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“Il corpo” di Stephen King: il racconto che ispirò il celebre film Stand by me
Dal racconto edito su “Stagioni Diverse” intitolato “Il corpo” è stato tratto nel 1986 il film “Stand by me – Ricordo di un’estate”, diretto da Rob Reiner, con Will Wheaton, River Phoenix e Richard Dreyfuss.
Nel settimo capitolo de “Il corpo”, Io Narrante si carica sulle spalle il carico dei suoi taccuini di teenager e ne deposita il pezzo più significativo nel racconto, come si fa con del materiale ingombrante (e maleodorante) che si vuol riciclare una volta per tutte:
“Eppure è stata la prima storia che abbia mai scritto che sembrava la mia storia – la prima che sembrava davvero intera, dopo cinque anni di tentativi.”
Cioè da quando era appena novenne.
“No, non è una storia molto bella – il suo autore era troppo preso dall’ascoltare le voci degli altri per ascoltare, come avrebbe dovuto, quella proveniente dall’interno. Ma era la prima volta che, in un racconto, usavo i posti che conoscevo e le cose che sentivo e che c’era un entusiasmo smarrito nel vedere le cose che mi avevano turbato per anni presentarsi in una nuova forma, una forma in cui avevo imposto il mio controllo.”
Io è oggi uno scrittore affermato:
“E anche se da allora ho scritto sette libri su gente che sa fare cose stravaganti come leggere il pensiero e prevedere il futuro, fu quella la mia prima e ultima esperienza di un lampo psichico…”
Hai fatto di più, Io caro, hai permesso a chiunque di scrutare con gli occhi sbarrati nella cavità più orrida del tuo cervello.
“Volevo che leggesse e al tempo stesso non volevo. Un misto scomodo di orgoglio e di timidezza che non è mai cambiato troppo dentro di me quando qualcuno chiede di vedere. L’atto di scrivere in sé è fatto in segreto, come la masturbazione…”
Non ci avevo mai pensato, ma la cosa è realistica.
“Per me è sempre è un voler sesso e non arrivarci – sempre il lavoro di mano da adolescente nel bagno con la porta chiusa.”
E io che credevo che scrivere fosse soltanto un fatto di evacuazione. O di parti extra-uterini! A seconda di quel che nasce. Probabilmente è per il mio retaggio cattolico. I protestanti, specie quelli yankee, hanno meno balle in testa. Ne hanno di più fenomenali, loro.
“Nei miei racconti c’erano sempre pezzi di piombo, mai proiettili.”
Perché sei un Io fatto a modo suo, anzi, tuo.
“Oggi scrivere è il mio lavoro e il piacere è un po’ diminuito, e sempre più spesso quel piacere colpevole, masturbatorio, è venuto ad associarsi nella mia mente nelle fredde immagini cliniche dell’inseminazione artificiale: vengo secondo le norme e le regole stabilite dal mio contratto di edizione.”
La colpa di chi scrive è che, quando lo fa, il mondo gli è indifferente, e lui al mondo.
“Oggi, qualche volta, guardo questa macchina per scrivere, e mi domando quando rimarrà all’asciutto di parole giuste. Non voglio che questo accada. Scommetto che posso rimanere in forma finché non rimango a corto di parole giuste, sapete?”
C’è poi un dialogo (di cui riporto solo il discorso diretto) fra Io e Chris, un suo solidale, dopo che il primo aveva raccontato a voce una storia coram puer comitum:
“‘È una storia bellissima. Sono proprio un po’ troppo stupidi per capirla.’
‘No, non è un granché. È una fesseria.
‘Dici sempre così. Non raccontarmi cazzate che non ci credi nemmeno tu. La scrivi, la storia?’
‘Può darsi. Ma per ora no. Non posso scriverle subito dopo averle raccontate. Aspetterà.’
‘Sai, quello che ha detto Vern. Del finale che sarebbe un bidone?’
‘Be’?’
‘La vita è un bidone, lo sai. Guarda noi.’”
E poi:
“‘Ti vengono fuori così, come bolle dalla coca.’
‘Che cosa?’
‘Le storie. Mi fai morire amico. È come se potessi raccontare un milione di storie e ne avessi sempre una da aggiungere. Sarai un grande scrittore, un giorno, Gordie.’
‘No, non credo.’
‘Ma sì invece. Forse scriverai anche su di noi se mai ti trovassi a secco di materiale.’
Chris è il primo vero fan di Io.
‘È come se Dio ti avesse dato qualcosa, tutte quelle storie che sai inventare. E ti dicesse: Questo è quanto abbiamo per te, ragazzo. Cerca di non perderlo.’”
Mai avuto un amico così.
“Quattordici anni dopo vendetti il mio primo romanzo e feci il mio primo viaggio a New York.”
