sabato 20 luglio 2019

Andrea Camilleri e l’incubo della burocrazia

Andrea Camilleri

Andrea Camilleri e l’incubo della burocrazia


di Pino Fondati
2 febbraio 2007


Più di una volta, Andrea Camilleri ha dichiarato che, delle sue opere, preferisce ai gialli i romanzi storici (ma lui li chiama “civili”, perché solo lo spunto è storico, il resto è “rigorosamente falso”), in particolare Il birraio di Preston e La concessione del telefono. Guarda caso, i due unici suoi testi portati (per il momento) in teatro, per una vita grande passione di Camilleri: il birraio qualche anno fa, la concessione ha debuttato l’altro ieri a Roma dopo venti repliche “di rodaggio” a Catania, sempre prodotto dallo Stabile di Catania, e sempre per la regia di Giuseppe Di Pasquale, che con Camilleri ha costruito un sodalizio artistico ormai consolidato. La concessione del telefono è una commedia degli equivoci e degli imbrogli ambientata in Sicilia, a Vigata, il paese immaginario che fa da sfondo ai racconti di Camilleri. La storia, datata 1891, nasce da un equivoco, che ridicolmente fa da motore a tutta la storia: lo scambio tra due lettere dell'alfabeto, la M e la P. Il protagonista, Filippo Genuardi, per ottenere la concessione di una linea telefonica per uso privato, fa domanda formale al prefetto di Montelusa, denominandolo Vittorio Parascianno anziché Marascianno come in realtà il prefetto si chiama. Da qui nasce una storia complessa, in cui equivoci e imbrogli non si contano più e che coinvolge una folla di personaggi: il Genuardi, siciliano qualsiasi, e la sua famiglia; i vari apparati dello Stato, ovvero prefettura, questura, pubblica sicurezza e benemerita arma dei reali carabinieri; il mafioso del paese; la chiesa; quei compaesani, siciliani qualsiasi, che involontariamente capitano sulla strada di Pippo Genuardi. Il tutto scritto nella “sicilitudine linguistica” propria di Camilleri, fatta di neologismi, di sintassi travestita, di modi dialettali. Il romanzo è stato adattato per la scena da Camilleri e Dipasquale; nell’intervista che segue spiegano come.

Camilleri, lei ha dedicato molta della sua vita al teatro, ha insegnato all’Accademia d’Arte Drammatica (dove ha avuto come allievo un giovane Luca Zingaretti, che sarebbe poi diventato il Montalbano televisivo), è stato sceneggiatore, suo è stato il primo Beckett rappresentato in Italia. Quando scrive un romanzo, le viene naturale pensare a una struttura teatrale?

Camilleri: È così; e aggiungo, per forza. Dal cinema, ho imparato la narrazione per sequenze, e non per capitoli; dal teatro, il dialogo e la creazione dei personaggi. Quando nel racconto devo inserire un personaggio, il più delle volte scrivo prima il dialogo. Solo in seguito lo descrivo (è alto o basso, è biondo o bruno,..) ma tutto è conseguenza del modo in cui lo faccio parlare ed esprimere. Procedo dall’interno del personaggio verso l’esterno; non c’è alcun dubbio che questo sia un tipo di scrittura teatrale.

Nei suoi scritti, l’italiano si mischia con il siciliano, ma non solo. Ne Il birraio di Preston ci sono altri dialetti italici, nel Re di Girgenti c’è la commistione con lo spagnolo. Il tutto non è mai casuale.. 

Camilleri: Diceva Pirandello che, di una data cosa, il dialetto esprime il sentimento, la lingua il concetto. 

La concessione del telefono è anche un manifesto contro la burocrazia che non cambia.. 

Camilleri: La burocrazia vive proprio per non essere risolta. L’idea del romanzo nasce nel 1995, quando trovai un decreto ministeriale di fine Ottocento di una linea telefonica privata. Per avere la licenza occorreva adempiere a una tale quantità di assurdi obblighi burocratici, che mi è venuta subito la voglia di scrivere una storia. Il richiedente resta stritolato dal meccanismo burocratico, dal quale cerca di uscire in qualche modo, coinvolgendo mafia, chiesa, autorità costituite. 

