lunedì 31 maggio 2021
mercoledì 26 maggio 2021
Perle Fine
Perle Fine |
Cool Series |
Cool Series |
Cool Series |
Polyphonic, 1945 |
Una quietud persuasiva |
Surge, 1960 |
Sin título, 1946 |
Figura descendiendo una escalera |
Perle Fine |
lunedì 24 maggio 2021
venerdì 21 maggio 2021
Time Out / Giancarlo Vitali, 'condannato' alla pittura
Time Out
Giancarlo Vitali, 'condannato' alla pittura
FRANCESCA JOPPOLO
Giancarlo Vitali ha aspettato che lo trovassero. L’hanno trovato. Lui è sempre stato lì, bellissimo, con una moglie bellissima, sulla sponda orientale del Lago di Como senza mai alzare il telefono per chiamare un critico, per farsi notare. Ai suoi bambini, quando erano bambini, diceva: “Io sono un pittore e, prima o poi, qualcuno se ne accorgerà”.
Decenni dopo, quei rari visitatori casuali, i più sono numerosi e tutt’altro che casuali, della mostra antologica Time out dedicata all’artista di Bellano e sparsa su Milano (Palazzo Reale, Castello Sforzesco, Casa del Manzoni, con un’installazione del regista Peter Greenaway, Museo di Storia naturale, fino al 24 settembre, a cura di Velasco Vitali), si vergognano di non averlo conosciuto prima.
“Condannato” alla pittura, una pittura gestuale, energica, Vitali ha dipinto tutta la vita, ha fatto solo quello ed essendo figlio di pescatori non era scontato. Oggi dipinge poco, le forze sono meno forti, e ne soffre. La figlia Sara lo ritrae: “È una persona decisa, il contrario di come si descrive agli altri. Tenace, rigoroso, ordinato, meticoloso. Per certi versi è doppio perché è emotivo e passionale, ma molto determinato. Non si è mai voluto spostare da Bellano, dal lago, dove ha il suo baricentro e per nulla al mondo se ne sarebbe andato”.
Ci vuole una determinazione ferrea per non pubblicizzarsi e per mettere in un ripostiglio la celebrità quando qualcuno ti pubblicizza portandoti onori e guadagni. La determinazione di tenere più alla libertà che al proprio luccicare. Vitali aveva cinquantaquattro anni, nel 1983, quando Giovanni Testori rimase affascinato da lui. Testori, storico dell’arte, drammaturgo, critico letterario, dipingeva, ma era troppo onesto per sentirsi pittore. Vitali e Testori divennero molto amici e quando nel 1993 Testori morì, in un ricovero sopra Varese, Vitali annunciò: “Ora posso andare in pensione. Quello che volevo, la fama e gli aspetti commerciali, l’ho avuto da un uomo nel quale avevo fiducia e adesso basta”. Inoltre, Vitali ha sempre pensato di non aver tempo da perdere per vedere questo o quello.
Adesso basta? Sara Vitali si è ribellata e nel 2006 ha creato l’archivio delle opere paterne: “Dentro di me non ho mai pensato di essere la figlia di Picasso, ma lui era nel posto sbagliato e non volevo lasciare a mia figlia e ai nipoti un’eredità con delle ombre. Con l’artista in vita non ci sono ombre, quello che ci ha dato, ce lo ha dato lui, quello che ci ha detto, ce lo ha detto lui. Gli ho chiesto che ci donasse tutto in cambio di un vitalizio e di un corpus di opere da mantenere. È sveglio, ha capito che l’offerta era conveniente e ci ha donato tutto, anche se a volte spunta ancora qualcosa… La mostra di Milano è il culmine di questo lavoro, sono molto soddisfatta”.
L’Archivio fa sì che alcuni quadri “tornino”, richieste di autentica, storie, soprattutto dagli anni Cinquanta, tempi in cui Vitali, con un misto di malavoglia nel piegarsi alle necessità e di stupore da figlio di pescatori nell’essere pagato per “divertirsi” faceva i necessari compromessi per campare. Un signore che ha prestato con diffidenza un’opera l’ha vista in mostra ed è rimasto senza parole: “Non mi ero reso conto di avere un quadro così importante”.
