sabato 31 agosto 2019

Scarlett Johansson / Hollywood


Scarlett Johansson

HOLLYWOOD









George R.R. Martin / Nightflyers / Neflix


George R.R. Martin
NIGHTFLYERS
Neflix






Jodie Turner-Smith

Gretchen Mol



Murakami come Rowling e Rushdie: suo il Premio Andersen


Haruki Murakami



LETTERATURA


Allo scrittore giapponese è stato assegnato il più importante (e ricco) riconoscimento letterario della Danimarca: «Per la capacità di contaminare il racconto classico, la cultura popolare, la tradizione giapponese, il realismo magico e il dibattito filosofico»


18 novembre 2015 (modifica il 20 novembre 2015 



Murakami come Rowling e Rushdie: 

suo il Premio Andersen

Allo scrittore giapponese il più importante riconoscimento letterario della Danimarca.




«Per la capacità di contaminare il racconto classico, la cultura popolare, la tradizione giapponese, il realismo magico e il dibattito filosofico che sono alla base della sua arte». Con queste motivazioni la giuria del Premio Hans Christian Andersen martedì 17 novembre ha conferito allo scrittore Haruki Murakami (Kyoto, 1949) il più importante riconoscimento letterario della Danimarca. E il più ricco: vale 500 mila corone, circa 67 mila euro. Spesso indicato come probabile vincitore del Nobel (finora mai ricevuto), Murakami, 66 anni, milioni di copie vendute in tutto il mondo, durante la sua lunga carriera ha ricevuto numerosi premi letterari, tra cui il Kafka nel 2006.

Il Premio Andersen è stato conferito finora cinque volte: prima di Murakami sono stati insigniti dell’onorificenza danese Paolo Coelho nel 2007, J.K. Rowling, creatrice della saga di Harry Potter, nel 2010, Isabel Allende nel 2012 e Salman Rushdie nel 2014. L’autore di Dance Dance Dance, 1Q84, L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio, Uomini senza donne (questi titoli sono stati pubblicati in Italia da Einaudi) ritirerà il «cigno di bronzo», simbolo del premio, e l’assegno il prossimo settembre a Odense, città natale di Hans Christian Andersen (1805-1875). ( c.br. )