Come è proceduto il lavoro di adattamento del testo? Ci sono state difficoltà? Parlando di forme di scrittura del romanzo, lei, Camilleri, distingue in “cose scritte” e “cose dette”, come avviene ne La concessione del telefono. A teatro queste “cose” che fine fanno? 

Camilleri: A teatro, c’è il tentativo, non si sa quanto riuscito, di trasformare le cose scritte in cose dette. È vero, come fatto narrativo personale, divido: cose scritte e cose dette. Nelle cose scritte ci si può sbilanciare, attraverso la scrittura, a dare il senso di tutto quello che è il formalismo di una situazione paradossale (l’imposizione dello stato, per esempio). Nelle cose dette, invece, verba volant e scripta manent, si può parlare con una maggiore libertà, e quindi il dialogo è più diretto, spontaneo e vero. A teatro, abbiamo cercato un mezzo per contrapporre questi due momenti. Sull’adattamento, devo dire che, per adattare un romanzo alla scena teatrale, lo spostamento di piani è inevitabile, direi indispensabile. Credo che in questa operazione si perda qualcosa, ma che qualcosa d’altro si guadagni. L’essenziale è non snaturare, ma lasciare intatto lo spirito del romanzo. 

Dipasquale: Camilleri ha una costruzione letteraria che, pur trovando nel lettore un consenso immediato, affonda le radici lontano, nel tempo. Io lo definisco un aedo moderno, un cantore che, in una società iperdinamica, è ancora capace di inventare storie con il ritmo di un poeta orale di origine pre-omerica. Poi tutto questo viene solidificato nella scrittura e diventa un fatto estremamente letterario, perché dentro c’è ricerca linguistica e ricerca tematica, aggancio storico, una serie di elementi che fanno di un autore non un novellista da feuilleton ma un autore a tutto tondo.

Come portare tutto questo a teatro? 

Dipasquale: Mi sono posto di fronte a Camilleri allo stesso modo in cui mi sarei posto di fronte a Pirandello, con la stessa identica “ragione di rispetto”, forti della nostra collaborazione passata su trasposizioni di novelle pirandelliane. Ebbene, il rischio maggiore stava nella banalizzazione possibile nel passaggio dalla carta alla scena. La drammaturgia ha dovuto necessariamente ricercare modi e strumenti più articolati che investissero la messa in scena vera e propria, e rendesse al meglio lo spirito dell’opera. Come dire, attuare un tradimento dovuto, ma non irrimediabile della pagina letteraria.

La scenografia è fatta di faldoni accatastati l’uno sull’altro. Perché? 

Dipasquale: Avevo la necessità di tradurre come elemento fondante della messinscena quello che, nel romanzo di Camilleri, è il principio paradossale della burocrazia. Ho pensato che la vicenda dei personaggi potesse svolgersi in una Vigata fatta di carta, ma non una Vigata pittorica o figurativa, bensì uno spazio di carta dentro il quale i personaggi, vestiti anch’essi di carta, vivessero come topi scampati all’ultimo giorno dell’umanità. La metafora è che il Sud ha avuto solo risposte cartacee a problemi eterni: alla mafia si risponde con una commissione parlamentare, alla siccità con un decreto non attuabile, e così via. La burocrazia dello Stato, umbertino o repubblicano, ha dato ai problemi del meridione più risposte di carta che risposte concrete.

Nel romanzo si descrivono i mali di Sicilia e, appunto, le manchevolezze dello Stato. A un certo punto si dice che il personaggio principale è preso in mezzo “tra mafia e stato”. Chi legge, è portato a dedurre che le due entità sono speculari o complementari. È una percezione giusta? 

Camilleri: All’epoca dei fatti narrati era così. Attualizzare non era nelle intenzioni dell’autore. Se qualcuno lo vuol fare, liberissimo…

Dipasquale: Ahimè sì, anche se oggi si tenta di far credere che la mafia sia lì lì per soccombere. Lo vediamo in occasione delle varie emergenze permanenti. Il paradosso della commedia è che il protagonista, ormai disperato, per avere la concessione della linea telefonica deve chiedere l’aiuto del boss mafioso, il quale, finalmente, riesce a fargliela ottenere.