L’editore si chiamava Keith.
“… avrei voluto dirgli: L’unico motivo per cui uno vuol scrivere delle storie è per poter capire il passato e prepararsi per qualche futura mortalità. È per questo che tutti i verbi delle storie sono al passato, mio buon Keith, anche in quelle che vendono milioni di copie di paperbacks. Le uniche due forme d’arte utili sono la religione e la narrativa.”
Caro Io, ti regalo un proverbio della mia terra: “ôgni cajòun gh’à la so passiòun.” Te la traduco: “every fool people has his passion.”
La mia non è capire il passato, ma riviverlo. La tua non so. Il mio verbo è il presente. Il tuo è quello che si usa nei discorsi funebri, dove il morto, che i vermi stan già divorando, è sempre stato una persona dabbene.
“Quello che gli dissi fu: ‘Stavo pensando ad altro, ecco tutto’, le cose più importanti sono le più difficili da dire.’”
Per questo le vado cercando dentro di me e le scaravento fuori senza manco guardarle bene in faccia.
Poi ti rivolgi a me (con lo you):
“Se vi pare che ci sia una certa leggerezza da parte mia, avete ragione – ma forse ne ho motivo. A una età in cui tutti e quattro saremmo considerati troppo giovani e immaturi per fare il presidente, tre di noi sono morti. E se è vero che i piccoli eventi rimbalzano allargandosi sempre di più nel tempo, sì, forse, se avessimo fatto la cosa più semplice e avessimo fatto semplicemente l’autostop fino alla zona di Harlow, allora loro oggi sarebbero ancora vivi.”
Un giorno, magari sotto sera, ti parlerò di Richard Feynman, di Hugh Everett III, di Andrej Linde e di Alan Guth. Non ci capirai un tubo, anche perché spifferò il tutto nella lingua di Dante e tu annuirai in quella di Whitman, però poi ci imbastirai su una storia da tre milioni di dollari. Faremo a metà?
A questo punto della storia, Io e i suoi amici decidono di andare a cercare il corpo dello scomparso coetaneo, che si sapeva che giaceva più o meno da quelle parti. Una giovane vittima del caso di cui sopra, travolto da quello stesso treno che, per un pelo, non sotterra Io e i suoi amici che, ad un certo punto xytz dello spazio-tempo, devono mettere le ali ai piedi, mentre quel mucchio di ferraglia li rincorre emettendo grida lancinanti: Tutu! Tutu! tutu! E quei balordi, terrorizzati ma soprattutto trafelati, fuggono dalla morte e poi se la ridono come scemi. Sono soltanto mocciosi e fanno tenerezza quanto pietà.
Un capoverso mi gusta e lo riporto, perché c’è tutta la semplice ficcantezza di Io:
“Facemmo un po’ di mugugni sul guarda un po’ dove ci doveva capitare di farci prendere dalla pioggia, ma solo perché era solo quello che ci si aspettava che ci dicessero – in realtà eravamo tutti ansiosi, non vedevamo l’ora che arrivasse…”
La banalità di una situazione banale che banalmente diventa epica. Come traspare quando trovano quello che cercano:
“Sul fondo del salto c’era una macchia di sottobosco paludoso, fangoso, che mandava un brutto odore. E da un cespuglio di more spuntava una mano bianchissima.
Qualcuno di noi respirò. Io no.”
Caspita, sembra di essere lì, insieme a quella marmaglia d’infanti!
“… quella mano inerte tesa, orribilmente bianca, le dita aperte, come la mano di un bambino annegato. Ci diceva la verità di tutta la faccenda. Ci spiegava tutti i cimiteri del mondo. L’immagine di quella mano mi ritorna ogni volta che sento o leggo di un’atrocità. Da qualche parte, attaccato a quella mano, c’era il resto di Ray Brower.”
Sento un rapido sverginamento di un, ancora per poco, incontaminato Io.
“Mia moglie, i miei figli, i miei amici – sono convinti che avere un’immaginazione come la mia dev’essere molto bello; a parte il fatto che mi procura un bel po’ di quattrini, ho la possibilità di vedere un piccolo film mentale ogni volta che le cose si fanno noiose. In linea di massima hanno ragione. Ma ogni tanto la cosa si rivolta e ti morde a sangue con quei lunghi denti, denti che sono stati limati e appuntiti come quelli di un cannibale. Vedi cose che davvero vorresti proprio non vedere, cose che ti tengono sveglio fino alle prime luci dell’alba. In quel momento vidi una di quelle cose, la vidi con assoluta chiarezza e certezza. Era stato strappato via dalle sue scarpe. Il treno lo aveva strappato via dalle sue scarpe, come aveva strappato la vita dal suo corpo.”