venerdì 30 agosto 2019

Lolita / A Screenplay

    LOLITA 

    A Screenplay

    Vladimir Nabokov, Lolita – Sceneggiatura, Bompiani 1997
    Prefazione di Vladimir Nabokov alla pubblicazione italiana della sceneggiatura che ha scritto adattando il suo romanzo. Kubrick utilizzerà ben poco di questa versione ma lascerà ugualmente a Nabokov il credit di unico autore dello script, che gli frutterà una nomination agli Oscar. Una mossa che può essere interpretata come un segno di riconoscimento e ammirazione per lo scrittore, ma anche come misura cautelativa per allontanare potenziali critiche dovute all’altissimo livello letterario del romanzo.
    Verso la fine di luglio del 1959 (il mio diario tascabile non riferisce la data precisa), in Arizona, dove io e mia moglie eravamo a caccia di farfalle, con quartier generale a Forest Houses (tra Flagstaff e Sedona), ricevetti via Irving Lazar, che mi rappresentava, un messaggio da parte dei Sig.ri Harris & Kubrick. Avevano acquistato i dintti cinematografici di Lolita nel 1958, e mi chiedevano ora di raggiungerli a Hollywood per scriverne la sceneggiatura. L’onorario offerto era ragguardevole, ma l’idea di rimanipolare un mio romanzo suscitava in me soltanto disgusto. Una certa stasi nelle attività dei lepidotteri indigeni suggeriva, comunque, l’opportunità di salire in macchina e proseguire in direzione della West Coast. Dopo un incontro a Beverly Hills (durante il quale mi fu detto che, al fine di tranquillizzare il censore, non ci sarebbe stata male l’aggiunta di una scena con pudiche allusioni a un Humbert fin dall’inizio segretamente sposato con Lolita) seguito da una settimana di sterili meditazioni in riva al lago Tahoe (dove una malaugurata sovrabbondanza di manzanita impediva la presenza di buone farfalle) decisi di non intraprendere il lavoro e partii per l’Europa.
    Soggiornammo a Parigi, Londra, Roma, Taormina, Genova e Lugano, dove arrivammo per una permanenza di una settimana il 9 dicembre (Grand Hotel, stanze 317-318, dice la mia agenda del 1959, che si fa ora più loquace). Avevo smesso ormai da tempo di pensare al film, quando ebbi all’improvviso l’esperienza di un’illuminazioncella notturna, di origine diabolica forse, ma inusitatamente incisiva nella sua vivida perentorietà, e percepii chiaramente un’allettante via di affrontare una versione cinematografica di Lolita. Mi pentivo di aver dovuto rifiutare l’offerta, e andavo vanamente rimuginando brani di dialogo onirico, quando per magia mi arrivò un telegramma da Hollywood, che mi esortava a rivedere la mia primitiva decisione, promettendomi più mano libera.
    Passammo il resto dell’inverno a Milano, a San Remo e a Mentone, e giovedì 18 febbraio 1960 partimmo per Parigi (2 singole Mentone-Parigi, letti 6 e 8, carrozza 9, partenza 19.15, arrivo 8.55, informazioni, queste e altre, che vengono riportate non solo per gusto mnemonico, ma anche perché non ho cuore di abbandonarle, neglette e inutilizzate). Il primo tratto del lungo viaggio verso Los Angeles cominciò con una gag piuttosto infausta: quell’accidenti di vagone-letto si fermò prima di arrivare al marciapiede, tra le mimose e i cipressi, nell’eleganza acquarellosa di una serata in Costa Azzurra, e io, mia moglie e un facchino ormai quasi fuori di sé dovemmo sciamare da livello terra a livello treno per poterci imbarcare.
    La sera dopo eravamo a Le Havre, sull’United States. Avevamo prenotato una cabina (la 61) sul ponte superiore ma fummo trasferiti senza sovrapprezzo, con omaggio di frutta e whiskey, in una squisita suite (la 65), offerta da una squisita direzione – una delle tante carinerie riservate agli scrittori americani. Sabato 27 febbraio, dopo quattro intense giornate newyorkesi, partimmo per Chicago (ore 22.00, carrozza 551, scompartimenti-letto en suite E-F, appunti ameni, innocenti minuzie di una volta!) e la sera dopo salimmo a bordo del Super Chief, sul quale la puntata seguente della nostra serie di scompartimenti-letto ci accolse con una doppia esplosione di musica, laonde ci precipitammo frenetici a bloccare, soffocare, eliminare, annientare l’odioso ordigno e, non trovandone l’interruttore, fummo costretti a invocare aiuto (beninteso, la situazione è di gran lunga peggiore sui treni sovietici, dove vige il divieto assoluto di spegnere la muzakovitch).
    Il 1° marzo, io e Kubrick, negli stabilimenti di Universal City, nel corso di un’amabile tenzone di suggerimenti e controsuggerimenti, discutemmo su come cinematizzare il romanzo. Lui accettò tutti i miei punti d’importanza vitale, io accettai, dei suoi, i meno significativi. La mattina dopo, seduto su una panchina sotto un Pyrospodia di un bel color giallo-verde acceso, in un giardino pubblico non lontano dal Beverly Hills Hotel (dove Irving Lazar aveva preso un cottage per noi) mi ero già messo d’impegno a elaborare le battute e le azioni che mi giravano per la testa. Il 9 marzo, Kubrick ci presentò Tuesday Weld (una leggiadra attrice giovane, ma non il mio ideale di Lolita). Il 10 marzo affittammo dal defunto John Francis Fay una gradevole villa (2088 Mandeville Canyon Road). L’11 marzo, Kubrick mi inviò per corriere un sommario profilo delle scene su cui io e lui ci eravamo accordati: comprendevano la Prima Parte del romanzo. A quel punto il comportamento di Kubrick mi aveva fatto capire che egli era più ben disposto verso i miei capricci che non verso quelli della censura.