Il tono è quello della commedia, ma nessun personaggio ne esce bene. Verrebbe da pensare che la Sicilia sia una sorta di metafora per affermare un forte pessimismo nei confronti dell’umanità in generale. È così? 

Camilleri: È vero, nessuno ne esce bene, ma a me i personaggi di una commedia di equivoci e di imbrogli piacciono così, come un vino col retrogusto amaro. Non sono pessimista nei confronti dell’uomo, al quale anzi va tutta la mia fiducia. Sono pessimista sui destini dell’Italia e degli italiani; l’evoluzione dell’uomo italico è molto più lenta di quella di altri primati. Soprattutto in Sicilia, le tradizioni, le remore e le forze frenanti sappiamo sfruttarle al meglio, mettiamo in atto con molta abilità tutto quello che renda più pesante la zavorra in modo da evitare il volo del pallone aerostatico. 

Dipasquale: Penso che nella commedia aleggi un pessimismo non nichilista, ma pirandelliano, fatalista, che solo un siciliano può avere: “la storia non può che andare così, non c’è rivoluzione che possa cambiarne il corso”. Se Marx fosse vissuto in Sicilia, non avrebbe scritto neanche una parola del Manifesto. I personaggi de La Concessione sono il frutto evidente di questo fatalismo storico. Anche Genuardi, che sembrerebbe all’apparenza vittima di tutto questo, è alla fine un inetto colpevole. Il messaggio è che, se una svolta ci sarà in Sicilia, non partirà dall’interno

In una compagnia di attori siciliani, c’è Francesco Paolantoni, il protagonista, che è napoletano. Perché? 

Dipasquale: È un cittadino del Regno delle Due Sicilie, quindi apparteneva a quel tipo di temperie culturale, storica, politica dentro la quale si svolge la vicenda, assimilabile per molti aspetti a tutto il sud d’Italia. C’è anche un risvolto non secondario: Genuardi-Paolantoni fa da “pendant” con l’altro personaggio, il prefetto Marascianno, anche lui napoletano. 

Il vostro è un sodalizio artistico che dura da anni: non solo lavori teatrali, ma insieme curate anche la gestione di un teatro a Racalmuto, il paese natale di Sciascia.. 

Camilleri: Oramai siamo a cinque regie teatrali: due Pirandello (una è La Cattura, l’ultimo lavoro recitato dal grande Turi Ferro), l’adattamento di due miei romanzi (prima della Concessione, Il birraio di Preston), l’adattamento in siciliano di Molto rumore per nulla di Shakespeare ridenominato Truppu trafficu pi nnienti. 

Dipasquale: Ci unisce la passione per la Sicilia e una grande amicizia, nonostante la differenza di età, quaranta per la precisione. Per celiare sul nostro rapporto, probabilmente Andrea vede in me quel regista che ha poi scelto di non essere più, e io vedo in lui l’autore che non sarò mai e che, a dire il vero, non ho neanche l’ambizione di diventare. La verità è che, al di là del lavoro, ho la fortuna e il privilegio di averlo soprattutto come amico; un amico estremamente generoso. 

Camilleri, in Italia i lettori di libri sono poche migliaia.. 

Camilleri: Speriamo diventino molti di più. Ma devo dire che quei pochi sono ben serviti. La letteratura italiana contemporanea ha una produzione media di buon livello, e delle punte notevoli. Un patrimonio che noi italiani sfruttiamo poco, ma che è vivo e vegeto.

Non pensa che della letteratura si abbia in Italia un concetto un po’ sacrale e distante? 

Camilleri: Io spero di non appartenere a questa categoria, alcuni critici mi definiscono nazional-popolare. Spero che tanti altri trovino il coraggio di scendere dall’olimpo e scrivere in un modo meno criptico e meno riservato agli iniziati.

Per questo ama definirsi un cantastorie? 

Camilleri: Sì, il cantastorie non racconta le storie a se stesso, ma le racconta agli altri. Raccoglie intorno un pubblico che lo sta a sentire con attenzione e partecipazione, poi leva la coppola e passa in mezzo alla gente. Anche le mie storie sono destinate alla gente, certamente non a una ristretta cerchia di amici.


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