martedì 4 maggio 2021

Philip Roth, l’intervista al biografo / «Mi chiese di non riabilitarlo».

Philip Roth


Philip Roth, l’intervista al biografo: «Mi chiese di non riabilitarlo».

Blake Bailey è l’autore del libro sullo scrittore americano che esce negli Usa martedì 6 aprile. «La Lettura» ha visto il volume in anteprima. Qui l’intervista al biografo

di COSTANZA RIZZACASA D’ORSOGNA
5 aprile 2021 (modifica il 9 aprile 2021 | 21:09)

«Come può un Gentile dell’Oklahoma scrivere la biografia di Philip Roth, un ebreo di Newark?», chiese il grande scrittore al loro primo incontro, nella primavera del 2012. Blake Bailey non ebbe dubbi a rispondere: «Beh, non sono un vecchio alcolizzato bisessuale discendente dei Puritani, ma sono riuscito lo stesso a scrivere una biografia di John Cheever». Da tanti anni Roth cercava un biografo. Inizialmente aveva incaricato Ross Miller, nipote dell’amico Arthur, il celebre drammaturgo, per un volume da pubblicare con il suo editore, Houghton Mifflin Harcourt. Tra i due nacque un’amicizia profonda — troppo per la giusta distanza tra biografo e soggetto. Così, dopo che, nel 2009, i rapporti tra Miller e Roth si deteriorarono, James Atlas, biografo ed editor di Saul Bellow presso la Library of America (collana di classici americani sul modello della Bibliothèque de la Pléiade), suggerì a Bailey, finalista al Pulitzer con Cheever: A Life (2009) e autore di apprezzati studi su Richard Yates e Charles Jackson, di contattare Roth. Nove anni dopo, ecco l’attesissimo Philip Roth: The Biography, in uscita negli Stati Uniti martedì 6 aprile e in Italia per Einaudi l’anno prossimo. Un lavoro immenso, per cui Bailey, 57 anni, ha avuto accesso incondizionato a tonnellate di documenti, corrispondenze, appunti e bozze che Roth archiviava ossessivamente e custodiva gelosamente. Un libro zeppo di aneddoti, curiosità, rivelazioni, a tratti ironico come sapeva essere Roth. Una biografia totale, dove Bailey mescola l’alto e il basso, l’immacolato e il sordido, senza alcun giudizio morale. Un’opera di cui qualcuno ha già scritto che non sopravviverà al #MeToo, ma che invece proprio in tempi di cancel cultureè attualissima. In un’intervista esclusiva con «la Lettura», Bailey parla degli anni di ricerche prima di scrivere una sola parola, dei tentativi di Roth di «indirizzarlo», delle sue preoccupazioni e vulnerabilità.

Lei cita in esergo un’osservazione che Roth le fece in una delle vostre prime conversazioni: «Non voglio che mi riabiliti, mi renda solo interessante». Pensa che Roth credesse di avere bisogno di essere riabilitato?

«Certamente. Da un lato, gli piaceva ritenersi superiore a certe ansie sulla sua reputazione e la sua eredità letteraria, ma è chiaro che fossero al centro dei suoi pensieri. Ricordo molto bene quando mi disse quella frase. Era l’8 luglio 2012, nel suo studio del Connecticut. Mi stava raccontando quanto il memoir della sua seconda moglie, l’attrice inglese Claire Bloom (Leaving a Doll’s House, 1996; inedito in Italia, ndr), avesse danneggiato la sua reputazione nei “circoli femministi”, e chiosò che lui stesso avrebbe potuto fare lo stesso “solo respirando”, cioè solo esistendo — poi aggiunse che non voleva lo riabilitassi eccetera eccetera. Penso sia onesto dire che l’ho preso in parola».

Roth non si riferiva, però, solo alle donne, ma anche alle accuse di antisemitismo che da sempre lo perseguitavano.

«È così. Fin dal suo primo libro, nel 1959 (Goodbye, Columbus; Bompiani, 1960), era stato accusato di antisemitismo. Addirittura, il grande filosofo israeliano Gershom Scholem dichiarò che Lamento di Portnoy(1969; Bompiani, 1970), avrebbe istigato qualcosa di simile a un secondo Olocausto. La polemica fu in parte risolta quando nel 2014 Roth ricevette una laurea honoris causa dal Jewish Theological Seminary (uno dei principali centri dell’ebraismo conservatore, ndr), una sorta di calumet della pace istituzionale. Ma frange dell’establishment ebraico non lo accettarono mai davvero, e Roth ne era dolorosamente — perfino morbosamente — consapevole».

È vero che Roth ha contribuito in modo quasi ossessivo alla biografia, fornendole migliaia di pagine di appunti scritti per l’occasione? Si è mai sentito «guidato», nella stesura? E quanto del lavoro finito Roth è riuscito a vedere?