    Nei mesi seguenti i nostri incontri furono piuttosto rari – più o meno uno ogni due settimane, da me o da lui; i profili cessarono del tutto, critiche e consigli si fecero sempre più succinti, e per la metà dell’estate non ero più sicuro se Kubrick stesse serenamente accettando qualunque cosa io facessi o silenziosamente bocciando il tutto.
    Lavoravo con gusto, componendo mentalmente ogni mattina dalle otto a mezzogiorno mentre andavo a caccia di farfalle per colline afose, che, a parte qualche esemplare particolarmente irrequieto di una rara Ninfa di Bosco, non elargivano alcunché di interessante, ma brulicavano per contro di serpenti a sonagli, le cui isteriche esibizioni tra la sterpaglia o nel mezzo di un sentiero facevano un effetto più comico che allarmante. Dopo una tranquilla colazione, approntata dalla cuoca tedesca in dotazione alla casa, passavo un altro periodo di quattro ore su una sedia a sdraio, tra rose e mimi, armato di schede a righe e matita Blackwing, a copiare e ricopiare, cancellare e riscrivere le scene immaginate durante il mattino.
    Di natura, non sono autore drammatico; e neanche uno sceneggiatore praticone; ma se mi fossi dato al palcoscenico o allo schermo tanto quanto mi sono dato al genere di scrittura che sconta il suo trionfale ergastolo dentro la copertina di un libro, avrei propugnato e messo in opera un regime di totale tirannia, dirigendo io stesso il film o la commedia, scegliendo scenografia e costumi, terrorizzando gli attori, confondendomi tra loro in ruoli secondari di ospite o di spettro, suggerendo loro la parte: in una parola, permeando l’intero spettacolo del volere e dell’arte di un individuo unico – poiché non c’è niente al mondo che mi sia più odioso dell’attività di gruppo, quel bagno collettivo dove villosi e viscidi fraternizzano, in un moltiplicarsi di mediocrità. Tutto ciò che potevo permettermi, nel caso, era di stabilire il primato delle parole sull’azione, limitando così al massimo le interferenze della committenza e del cast. Perseverai nell’assunto, fino a rendermi tollerabile il ritmo dei dialoghi e a controllare il flusso del film da motel a motel, da miraggio a miraggio, da incubo a incubo. Già molto prima, a Lugano, avevo abbozzato la sequenza dell’Albergo dei Cacciatori Incantati, ma ora il meccanismo preciso atto a rendere, attraverso un gioco trasparente di effetti sonori e di inquadrature particolari, sia una mattinata come tante altre, sia un momento cruciale della vita di un pervertito disperato e di una misera bimba, si rivelava oltremodo difficile da regolare. Poche scene qua e là (per esempio la casa fantasma di McCoo, le tre ninfe sul bordo della piscina, o Diana Fowler quando rimette in moto il ciclo fatale che era già stato di Charlotte Haze) sono basate su materiale inedito che avevo conservato dopo aver distrutto il manoscritto del mio romanzo: operazione, questa, di cui mi pento meno che del fatto di aver eliminato quei brani.
    Alla fine di giugno, dopo aver esaurito più di mille schede, ne feci fare un dattiloscritto e inviai a Kubrick le quattrocento pagine che ne erano risultate; quindi, bisognoso di riposo, fui portato da mia moglie, in un’Impala a noleggio, nella contea di Inyo, per un breve soggiorno al Glacier Lodge, sul Big Pine Creek, dove, nelle montagne circostanti, catturammo Inyo Blu e altre creaturine. Tornati a Mandeville Canyon, ricevemmo una visita di Kubrick, il quale mi disse che la sceneggiatura era di gran lunga troppo macchinosa, che conteneva troppi episodi superflui, e che ci sarebbe voluto un film di sette ore. Mi richiedeva alcuni tagli e altri cambiamenti, che in effetti apportai, oltre a escogitare nuove sequenze e situazioni, preparando un copione più breve che gli pervenne in settembre e che lui definì buono. L’ultimo tratto di questo percorso durato sei mesi fu il più impervio, ma anche il più entusiasmante. Dieci anni dopo, però, ho riletto la mia sceneggiatura e ho reinserito alcune scene.
    L’ultimo incontro con Kubrick deve essere avvenuto il 25 settembre 1960, nella sua casa di Beverly Hills: quel giorno mi mostrò alcune foto di Sue Lyon, pudibonda ninfetta sui quattordici, che a detta di Kubrick poteva essere facilmente resa più giovane e sciatta nel ruolo di Lolita per il quale era già stata scritturata. Nell’insieme, mi sentivo abbastanza contento di come erano andate le cose, quando nel pomeriggio del 12 ottobre io e mia moglie salimmo sul Super Chief (scompartimenti letto E-F, carrozza 181) per Chicago, dove cambiammo per il Twentieth Century (scompartimenti letto J-K, carrozza 261), raggiungendo New York alle 8.30 del 15 ottobre. Nel corso di quel meraviglioso viaggio – l’annotazione seguente può emozionare solo gli extrasensorialisti più accaniti – feci un sogno (13 ottobre) in cui vidi scritto: “Hanno detto alla radio che lei è spontanea come Sarah Footer.” Non ho mai conosciuto nessuno che si chiamasse così.