Narra un’altra multiversa storia (che ha la voce squillante di mia figlia Anna) che Io aveva solo quattr’anni quando gli capitò di vedere un amichetto scivolare sulle rotaie per venire poi travolto da un treno.
Io, in stato confusionale, tornò a casa e pare che avesse dimenticato ogni cosa.
“Il ragazzo era no. era il lato della batteria dove il terminale dice NEG”
Era semplicemente morto, caro mio Io!
Nulla di più semplice.
“… la distanza tra i suoi piedi nudi a terra e le sue scarpe sporche di terra appese ai rovi. Era quasi un metro, era miliardi di anni luce. Il ragazzo era sconnesso dalle sue scarpe al di là di ogni possibile speranza di riconciliazione. Era morto.”
Cavoli!
“Uno scarabeo gli uscì dalla bo…”
E basta! Ho capito!
“… e si rende conto di quanto è sottile il velo tra la tua attitudine di uomo razionale – lo scrittore con le toppe di pelle sui gomiti sulla giacca di velluto – e i bizzarri miti gorgonici dell’infanzia.”
Io parla ora di sé, di quel che era.
In inglese was vale sia per era che per fu. Ei fu!
“Quel ragazzo ero io, penso. E il pensiero che segue, che mi insegue come un getto di acqua gelata è: Quale ragazzo intendi?”
Pensa addirittura di tornare, in incognito e senza dirlo ad anima viva (o morta) in quel mitico luogo, a cercare il secchiello da mirtilli del ragazzo che non c’è più. Il ragazzo, perché forse il secchiello è sempre là, da qualche parte. Ma che ci vuoi fare, ragazzo?
“Be’, semplicemente tirarlo fuori dal tempo. Me lo rigirerei tra le mani, attento alla sensazione che produce, riflettendo sul fatto che so che l’ultima persona che l’ha toccato è da tempo sepolta.”
Lo baceresti anche, eh?
“Lo stringerei, lo leggerei, lo sentirei tra le mani… e guarderei il mio viso in quei punti dove ci sarebbe rimasto del riflesso. Riuscite ad afferrare?”
Sì, Io, ci riesco, senza che mi esca l’ernia, ci riesco.
A volte la mia voglia di sapere cosa sta facendo in quel momento un oggetto inanimato in una casa che so al momento deserta è assurda. Ma non ci faccio caso. E saluto da lontano quell’anima vicina.
Ma osa sta facendo ora! Non cosa faceva allora quando la vidi per l’ultima volta, e magari nemmeno le badai.
Quel ricordo, se mi ritorna, se lo rivedo dentro di me, allora lo voglio rivivere, come se fosse ambientato nel presente. È una balla, non pensare che non lo sappia, ma me ne frego. La descrivo come la ri-vedo ora.
“Anche se avessi saputo la cosa giusta da dire, probabilmente non avrei potuta dirla. I discorsi distruggono le funzioni dell’amore, credo – è un bel casino per uno scrittore dire una cosa del genere, penso, ma sono sicuro che è così. Se parlate per dire a una daina che non avete nessuna intenzione di farle del male, quella svanisce in un batter d’occhio. La parola è danno. L’amore non è quello che i poeti del cazzo come…”
Ognuno lo è per il prossimo, un poeta del cazzo… Ognuno, anche il Sé, è un Autre, diceva quel tale.
Un ragionamento terribile: “L’amore ha i denti; i denti mordono; i morsi non guariscono mai. Nessuna parola, nessuna combinazione di parole può chiudere quelle ferite d’amore. È tutto il contrario, questo è il bello. Se quelle ferite si asciugano, le parole muoiono con loro. Credetemi pure. Io mi sono fatto una vita con le parole e so che è così.”
Sei un fingente, caro Io: “Una volta mia moglie mi chiese cos’era e io le dissi una bugia prima ancora di rendermi conto che intendevo farlo.”
Sono una persona sincera, io. Soprattutto quando mento.
“Io?
Io sono uno scrittore, adesso, come ho detto. E un sacco di critici pensano che quello che scrivo è merda. Molte volte penso che abbaino ragione… ma ancora adesso mi fa girare la testa metter questa parola, ‘Scrittore’, nel punto Occupazione nei formulari che devi riempire in banca o dal dottore. La mia storia pare tanto una favola che è tanta fottutamente assurda.”
Esatto, ognuno scrive ed evacua la sua, di merde.
“E mi chiedo se c’è davvero senso in quello che sto facendo, o in quello che si suppone che stia facendo, in un mondo in cui un uomo può arricchirsi giocando a ‘facciamo finta che’.”
Una buona notizia: sei capitato nel mondo giusto per te.
Io non so, ma mi sa di no.
“Il ponte ferroviario è scomparso, ma il ponte è ancora in giro. E anch’io.”
E anch’io, mio caro Io.
Al prossimo racconto-cazzata, caro!
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