«Assolutamente nulla. Una volta gli ho mostrato alcuni appunti che avevo preso, ma non ha mai visto il prodotto finito — anche se, non fosse morto tre anni prima dell’uscita, gli avrei permesso di rileggere la bozza per veridicità dei fatti, un accordo che prendo con tutti i soggetti delle mie biografie, o i loro esecutori. Non è mai stato il suo libro: è sempre stato il mio. Non sono mai stato “manovrato”. Vero: Philip ha spesso cercato di dirmi, anche esaustivamente, cosa dovessi pensare, ma me la cavo a pensare da me, e credo che traspaia».

Che cosa l’ha colpita di più, dell’uomo Roth?

«Era una persona perbene, un uomo più buono e più dolce, specie con l’età, di quanto la canaglia che a volte era stato lascerebbe pensare. Un aspetto del disastroso matrimonio con Maggie (Margaret Martinson Williams, sposata nel 1959, ndr), erano i figli di lei, che nel libro chiamo Ronald e Helen, abbandonati a loro stessi dopo il divorzio dei genitori e quasi analfabeti. Entrambi hanno tenuto a dirmi che Philip salvò loro la vita, facendo in modo che ricevessero una buona istruzione, e che li trattò sempre con affetto e considerazione. D’altro canto, la monogamia non era cosa di Philip, e questo chiaramente non portò bene ai suoi due matrimoni. Per tutta la durata della relazione ventennale con Bloom, Roth frequentò assiduamente un’altra donna, “Inga”, e molte altre, inclusa Ava Gardner. Gli dissi che un buon titolo per la biografia avrebbe potuto essere Quando lui era buono, gioco di parole sul suo secondo romanzo, Quando lei era buona (1967; Rizzoli, 1970), ispirato a Maggie, e sui versi di Longfellow: “Quando era buona,/ Era davvero buona,/ Ma quando era cattiva era orribile”. Roth si mise a ridere».

Come giudica il contributo di Roth alla letteratura americana e mondiale?

«Immenso. Dopo la morte di Saul Bellow e Eudora Welty, Roth era l’unico americano vivente la cui opera fosse pubblicata nella Library of America; lui e Vargas Llosa gli unici autori viventi non francesi nella Pléiade. In quanto alla considerazione che Roth aveva di sé, diciamo che non si sottostimava, ma allo stesso tempo possedeva un certo grado di modestia. Quando gli chiesi se il cappello di Bellow — quello che l’autore de Il dono di Humboldt aveva indossato alla cerimonia del Nobel e che la moglie aveva dato a Philip — gli stesse bene, rispose: “No, non riesco a riempirlo. Lui è uno scrittore molto migliore di me”».

Lei sottolinea che Roth si considerava l’opposto di un antisemita e un misogino. E che quando si accorse dell’antisemitismo dilagante in Inghilterra, si fece crescere la barba per accentuare i tratti semitici. Anche se detestava essere definito un autore ebreo-americano, ed era fortemente anti-religioso.

«Come tutti i grandi scrittori, Roth aveva una personalità poliedrica. Amava sentirsi un ebreo tra gli ebrei dell’Upper West Side di Manhattan come a Tel Aviv, ma non sopportava la superstizione né la religione. Ripeteva sempre che come Hemingway e Faulkner non andavano in giro definendosi cristiano-americani, non c’era motivo per cui lui dovesse definirsi un autore ebreo-americano. Per quanto riguarda le donne, vale la pena ricordare che molte sue compagne e amanti andarono a trovarlo sul letto di morte. Per questa ragione non può essere stato solo un mascalzone».

Com’era invece il Roth politico, al di là del noto disprezzo per Donald Trump?

«Roth era essenzialmente un liberal vecchio stile alla Franklin Delano Roosevelt. Credeva in una giusta distribuzione della ricchezza, negli ammortizzatori sociali, nell’uguaglianza di fronte alla legge e così via. Soprattutto, credeva nella tolleranza. Che chiunque dovesse poter dire o scrivere quello che voleva, senza timore di essere perseguitato legalmente, socialmente o letterariamente. Era il motivo per cui era così inorridito dalle vicissitudini degli scrittori dissidenti nei Paesi del blocco sovietico, di quelle dei comunisti e di altri militanti di sinistra durante il maccartismo negli Stati Uniti, o da qualsiasi altro genere di persecuzione politica».

David Simon, che ha adattato «Il complotto contro l’America» (2004; Einaudi, 2005) per l’omonima miniserie di Hbo andata in onda l’anno scorso, ha raccontato a «la Lettura» di quando dovette farsi coraggio per andare a dire a Roth che voleva cambiare il finale, e lui rispose flemmatico: «Adesso sono cavoli tuoi». Era normale, per Roth, essere così distaccato quando c’erano di mezzo le sue opere?