    Il compiacimento è uno stato d’animo che è autentico solo se visto in retrospettiva: lo si deve infrangere prima di poterlo constatare. Il mio avrebbe resistito un anno e mezzo. Fin già dal 28 ottobre (New York, Hampshire House, stanza 503) trovo nel mio libriccino, annotato a matita, il seguente progetto: “Un romanzo, una vita, un amore – solo il minuzioso commento a un breve poemetto che si dipana man mano.” Appena la Queen Elizabeth (“Comprare filo interdentale, nuovo pince-nez, Bonamina, controllare con direttore bagagliaio baulone nero su molo prima dell’imbarco, ponte A, cabina 71”) ci depositò a Cherbourg il 7 novembre, il “breve poemetto” cominciò a diventare piuttosto lungo. Quattro giorni dopo, al Principe e Savoia di Milano, e poi per tutto il resto dell’inverno, in un appartamento affittato a Nizza (57 Promenade des Anglais) e quindi nel Ticino, nel Valais e nel Vaud (10 ottobre 1961, trasferiti al Montreux Palace) rimasi immerso in Fuoco pallido che completai il 4 dicembre 1961. La lepidotterologia, il lavoro sulle bozze di quel mammut del mio Evgenij Onegin, e la revisione di una traduzione difficile (Il dono) si presero la primavera del 1962, passata per lo più a Montreux, cosicché (a parte il fatto che nessuno insisteva a ciò che io andassi a Elstree) le riprese del film di Lolita, in Inghilterra, iniziarono e si conclusero ben oltre il velo delle mie vanità.
    Il 31 maggio 1962 (quasi ventidue anni dopo che eravamo emigrati da St. Nazaire, a bordo dello Champlain), la Queen Elizabeth ci portò a New York per la prima di Lolita. La nostra cabina (ponte principale, cabina 95) era altrettanto comoda che quella dello Champlain nel 1940, e inoltre, a un cocktail-party offerto dal commissario di bordo (o dal chirurgo di bordo, i miei scarabocchi sono illeggibili), questi mi apostrofò dicendomi: “Ora lei, da uomo d’affari americano, troverà questa storia molto divertente” (storia non riportata). Il 6 giugno rivisitai quel luogo consueto, il dipartimento di entomologia del Museo Americano di Storia Naturale, dove depositai gli esemplari di Callophrys avis di Chapman che avevo catturato in aprile tra Nizza e Grasse, sotto i corbezzoli. La prima ebbe luogo il 13 giugno (Loew’s State, Broadway e Quarantacinquesima, E 2 + 4 platea, “posti orribili” dice senza peli sulla lingua la mia agenda). La folla dava la posta alle limousine che approdavano una a una, e dentro una di quelle c’ero anch’io, entusiasta e innocente come i fans che ne sbirciavano l’interno sperando di intravedere James Mason ma trovandoci solo il placido profilo di una controfigura di Hitchcock. Qualche giorno prima, a una proiezione privata, avevo scoperto che Kubrick era un grande regista, che Lolita era un film di prima qualità con attori magnifici, e che della mia sceneggiatura erano stati usati solo brandelli sparsi. Le modifiche, il travisamento delle mie trovate migliori, l’omissione di intere scene, l’aggiunta di altre, e ogni genere di cambiamenti ulteriori, non erano forse sufficienti a far cancellare il mio nome dai titoli di testa ma di certo rendevano il film tanto infedele alla sceneggiatura originale quanto lo sono certe traduzioni di Rimbaud e Pasternak fatte da un poeta americano.
    Mi affretto ad aggiungere che queste ultime osservazioni non vanno assolutamente interpretate quale riflesso di un tardivo rancore, di uno stridulo biasimo nei confronti dell’approccio creativo di Kubrick. Nel travasare Lolita su schermo sonoro, lui vedeva il mio romanzo in un modo, io in un altro: tutto qui, né si può negare che un’assoluta fedeltà può anche essere l’ideale per un autore, ma per il produttore può risultare rovinosa.
    La mia prima reazione al film fu un misto di irritazione, rammarico, e restio godimento. Più d’un’intrusione (quale la macabra sequenza del ping-pong o l’estatica sorsata di scotch nella vasca da bagno) mi parve azzeccata e spiritosa. Penose, però, altre (quali il crollo della brandina pieghevole o i fronzoli dell’arzigogolata camicia da notte della signorina Lyon). Le sequenze, per lo più, non erano certo migliori di quelle da me pensate con tanta cura per Kubrick, e mi pentii amaramente del tempo perso, pur ammirando la saldezza di Kubrick, nel sopportare per sei mesi l’evoluzione e la somministrazione di un prodotto inutile.
    Ma mi sbagliavo. Rammarico e irritazione si placarono presto al ricordo dell’ispirazione tra le colline, la sedia a sdraio sotto la jacaranda, la spinta interiore, la luce, senza le quali non avrei portato a termine il compito. Mi dissi che dopotutto nulla era andato perso, che la mia sceneggiatura restava intatta nella sua custodia e che un giorno l’avrei potuta pubblicare: non come meschina confutazione di un film dovizioso ma semplicemente come vivace variante di un vecchio romanzo.
    Montreux
    Dicembre 1973


