mercoledì 23 agosto 2017

Maureen O’Hara / La regina del Technicolor


Maureen O’Hara

(1920-2015)

La regina del Technicolor

La chiamavano «la regina del Technicolor» per via dei lunghi capelli rossi e degli occhi verdi, intensi, penetranti e a volte fieramente malinconici come il color smeraldo della sua terra, l’Irlanda, dov’era nata (a Ranelagh, sobborgo a sud di Dublino) il 17 agosto del 1920, seconda di sei figli, e dalla quale se n’era andata, diciannovenne attraverso l’Atlantico, per cercare fortuna a Hollywood.
Si chiamava Maureen FitzSimons, era figlia d’una cantante d’opera e fino all’età di 16 anni aveva pensato di dover seguire le orme della madre, finché Charles Laughton – uno dei più grandi e dolorosi istrioni del cinema prima inglese, poi americano – non la notò, a un’audizione dove Maureen si era detestata, e la suggerì all’amico Alfred Hitchcock per il ruolo dell’orfana Mary nel melodramma “giallo” (non irresistibile) La Taverna Della Giamaica (Jamaica Inn, 1939). Laughton la volle con sé, nei panni della zingara Esmeralda, anche per Notre Dame (The Hunchback Of Notre Dame, 1939), tra le prime e migliori riduzioni del romanzo di Victor Hugo targata RKO e diretta da un William Dieterle in stato di grazia espressionista; prima di farle da pigmalione, però, Laughton aveva suggerito, o meglio imposto, un cambio di cognome, e fu insomma grazie a lui se l’impronunciabile signorina FitzSimons divenne famosa in tutto il mondo come Maureen O’Hara, imponendo un modello di femminilità volitiva e indipendente, sempre pronto a rimboccarsi le maniche, a tenere duro e a dimostrare stomaco e slancio anche quando, per esempio nel torbido Hai Sempre Mentito (A Woman’s Secret, 1949), noir girato senza troppa convinzione da Nicholas Ray, la parte prevista dal copione era quella della vittima sacrificale.

Mai nominata agli Oscar, O’Hara ne ricevette uno, alla carriera, solo l’anno scorso, ormai novantaquattrenne: andò a ritirarlo in sedia a rotelle, e sembrò contenta di essere introdotta dai colleghi Liam Neeson e Clint Eastwood, ma quando il suo discorso venne tagliato, in osservanza delle regole di concisione imposte dalla tv, andò su tutte le furie e seminò il panico nello studio. E d’altronde, testarda e insofferente O’Hara la era sempre stata, sullo schermo come nella vita privata, contraddistinta da varie turbolenze sul piano sentimentale, qualche matrimonio sbagliato, parecchio alcool e un incessante, continuo sforzo di promozione dell’eredità culturale della natìa Irlanda, alla quale fu legata da un rapporto sempiterno di amore e nostalgia. Diventata, in vecchiaia, una delle icone della parata newyorkese di San Patrizio, l’attrice aveva continuato a ricordare, anche nelle tarde interviste, quali fossero l’ambizione divorante e il desiderio sfrenato alla base dei suoi lavori più riusciti: «Ho sempre voluto essere la più grande attrice al mondo», diceva, «e mi sarei ritirata senza fare più nulla quando il mondo intero fosse stato ai miei piedi».
Maureen O'Hara (1)Chioma al vento, décolleté in evidenza, labbra di fuoco e iridi saettanti, negli anni ’40 O’Hara era assurta al rango di eroina prediletta degli swashbuckler, i film su avventurieri dagli abiti squillanti spesso ambientati su vecchi galeoni, assaliti da pirati e bucanieri: era stata l’aristocratica Margaret Denby, oggetto del desiderio del filibustiere Tyrone Power nel Cigno Nero(The Black Swan, 1942) di Henry King, e la contessa Francisca perdutamente amata dal pirata olandese Paul Henreid nello stupendo Nel Mar Dei Caraibi (The Spanish Main, 1945), diretto con ineffabile romanticismo da Frank Borzage, rivale di Douglas Fairbanks nel dimenticabile Sinbad Il Marinaio(Sinbad, The Sailor; Richard Wallace, 1947) e la vendicativa figlia di uno sceicco arabo nella Turchia kitsch del prescindibile Bagdad (1949) di Charles Lamont. Smessi gli abiti della donna di mare, O’Hara si dimostrò perfetta nel vestire anche quelli della zelante borghese americana, fresca di parrucchiere e impegnata a gestire zuccherose disavventure familiari sovente finanziate dalla 20th Century Fox, e se Non Dirmi Addio(Sentimental Journey; Walter Lang, 1946), tearjerker (film strappalacrime) di scarsa qualità, non rendeva giustizia al talento comico dell’attrice, Il Miracolo Della 34a Strada (Miracle On 34th Street; George Seaton, 1947) ne esaltò il pragmatismo, trionfando al botteghino, e il successivo Governante Rubacuori (Sitting Pretty; Walter Lang, 1948) ne sottolineò la versatilità e la scatenata vocazione umoristica (ancora evidenti, nel 1961, in una pellicola tuttavia moscia e stucchevole come Il Cowboy Con Il Velo Da Sposa [The Parent Trap, 1961], con il marchio Walt Disney).

