lunedì 16 dicembre 2019

Ilaria Del Monte / La luce tenue che filtrava dalle finestre






Ilaria Del Monte
La luce tenue che filtrava dalle finestre
Marta Cereda
19 ottobre, 2012

Ilaria Del Monte (Taranto, 1985) è una pittrice. Una definizione importante, quasi anacronistica, ma inevitabile, che è riportata anche sulla sua carta d’identità. “Qualche giorno fa sono andata in Comune, a Milano, per chiedere la residenza. Dopo aver spiegato il mio lavoro, sono stata posta davanti a un bivio: “Allora cosa scrivo, artista o pittrice?” Ho risposto pittrice.”

Non è la prima volta che incontro Ilaria e, in questa visita dopo l’estate al suo studio, dove gli armadi traboccano di tele in attesa di essere dipinte, mi stupisco nel non vedere i suoi disegni. Credevo che l’atmosfera di casa avrebbe favorito la produzione di sottili tratti di matita e di scene ariose e sospese.



Perché non hai disegnato?

L’approccio con il disegno è completamente diverso dall’approccio che ho con la pittura. La carta ha una superficie molto delicata, leggera, bianca. Non ammette errori. Io, solitamente, prima disegno sul lucido, dove posso permettermi il lusso di correggermi quanto voglio, poi riporto sulla carta, dove il segno deve essere uno solo. Uso una carta indiana che non permette di cancellare, invece la superficie della tela consente di porsi delle domande, di sollevare questioni innumerevoli, di cambiare direzione, finché le idee non si chiariscono da sole. Nel momento in cui sviluppo l’idea di un quadro ho in mente la visione di un’atmosfera che vorrei rendere sulla tela. Il disegno, invece, è una questione di precisione.

Non fai mai incorniciare i dipinti?

No, trovo estremamente bella la tela. Col bordo più scuro, sembra quasi una tavola. Spesso, però, dipingo delle cornici all’interno dei dipinti. Barocche, dorate, per mettere il quadro nel quadro, un po’ alla Velázquez.



Crei una metapittura. Nelle tue opere si trovano spesso aperture, siano esse finestre da cui irrompe l’esterno o cornici, verso scenari ulteriori, rispetto agli ambienti da te rappresentati. Fornisci alla narrazione una possibilità di sviluppo ulteriore, non vincoli i personaggi e gli ambienti alla visione dipinta.

Creo un gioco di scatole cinesi. Mi piace anche l’idea che all’interno del quadro ci sia la stessa fonte di luce che illumina i personaggi che si muovono in quello spazio.



Nei tuoi dipinti ci sono riferimenti diversi, che vanno dalla letteratura, alla storia dell’arte, al cinema.

Il cinema è molto influente, perché spesso le scene sono girate in interni e presuppongono un’inquadratura, una mente che ha pensato e scelto la fotografia. Molte opere sono tratte da frame di film, diventando dei ready made in cui ambiento idealmente i miei personaggi. Alcuni quadri, invece, sono ispirati a foto che ho scattato nelle case di amici. Ricordo che, mentre cercavo casa a Milano, dopo averne visitate decine, sono entrata in quella in cui tuttora abito: la prima cosa ad avermi colpito è stata la luce tenue che filtrava dalle finestre, disegnandosi sul parquet. È stato un attimo e la decisione era già presa.



Attingi da fonti diverse gli elementi che rielabori e assembli in base alla sensazione che vuoi rendere. Recuperi un’atmosfera e la rileggi. Ricordo che mi parlavi di William S. Borrough e della tecnica del cut up, con un riferimento al dada e a una rilettura dell’idea di collage.

Per i dadaisti era il fine. Obiettivo era la meraviglia e lo stupore rispetto alle analogie prodotte dall’accostamento casuale di oggetti, parole, immagini diverse. Nel momento in cui due oggetti vengono avvicinati si crea tra loro, o la mente umana attribuisce loro, un legame simbolico. Per me, invece, non è il fine, ma un metodo. Sono consapevole del fatto che ci sono diverse strade per rientrare a casa, non ne scelgo una a priori. Anche i sogni possono essere considerati come un confuso “copia e incolla” delle esperienze. È la combinazione degli ingredienti che determina il risultato finale, come quando si cucina.



Nelle tue opere, infatti, c’è spesso un’atmosfera che si potrebbe definire onirica. Proponi eventualità che nella realtà non si verificherebbero, così come accade nei sogni.

C’è un legame con l’onirico, ma non credo che esista un modo per dare forma ai sogni. I miei dipinti sono sogni a occhi aperti, fatti coscientemente. Le analogie inspiegabili che vi sono alla base determinano la mia attrazione per una situazione o per un soggetto, la cui messa in relazione crea una sensazione. L’arte, secondo me, è una questione retinica, è fatta per creare sensazioni, non per fornire spiegazioni.



Per quanto riguarda i soggetti, scegli prevalentemente figure femminili. Potrebbero essere potenzialmente autobiografiche?

Non strettamente, perché non reputo di condurre una vita così interessante. Sono personaggi, interpreti, perché la mia è una coscienza femminile. In tutti i grandi dipinti della storia dell’arte, a partire dal Rinascimento, le protagoniste sono femminili. Esistono, ovviamente, i ritratti maschili dei committenti, ma tutte le figure idealizzate, dalla Madonna, all’odalisca, alla Venere, sono donne forti e sensuali, connotate da un imperfetto naturalismo. In “Abito” la donna indossa un vestito talmente lungo da diventare la tappezzeria della stanza. Mia madre era sarta e, spesso, trascorreva intere giornate a cucire, confezionandomi vestiti meravigliosi. Mi annoiavo durante le lunghe sedute di prova, ma ricordandole adesso non posso evitare di commuovermi. L’idea da cui ero partita è che la casa fosse un posto da cui non era possibile fuggire. L’abitazione diviene una costrizione, un confine, che cattura il diavolo del focolare.



I volti che dipingi non sono idealizzati, ma universali. Non è l’attenzione a tratto somatico che ti interessa.

Spesso, infatti, lo sguardo è vuoto, così come sono vuoti le suppellettili e gli altri mobili nella stanza.



Alla sensazione di spaesamento provocata da tutti i tuoi dipinti, per incongruenza o sottrazione di qualche elemento, a cui si somma la collocazione al di fuori di un momento storico definibile, nei tuoi ultimi lavori è evidente un cambiamento di toni e un’atmosfera decadente.

Quest’ambientazione deriva parzialmente da un mio interesse verso le case e i luoghi abbandonati. La pittura e l’arte, in generale, affondano in radici talmente profonde nell’anima dell’individuo da non essere completamente governabili. Oliver Sacks ne “L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello” sostiene che molte persone affette da disturbi della personalità attraverso l’arte riescono a esprimersi con una calma che il loro stato di normalità non permetterebbe, perché pare che le manifestazioni artistiche, le espressioni che vanno al di là del linguaggio, della verbalità mettano in contatto con una parte della mente primigenia. Nel momento in cui si perpetua un’attività come la pittura si allena questo tipo di comunicazione, quindi può darsi che io mi senta più nostalgica in questo periodo.

Ilaria Del Monte in studio a Milano


Durante la nostra conversazione, inframmezzata da aneddoti e divagazioni, finisco col parlare di Antonio Donghi. Non avevo notato, sulla scrivania, una monografia sull’artista romano. La sfogliamo, continuando a chiacchierare, e il mio sguardo corre inevitabilmente dalle pagine alle tele di Ilaria Del Monte.






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