    mercoledì 28 agosto 2019

    Nabokov / A proposito di un libro intitolato Lolita

      Vladimir Nabokov
      Vladimir Nabokov

      A PROPOSITO DI UN LIBRO INTITOLATO LOLITA

      di Vladimir Nabokov
      Dopo che ho incarnato il soave John Ray, il personaggio di Lolita che stende la Prefazione, ogni commento diretto da parte mia potrà sembrare a qualcuno – e a me stesso, per la verità – un’incarnazione di Vladimir Nabokov che parla del proprio libro. Vanno discussi tuttavia alcuni punti; e il metodo autobiografico potrebbe indurre il mimo e il suo modello a fondersi nella mente del lettore.
      Gli insegnanti di letteratura sono inclini a escogitare problemi come «Qual è l’intento dell’autore?», o, ancora peggio, «Che cosa sta cercando di dire questo tizio?». Ora, si dà il caso che io sia il tipo di autore che, quando comincia a lavorare a un libro, non ha altro intento se non quello di liberarsi del libro medesimo, e che, se qualcuno gli chiede di spiegarne l’origine e l’evoluzione, deve ricorrere a termini vetusti come l’Interreazione di Ispirazione e Combinazione – il che, lo riconosco, ricorda un prestigiatore che spieghi un trucco con un altro trucco.
      Il primo, piccolo palpito di Lolita mi percorse alla fine del 1939 o all’inizio del 1940, a Parigi, in un periodo in cui ero costretto a letto da un violento attacco di nevralgia intercostale. A quanto ricordo, l’iniziale brivido di ispirazione fu in qualche modo provocato da un articolo di giornale su una scimmia del Jardin des Plantes, la quale, dopo mesi di blandizie da parte di uno scienziato, aveva fatto il primo disegno a carboncino dovuto a un animale: il bozzetto rappresentava le sbarre della gabbia della povera creatura. L’impulso che qui registro non aveva alcun nesso testuale con le successive concatenazioni di pensieri, i quali sfociarono, tuttavia, in un prototipo di questo mio romanzo, un racconto di una trentina di pagine. Lo scrissi in russo, la lingua nella quale scrivevo romanzi sin dal 1924 (i migliori fra questi non sono tradotti in inglese, e in Russia sono tutti all’indice per ragioni politiche). L’uomo veniva dall’Europa centrale, l’anonima ninfetta era francese, e i luoghi erano Parigi e la Provenza. Feci sposare al protagonista la madre malata della bambina, che presto morì, e Arthur (tale era il suo nome), dopo un tentativo fallito di approfittare dell’orfana in una stanza d’albergo, si buttava sotto le ruote di un camion. Lessi il racconto, in una notte di coprifuoco foderata di carta azzurra, a un gruppo d’amici Mark Aldanov, due socialisti rivoluzionari e una dottoressa; ma non mi piaceva, e lo distrussi dopo essermi trasferito in America nel 1940.
      Verso il 1949, a Ithaca, nel nord dello Stato di New York, il palpito, che non era mai cessato del tutto, cominciò di nuovo a tormentarmi. La combinazione si coniugò all’ispirazione con rinnovato ardore, e mi coinvolse in un nuovo sviluppo di quel tema, stavolta in inglese – la lingua della mia prima governante di San Pietroburgo, intorno al 1903, la signorina Rachel Home. La ninfetta, che ora aveva sangue irlandese nelle vene, era più o meno la stessa ragazzina, e permaneva anche l’idea di fondo del matrimonio con sua madre; ma per il resto era una cosa nuova, a cui erano cresciuti in segreto gli artigli e le ali di un romanzo. Il libro si sviluppò lentamente, con molte interruzioni e digressioni. Mi ci erano voluti circa quarant’anni per inventare la Russia e l’Europa occidentale, e ora dovevo affrontare il compito di inventare l’America. Procurarmi gli ingredienti locali che mi avrebbero consentito di instillare una modica dose di media «realtà» (una delle poche parole che non hanno alcun senso senza virgolette) nel calderone della fantasia individuale si rivelò, a cinquant’anni, un procedimento molto più difficile che nell’Europa della mia giovinezza, quando ricettività e capacità di ritenere erano al loro automatico culmine. Sopraggiunsero altri libri. Un paio di volte fui sul punto di bruciare la stesura incompiuta, e avevo condotto la mia Juanita Dark fino all’ombra dell’inceneritore inclinato sul prato innocente, quando mi arrestò il pensiero che il fantasma del libro distrutto avrebbe ossessionato i miei schedari per il resto della mia vita.