«Sì e no. Durante la nostra primissima conversazione, nel 2012, mi chiesi ad alta voce da quanti volumi fosse composta la sua edizione della Library of America. Rispose: “Sono l’ultima persona a cui chiedere”, come se i prodotti del suo genio e della sua gloria fossero per lui materia di indifferenza olimpica. La verità, ovviamente, era il contrario: Philip era la prima persona a cui chiedere queste cose, perché era lui che aveva scritto ogni parola sulla copertina, scelto ogni foto e monitorato ogni piccolo avanzamento di ciascuno di quei volumi. D’altro canto, in particolare dopo il film di Barry Levinson con Al Pacino tratto da L’umiliazione (2009; Einaudi, 2010), aveva imparato a coltivare uno stoico distacco verso gli adattamenti dei suoi libri. Il suo commento a Simon era stato abbastanza sincero. Soprattutto, Roth stava per morire, e lo sapeva».

Di che cosa Roth aveva più paura, nella vita e nel lavoro?

«Si sentì spesso frainteso, sia come uomo che come scrittore. Pensava che il ritratto di misogino machiavellico che ne aveva fatto Claire Bloom nel suo memoir fosse a dir poco esagerato; temeva che sarebbe morto prima di poter correggere quell’impressione. È il caso, a questo proposito, di ricordare come molte tra le amicizie più durature di Roth fossero con donne formidabili e brillanti: Judith Thurman, Hermione Lee, Claudia Roth Pierpont. I suoi avvocati erano donne, la sua editor preferita era una donna, la sua prima agente, la sua storica mentore. Roth non ha mai negato di essere capace di comportamenti, diciamo così, sessualmente molto anticonvenzionali, ma era solo un aspetto del suo rapporto con le donne».

Come creava trame e personaggi? Qual era, secondo lui, il suo libro più riuscito, o quello che amava di più?

«In più di un’occasione Philip ebbe a dire che le sue prime bozze erano terribili, che a volte scriveva 150 o più pagine prima di produrre una sola frase promettente. Prenda Lamento di Portnoy: Roth stava cercando, per l’ennesima volta, di trovare il giusto veicolo narrativo per raccontare come la prima moglie, Maggie, l’avesse convinto a sposarla con l’inganno, pagando una donna incinta affinché le fornisse un campione di urina per il test di gravidanza. Così, le prime pagine di una bozza di Portnoy erano tutte su quest’alter ego di Maggie, “Erika”, finché il protagonista non arrivava alla vera questione: sua madre, la fonte del paralizzante senso di colpa che lo aveva fatto soccombere all’inganno di “Erika” in primo luogo. Improvvisamente, la prosa di Roth divenne viva, e il resto è storia. Con Portnoy, Roth diventò ricco e famoso, anche se più in là con gli anni dichiarò spesso che avrebbe voluto non averlo mai scritto, quel romanzo su un masturbatore compulsivo. Il suo preferito tra i suoi libri era solitamente Il teatro di Sabbath (1995; Mondadori, 1996), mentre io amo molto Lo scrittore fantasma (1979; Bompiani, 1980), Pastorale americana (1997; Einaudi, 1998) e Everyman (2006; Einaudi, 2008), fra gli altri».

Quando iniziò, Roth, a pensare alla morte? E dopo essersi ritirato dalla scrittura, nel 2012, volle mai tornare indietro?

«Nel 1982, quando aveva 49 anni, a Roth venne diagnosticata una grave cardiopatia coronarica; sette anni dopo dovette sottoporsi a un quintuplo bypass. Per questi motivi aveva molte buone ragioni per riflettere sulla propria mortalità. Credo fosse molto preoccupato per la sua eredità letteraria: temeva che sarebbe stata intaccata dal ritratto rovinoso che aveva fatto Bloom e da certi aspetti controversi delle sue opere. Ma non credo ci fosse un altro libro che volesse dare alle stampe, a parte la replica al libro di Bloom, Notes for My Biographer (confutazione riga per riga, lunga 295 pagine, che amici e avvocati lo convinsero a non pubblicare perché l’avrebbe danneggiato, ndr), che alla fine decise di utilizzare nel senso del titolo, destinandolo cioè al suo biografo, io. Una delle ragioni per cui Roth aveva smesso di scrivere era proprio che dopo 31 libri si sentiva svuotato».

Lei scrive che Roth non sopportava di essere considerato essenzialmente un autore autobiografico. Allo stesso tempo, però, sapeva sfruttare molto bene l’equivoco, piazzando alter ego in tutti i suoi libri, omonimi inclusi.

«Philip ha attinto in abbondanza alla propria vita per le sue opere, per lo più in modo scherzoso. Per esempio, in “Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno” ovvero, guardando Kafka, il suo saggio-racconto del 1973 (Einaudi, 2011), immaginò che Kafka fosse sopravvissuto per emigrare negli Stati Uniti e diventare l’insegnante di ebraico di Roth a Newark. Quando gli chiesero se la trama fosse autobiografica, a parte il dettaglio di Kafka, Roth rispose: “Kafka era il mio insegnante di ebraico. Solo che il mio nome non è Roth”».


CORRIERE DELLA SERA


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