O’Hara avrebbe fatto altre commedie, altre saghe familiari, altri western, girando due volte nei panorami selvaggi del Wyoming (per due film poco riusciti, La Ribelle Del West [The Redhead From Wyoming, 1953], in origine, appunto, «la rossa del Wyoming», e Quella Nostra Estate [Spencer’s Mountain; Delmer Daves, 1963]), trovando una sintonia con l’Ovest crepuscolare e dolente di Sam Peckinpah (al suo debutto in La Morte Cavalca A Rio Bravo [The Deadly Companions, 1961]) e azzeccando il personaggio tutto sottintesi di segretaria di un’agenzia del controspionaggio nel Nostro Agente All’Avana (Our Man In Havana, 1959) di Carol Reed. Avrebbe persino ritrovato Laughton e incontrato un grande regista europeo, Jean Renoir, in trasferta americana e non al suo meglio nel dramma anti-nazista di Questa Terra È Mia (This Land Is Mine, 1943), ma non avrebbe mai più conosciuto la sintonia artistica, umana e ideale conosciuta lavorando con John Ford e John Wayne, entrambi conterranei per retaggio e tutti e due affettuosi, sorridenti e perdutamente innamorati nel riconoscerle una vitalità fuori dal comune.
Maureen O'Hara (3)Ford, che la definiva «la miglior maledetta attrice di tutta Hollywood» (lei etichettò sempre i set del cineasta come «il paradiso di un grande artista che avevi voglia di ammazzare ogni cinque minuti»), la reclutò in cinque film (tre dei quali con Wayne), a cominciare da Com’Era Verde La Mia Valle (How Green Was My Valley, 1941), contrastato melodramma ambientato in un paese minerario della Scozia, e finendo con Le Ali Delle Aquile (The Wings Of Eagles, 1957), toccante biografia dell’ufficiale di marina, pilota, giornalista e sceneggiatore Frank W. Wead. In mezzo, la moglie sudista del generale yankee Wayne di Rio Grande (1951, da noi diventato, chissà perché, «Rio Bravo»), l’immigrata irlandese moglie di un cadetto di West Point (Tyrone Power) nel ritratto agrodolce della Lunga Linea Grigia (The Long Gray Line, 1955) e, soprattutto, la Mary Kate di Innisfree, in cerca di una dote, nel capolavoro Un Uomo Tranquillo (The Quiet Man, 1952), summa teorica e visiva di molto cinema fordiano e delle sue donne dure e irriducibili, spesso accusato di machismo (per la sculacciata finale) e in realtà depositario di una delle figure femminili più belle e riuscite, nella sua lotta per essere considerata un essere umano dotato di personalità e non una semplice domestica, dell’intero decennio, nonché di un’indimenticabile bacio sotto la pioggia in cui le labbra carnose della O’Hara e quelle sottili di Wayne s’intrecciarono alla perfezione. John Wayne sarebbe stato di nuovo al suo fianco in McLintock (McLintock!; Andrew V. McLaglen, 1963), commedia rosa e musicale travestita da western, e nel più interessante Il Grande Jake (Big Jake; George Sherman, 1971), scanzonato (e violento) racconto di un ranchero in cerca del nipote rapito, l’ultima pellicola interpretata da O’Hara, dal 1968 sposata con il terzo marito Charles F. Blair Jr., aviatore dell’esercito, prima del ritiro domestico e familiare, interrotto solo, nel 1991, per impersonare la madre asfissiante del placido poliziotto John Candy in Cara Mamma, Mi Sposo (Only The Lonely; Chris Columbus).

Morta nel sonno il 25 ottobre scorso, all’età di 95 anni, nella casa di Boise, Idaho, dove viveva col nipote Conor dal 2012 (dopo qualche stagione trascorsa in Irlanda), Maureen O’Hara ha spostato la linea maschilista del cinema americano verso l’indipendenza femminile, al punto da vedere riconosciuta la propria, salutare anomalia anche da un laconico simbolo della mascolinità come John Wayne, che tra l’ammirato e il divertito, di lei diceva, «Ho avuto nella vita tanti amici maschi, tranne uno, Maureen O’Hara, e lei è davvero un grand’uomo».



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