      Ogni estate mia moglie e io andiamo a caccia di farfalle. Gli esemplari sono depositati presso istituzioni scientifiche, come il Museo di Zoologia Comparata di Harvard o la collezione della Cornell University. Le etichette affisse sotto queste farfalle, recanti il luogo della cattura, saranno una manna per qualche studioso del Duemila con il gusto della biografia recondita. E in alcuni dei nostri quartier generali come Telluride, Colorado; Afton, Wyoming; Portal, Arizona; e Ashland, Oregon, che Lolita fu energicamente ripreso, di sera o nei giorni di pioggia. Finii di ricopiarlo a mano nella primavera del 1954, e subito mi misi in cerca di un editore.
      Inizialmente, su consiglio di un cauto vecchio amico, concordai docilmente che il libro sarebbe stato pubblicato anonimo. Poco dopo, rendendomi conto che una maschera avrebbe probabilmente tradito la mia causa, decisi di firmare Lolita – e dubito che avrò mai occasione di pentirmene. I quattro editori americani, W, X, Y e Z, ai quali proposi a turno il dattiloscritto e che lo fecero annusare ai loro lettori, rimasero scandalizzati da Lolita a un punto che persino il mio cauto vecchio amico F.P. non si attendeva.
      Se è vero che nell’Europa di un tempo, e per buona parte del Settecento (esempi lampanti vengono dalla Francia), la deliberata licenziosità non era incompatibile con sprazzi di commedia, o con una satira vigorosa, o addirittura con la verve di un raffinato poeta in vena di salacità, è anche vero che ai nostri giorni il termine «pornografia» suggerisce subito l’idea della mediocrità, del lucro e di certe ferree regole narrative. L’oscenità deve accoppiarsi con la banalità, perché qualsiasi genere di godimento estetico dev’essere interamente sostituito dal semplice stimolo sessuale, il quale, per avere un’immediata efficacia sul paziente, esige la terminologia tradizionale. Per far sì che il suo paziente abbia le stesse garanzie di soddisfazione, il pornografo deve conformarsi a regole vecchie e rigide, proprio come nel caso, per esempio, degli appassionati di romanzi polizieschi – storie in cui, se non si sta attenti, può saltar fuori, con grande disappunto del lettore, che il vero assassino è l’originalità artistica (chi vorrebbe, per esempio, un poliziesco senza un solo dialogo?). Così, nei romanzi pornografici, l’azione deve limitarsi alla copula dei cliché. Lo stile, la struttura, le immagini non dovrebbero mai distrarre il lettore dalla sua tiepida lussuria. Il romanzo deve consistere in un’alternanza di scene sessuali. I passaggi tra l’una e l’altra devono ridursi a suture di significato, ponti logici dal disegno elementare, brevi esposizioni e spiegazioni che il lettore probabilmente salterà ma deve sapere che esistono per non sentirsi defraudato (un atteggiamento mentale che deriva dalla routine delle fiabe «veritiere» dell’infanzia). Inoltre, nel libro dev’esserci un crescendo di scene di sesso, con nuove varianti, nuove combinazioni, nuovi sessi, e un costante incremento nel numero dei partecipanti (in una commedia di Sade viene convocato il giardiniere), e quindi la fine del libro deve essere più colma di ars libidinosa che non i primi capitoli. Certe tecniche all’inizio di Lolita (il diario di Humbert, per esempio) hanno indotto alcuni dei miei primi lettori a credere che si trattasse di un libro licenzioso. Si aspettavano il crescendo di scene erotiche; quando quelle si interruppero, loro interruppero la lettura, sentendosi annoiati e traditi. Questa, sospetto, è una delle ragioni per cui non tutti i quattro editori hanno letto il dattiloscritto sino alla fine. Il fatto che l’avessero trovato più o meno pornografico non mi interessava. Il loro rifiuto di comprare il libro era motivato non dal mio modo di affrontare il tema, ma dal tema stesso: per quanto riguarda la maggior parte degli editori americani, infatti, ci sono almeno tre temi assolutamente tabù. Gli altri due sono: il matrimonio tra un negro e una bianca, o viceversa, che sia magnificamente riuscito e culmini in tanti figli e nipotini; e l’ateo impenitente che viva una vita felice e utile, e muoia nel sonno all’età di 106 anni.
