, ma parlottano i rampolli dell’alta società, e fanno la stessa paura, rappresentano lo stesso limite, impongono la stessa scelta: o ti adatti a loro, o diventi il loro nemico. All’inizio Milano è, per Ninni che ci arriva bambino, povero, incerto, balbuziente, con una famiglia capeggiata da un padre orgoglioso e rigido, e senza santi in paradiso, un posto dove i gradini si possono salire se si hanno fiato e tenacia. E Ninni ha entrambi, più la mano della nonna, finché non s’accorge però che quella possibilità aperta era finta, che nella società giusta, buona, alta, lui sarebbe stato sempre un estraneo, perché ha addosso il mondo agricolo, e allora si fionda sui libri con una convinzione e una passione raddoppiata rispetto a quella dei primi incontri con la letteratura, quando era bambino, e le storie gli servivano per evadere e non per andare a fondo e stare nel mezzo.

Se la Roma del dopoguerra che racconta Levi vede già il fango, la Milano di Ferrari è ancora arrembante, febbricitante per la ricostruzione, accelerata fino alla spietatezza. Ninni va, procede, cresce sgangheratamente tra il mondo rurale dal quale proviene e quello industriale e metropolitano che gli si dipana intorno. Milano è la città di cui Ninni si innamora con grande spavento, non volendosi concedere completamente e subito proprio perché teme che cancelli, in lui, le tracce del mondo da cui arriva. E tuttavia non le resiste, non può farlo. Milano gli offre la luce quando lui s’aspetta la nebbia, gli fa incontrare il professore d’italiano che gli insegna che per pensare, parlare e poi è scrivere è necessario prima di tutto imparare a distinguere le cose importanti da quelle che non lo sono. La selezione, l’attività più politica di tutte (lo ha scritto non molto tempo fa John Freeman, giovane editore statunitense ed ex direttore di Granta: il modo in cui la letteratura può fare politica è fare antologie, cioè selezioni).

Milano è l’incontro con il sesso, l’adolescenza, la politica, le ragazze, il preside ebreo che sa cos’è successo al suo popolo prima che l’Europa lo sappia, lo accetti e cominci a raccontarlo. Milano è la borghesia “colta, avanzata, pensosa ma con verve” che gli dimostra quali sono le regole per farsi accettare, quanto è bello riuscirci, quanto calore dà. Ninni però ha letto troppi libri, incontrato troppe persone, amato troppo sua madre e sua nonna, donne si storie e fantasia e sogni puri, per accontentarsi, per non accorgersi che c’era “una punta di falso”, e che la sola cosa che contava per quel mondo, e cioè l’appartenere, non contava per lui.

La seconda parte del dopoguerra, e della vita di questo ragazzo italiano, è stata il tentativo di emanciparsi da quell’appartenere. Non ci siamo ancora riusciti, in provincia e in città, ed è per questo che il dopoguerra è un romanzo inconcluso e ancora così vivo, e istruisce ancora libri intensi, pieni di presente. Come questo, che è antico, invidiabile, novecentesco, e pieno di spiegazioni sull’oggi indispensabili per il domani.

Andiamo ancora sgangheratamente nella notte, però senza nonni che ci tengono per mano, e chi lo sa se è un bene o un male.


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