Henri Charrière

Il bel volo di PAPILLON da Mauriac a Polanski

di Ugo Ronfani
Papillon: una farfalla che vola alto, come un’aquila. Il lungo romanzo autobiografico (500 pagine) dell’ex-ergastolano Henri Charrière sta battendo il record assoluto dei best-sellers. Il traguardo del milione di copie non è lontano. L’editore francese, Laffont, può dire senza ironia che è il libro più venduto dopo la Bibbia. Sono state fatte o sono in corso traduzioni in inglese, tedesco, spagnolo, italiano. Con Papillon l’intellighentia francese (a cominciare da Jean-François Revel, autore del commento che chiude il libro) è tornata ad abbeverarsi avidamente alle torbide fonti della letteratura canaille. François Mauriac dichiara sul «Figaro Littéraire»: «Ce nouveau confrère est un maître». Poiché bisogna pensare anche al vulgo, ecco un Papillon a fumetti, realizzato dall’esperta matita di Popineau, sulle colonne di «France Soir», il più diffuso quotidiano parigino del pomeriggio. Naturalmente il cinema non è mancato all’appuntamento, e ha fatto le cose in grande. Contratto firmato proprio in questi giorni; i diritti della versione cinematografica sono stati acquistati per la bazzecola di 550.000 dollari, la metà dei quali andrà al Charrière. Sarà Roman Polanski, nientemeno, a raccontare sullo schermo le avventurose evasioni di Papillon dall’inferno della Guyana: Polanski che così, dopo i sabba di Rosemary’s Baby, torna al mondo violento e crudele di Cul-de-sac, con in più le ossessioni di un’orribile storia «vissuta», quella della strage di Los Angeles. La parte dell’ergastolano toccherà a Warren Beatty, l’eroe nero di Bonnie and Clyde.* (Più adatto a volgere in immagini l’avventurosa storia di Charrière sarebbe stato, secondo alcuni, Sergio Leone, ma il regista dei western all’italiana s’è lasciato sfuggire la grande occasione).
La Francia «bene» non ha complessi; mentre condannava al ludibrio e spingeva al suicidio Gabrielle Russier, la piccola professoressa di Marsiglia colpevole di essersi innamorata di un allieva, decretava la gloria letteraria a Papillon, pronta a indignarsi quando c’è stato il pericolo che la polizia espellesse dalla Francia il Charrière, venuto con la moglie da Caracas – dov’è diventato un albergatore distinto – per intascare i milioni del libro, ma rimasto, purtroppo, per gli schedari del Quai des Orphèvres, un ergastolano evaso. Alla fine, inchinandosi al verdetto popolare, la polizia ha chiuso non uno ma due occhi e «Farfalla» ha potuto svolazzare impunemente attraverso tutta la Francia, firmare autografi e cenare da Maxim’s, tenere conferenze sulla riabilitazione dei truands e farsi fotografare al braccio di Brigitte Bardot. Un’istantanea scattata in un centro turistico della Savoia lo ha mostrato perfino al fianco dell’ex-prefetto di polizia di Parigi, Maurice Papon: per «Papillon» — che nel ’31 era stato condannato (innocentemente, egli afferma) al bagno penale per l’uccisione di un prosseneta – la riabilitazione, la consacrazione, la gloria. Siamo al punto in cui «Papillon» fa scuola, in cui il suo esempio ispira i truands in vena di riconversione letteraria: non ha dichiarato subito dopo la scarcerazione Louis Fillot, uno degli imputati del processo ai capimafia marsigliesi Guerini, che contava di scrivere, come il Charrière, la propria storia di uomo del milieu? Il che è anche logico, se si vuole, visto che ad Henri Charrière — come ha confidato in una delle sue numerose interviste — l’idea di raccontare le proprie avventure di bagnard è venuta dopo avere letto, nel suo albergo a Caracas, L’Astragale della povera Albertine Sarrazin. «Se ’sta figliola – si è detto — con la sua storia di un osso spezzato è riuscita a vendere 120 mila copie del libro, con tutte le mie evasioni, le coltellate date e ricevute, i mesi in cella di punizione, i soggiorni fra i lebbrosi e gli indiani io dovrei venderne un milione». Previsione quasi realizzata. Anche perché «Papillon» ha avuto l’ottima idea di spedire il manoscritto (dei quaderni di scuola riempiti in bella calligrafia) proprio a Jean-Pierre Castelneau, un «negro» dell’edizione specializzatosi nella letteratura canaille, lo stesso che al tempo in cui lavorava per Pauvert aveva scoperto Albertine Sarrazin.
Il nuovo «lancio» di Castelneau – come s’è visto – è riuscito. Niente da dire, sul piano della letteratura commerciale la ricetta è perfetta. È la stessa, in fondo, che più di un secolo fa aveva assicurato il successo dei Misteri di Parigi di Sue, il quale – come ha scritto Jean Fréville – «aveva capito che il lettore colto ed educato predilige, forse per compensazione, le storie dei bassifondi, e il pubblico dei quartieri alti va in visibilio per le orrende avventure di personaggi mostruosi». E difatti in Papillon c’è molto dei Misteri di Parigi e parecchio del Conte di Montecristo, con in più l’esotismo di Pierre Loti, senza dimenticare il «verismo lirico» di Steinbeck, il «romanticismo virile» di Hemingway e, naturalmente, un po’ di erotismo alla moda, il tutto in uno stile «parlato» pimentato con espressioni dell’argot della malavita. L’insieme fa «vita vissuta», anche se sulla veridicità di certi momenti del racconto sono leciti dubbi, e in più punti cogli «Papillon» intento a barare fra memoria e immaginazione. Del resto, siamo giusti: che cosa si vorrebbe di più da questo self-made man della letteratura? Gli ingredienti sono piccanti (ci sono perfino degli ergastolani cannibali) e il prodotto, smerigliato nell’officina Castelneau, è ben confezionato. Il racconto procede svelto, le descrizioni sono nette e vivaci. Il lettore può essere incredulo ma non s’annoia mai. L’eroe della storia — se possiamo chiamarlo così – non si perde in geremiadi e lamentazioni; è un uomo energicamente ottimista, che «ha fame della vita», anche quando giace malato in fondo a una cella di punizione dell’inferno della Guyana. È questo feroce, indomabile, straordinario furore di vivere (libero) che fa la forza del personaggio, e del libro. E poi «Papillon», questo diavolo d’uomo che aveva cominciato la sua carriera come scassinatore di casseforti, sa trovare perfino gli accenti del moralista. «Un condannato – scrive – è come un bambino, impara a obbedire. Ma al bambino punito si fa ritrovare la fiducia con una buona parola. Il condannato si chiuderà per sempre su se stesso se nessuno gli ridarà la dignità perduta, se nessuno gli dirà: “Nonostante tutto, sei rimasto un uomo”». Polanski potrebbe forse cominciare il suo film con queste parole.
* Roman Polanski fu uno dei primi registi interessati a portare sul grande schermo la storia di Charrière, e Warren Beatty avrebbe dovuto interpretarne il ruolo del protagonista. Quel primo progetto fu abortito per mancanza di finanziamenti e per il disinteresse di Beatty ma il film fu successivamente diretto da Franklin J. Schaffner e la parte di Charrière affidata a Steve McQueen.
Fonte: Il Dramma, Anno 46, Numero 2 – Febbraio 1970, p. 118