      Certe reazioni furono molto divertenti: un lettore disse che forse la sua casa editrice avrebbe preso in considerazione la pubblicazione del libro se avessi trasformato la mia Lolita in un ragazzino di dodici anni poi sedotto da Humbert, un agricoltore, in un granaio, il tutto ambientato in un paesaggio brullo e desolato ed espresso con frasi brevi, forti, «realistiche» («Quello dà fuori di matto. Come tutti quanti, sai. Anche Dio dà fuori di matto». Ecc.). Anche se dovrebbe esser noto a tutti che io detesto i simboli e le allegorie (cosa dovuta in parte alla mia annosa faida col vudù freudiano, e in parte all’odio che nutro per le generalizzazioni escogitate da mitologi e sociologi letterari), un lettore altrimenti intelligente, dopo aver sfogliato la prima parte, descrisse Lolita come «la vecchia Europa che travia la giovane America», mentre un altro sfogliatore ci vide «la giovane America che travia la vecchia Europa». L’editore X, i cui consiglieri trovarono Humbert così noioso che non superarono mai la pagina 188, ebbe l’ingenuità di scrivermi che la seconda parte era troppo lunga. L’editore Y, d’altro canto, espresse il rammarico che nel libro non ci fossero persone buone. L’editore Z disse che se avesse pubblicato Lolita saremmo finiti entrambi in galera.
      Nessuno scrittore, in un paese libero, dovrebbe esser costretto a preoccuparsi dell’esatta linea di demarcazione tra il sensuale e l’erotico; è una cosa assurda; io posso solo ammirare, ma non emulare, l’occhio di chi mette in posa le belle, giovani mammifere che compaiono sulle riviste, scollate quanto basta per far contento l’intenditore, e accollate quanto basta per non scontentare il censore. Immagino che certi lettori trovino eccitante lo sfoggio di frasi murali dei romanzi irrimediabilmente banali ed enormi, battuti con due dita da persone tese e mediocri, e definiti dai pennivendoli «vigorosi» e «incisivi». Ci sono anime miti che giudicherebbero Lolita insignificante perché non insegna loro nulla. Io non sono né un lettore né uno scrittore di narrativa didattica, e, a dispetto delle affermazioni di John Ray, Lolita non si porta dietro nessuna morale. Per me un’opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estetica, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri stati dell’essere dove l’arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma. Non ce ne sono molti, di libri così. Gli altri sono pattume d’attualità o ciò che alcuni chiamano la Letteratura delle Idee, la quale consta molto spesso di scempiaggini di circostanza che vengono amorosamente trasmesse di epoca in epoca in grandi blocchi di gesso finché qualcuno non dà una bella martellata a Balzac, a Gorkij, a Mann.
      Un’altra accusa da parte di qualche lettore è che Lolita è antiamericano. Questo mi addolora molto più dell’idiota accusa di immoralità. Certe considerazioni di profondità e prospettiva (un prato nei sobborghi residenziali, un campo di montagna) mi hanno indotto a costruire un certo numero di scenari nordamericani. Mi serviva un particolare milieu stimolante, e nulla è più stimolante della volgarità filistea. Ma a proposito di volgarità filistea, non c’è differenza intrinseca tra i costumi paleartici e quelli neartici. Qualsiasi proletario di Chicago può essere borghese (nel senso flaubertiano) quanto un duca. Ho scelto i motel americani invece degli alberghi svizzeri o delle locande inglesi solo perché sto cercando di essere uno scrittore americano, e rivendico solo i diritti di cui godono gli altri scrittori americani. D’altro canto il mio Humbert è straniero e anarchico, e in molte cose, oltre alle ninfette, mi trovo in disaccordo con lui. E tutti i miei lettori russi sanno che i miei vecchi mondi – russo, inglese, tedesco, francese – sono fantastici e personali quanto quello nuovo. Per evitare che questo mio breve commento possa apparire come un pubblico sfogo di rancore, devo affrettarmi ad aggiungere che oltre alle anime candide che hanno letto il dattiloscritto di Lolita o l’edizione della Olympia Press nello spirito del «Perché doveva scrivere una cosa così?» o «Perché devo leggere la storia di un maniaco?», ci sono state parecchie persone sagge, sensibili e impavide che hanno capito il mio libro molto meglio di quanto io possa qui spiegarne il meccanismo.
      Ogni scrittore serio, a mio parere, sente questo o quel suo libro pubblicato come una presenza assidua e confortante. La spia luminosa di quel libro brilla senza interruzione in cantina, e basta sfiorare il proprio termostato privato per scatenare istantaneamente una piccola, silenziosa esplosione di familiare tepore. Questa presenza, questo bagliore del libro in una lontananza sempre accessibile è di grande compagnia, e quanto più il libro si è conformato alla sagoma e al colore prefigurati, tanto più ampia e costante ne è la luce. Ma anche così ci sono certi punti, certi percorsi secondari, certi anfratti favoriti che l’autore evoca con più entusiasmo e assapora con più tenerezza di quanto non faccia con le altre parti del suo libro. Non ho più riletto Lolita da quando ne ho corretto le bozze nella primavera del 1955, ma adesso che aleggia silenzioso per la casa, come un giorno d’estate che si intuisca radioso dietro la foschia, lo trovo una presenza deliziosa. E quando penso a Lolita in questo modo mi capita sempre di scegliere, per il mio speciale diletto, immagini come quella del signor Taxovich, o l’elenco di nomi della scuola di Ramsdale, o Charlotte che dice «waterproof», o Lolita che avanza al rallentatore verso i doni di Humbert, o le fotografie che adornano la mansarda stilizzata di Gaston Godin, o il barbiere di Kasbeam (che mi è costato un mese di lavoro), o Lolita che gioca a tennis, o l’ospedale di Elphinstone, o la pallida, gravida, adorata, irrecuperabile Dolly Schiller che muore a Gray Star (la capitale del libro), o i suoni argentini della cittadina che dalla valle salgono su per il sentiero di montagna (lungo il quale catturai il primo esemplare conosciuto di femmina di Lycaeides sublivens Nabokov). Questi sono i nervi del romanzo. Questi sono i punti segreti, le coordinate subliminali su cui si è orientata la trama del libro, anche se mi rendo conto molto chiaramente del fatto che chi comincia a leggere Lolita immaginandosi un libro sul modello di Memorie di una donna di piacere o di Les Amours de Milord Grosvit scorrerà appena queste e altre scene, o non le noterà affatto, o neppure ci arriverà. Che il mio romanzo contenga varie allusioni agli impulsi fisiologici di un pervertito è verissimo. Ma dopotutto non siamo bambini, non siamo delinquenti minorili analfabeti, né collegiali inglesi che dopo una notte di baldorie omosessuali devono subire il paradosso di leggere i classici in edizione espurgata.
      È infantile studiare un’opera di narrativa per trarne informazioni su un paese o su una classe sociale o sull’autore. Eppure uno dei miei pochissimi amici intimi, dopo aver letto Lolita, si preoccupò sinceramente che io (io!) dovessi vivere tra «gente così deprimente» – quando l’unico disagio che avevo davvero provato era quello di vivere nel mio atelier tra membra scartate e busti incompiuti.
      Dopo che l’Olympia Press pubblicò il libro a Parigi, un critico americano avanzò l’ipotesi che Lolita fosse il resoconto della mia storia d’amore con la letteratura romantica. Questa elegante formula diverrebbe più esatta se si sostituissero a «letteratura romantica» le parole «lingua inglese». Ma ora sento che la mia voce sta raggiungendo toni veramente troppo striduli. Nessuno dei miei amici americani ha letto i miei libri russi, e così ogni elogio basato su quelli inglesi non può che essere sfocato. La mia tragedia privata, che non può e non deve riguardare nessun altro, è che ho dovuto abbandonare il mio idioma naturale, la mia lingua russa così ricca, così libera, così infinitamente docile, per una marca di inglese di seconda qualità, priva di tutti quegli apparati – lo specchio ingannatore, il fondale di velluto nero, le tacite associazioni e tradizioni – che l’illusionista indigeno, con le code del frac svolazzanti, può magicamente usare per trascendere a suo modo il retaggio dei padri.
      12 novembre 1956