Ritrattista eccezionale, Vitali smise quasi subito di dipingere per compiacere il ritrattato. Sara racconta che era velocissimo e gli bastavano poche decine di minuti: “Mia sorella Paola ha raccontato che era noioso posare per tre ore. Ma quali tre ore! Papà impiegava quindici, venti minuti. Semmai il fallimento del ritratto era pesante: posare e non vedere il risultato”.
Andrea Vitali, non parente ma compaesano, medico e scrittore, ha cominciato a ritrarre Vitali con le parole, prima di conoscerlo, poi ne è diventato il dottore infine un amico. Scontroso, ansioso, ozioso-ermetico, lunatico, meteoropatico-rigido, timido, sapido-solingo, epigrammatico-nostalgico, e simpatico sono alcuni degli aggettivi con i quali lo descrive. “Giancarlo Vitali non esce quasi mai di casa e le rare volte in cui lo fa coincidono con il funerale di un amico o di un conoscente. Ha tempi di lavoro che sfuggono al circadiano ritmo degli ormoni. A volte invece di parlare, sentenzia. Ed altre, anziché parlare, tace, e lungamente. Erra, per lo più nel suo studio. Fuma qualche sigaretta. Parla correttamente il dialetto - scrive il Vitali delle parole sul Vitali dei colori -. Lo sfavorisce il vento che soffiando dentro e fuori di lui disordina la sua emotività. Io posso solo spiare di non averlo mai visto con il pennello in mano, né mai lo vedrò. Per l’ordinaria ragione che l’uomo, quando concepisce, vuole e deve essere solo”.
Con questo artista, che ha sempre avuto lo studio in casa, la moglie abita dal 1959, a lui dedita. Vivono soli, in una casa spaziosa, sprovvisti di un aiuto fisso che non vogliono, sostenuti da tre figli, Velasco, Sara e Paola, molto amorosi, ma lontani. Una coppia notevole: “Sono un po’ impegnativi per gli altri, con i continui battibecchi, ma nei momenti difficili viene ribadita da entrambi la fortuna dell’incontro - spiega Sara -. La mostra gioca sulla coppia, anche su coppie immaginarie: persone forzatamente messe insieme. Come dire: l’uomo e la donna? Boh! Sulla parete di apertura un ritratto della mamma da sposa, vestita con un abito stile Audrey, al ginocchio. Un dipinto bianco, alla Casorati. E un altro della mamma incinta di Velasco, con i limoni, perché era agosto, e alla fine della gravidanza lei mangiava limoni”.
Una coppia notevole che ha generato Velasco, pittore dalla fine del liceo, Sara, editrice, Paola disegnatrice di scarpe: “Siamo molto legati alla mamma e al papà. Abbiamo fatto di tutto per assisterli negli inciampi di salute. Siamo un clan e, da adulti, ce ne siamo fatti una ragione, ma da piccoli quando si vuole assomigliare agli altri era dura da spiegare: papà fa il pittore, non esce la mattina, non torna la sera, non andiamo in vacanza, non esistono sabati e domeniche”. A quattordici anni, Sara andò in collegio dalle suore a Milano: “Ed è stata la mia salvezza. In una famiglia specializzata se non te la senti di seguire la specializzazione è meglio cambiare strada”.
Sua nonna Rosa, madre del padre, aveva il coraggio di preferirla e ammetterlo, alla faccia del “per me siete tutti uguali”. Sara spera di somigliarle. I Vitali erano la famiglia di pescatori più importante della zona, la nonna, dopo aver lavorato in fabbrica (Bellano, grazie all’orrido è sempre stata ricca di energia acquatica e dunque di filande redditizie), aveva aperto una pescheria dove vendeva i pesci che il marito pescava e in quel buchetto cucinava piccola rosticceria. Sara odiava l’odore del pesce, le piaceva solo l’immagine settembrina ed eroica dei pescatori con le gambe immerse nel pesce. Pesci identitari: gli agoni, che sono sarde di acqua dolce e diventano missoltini dopo un gioco di sale e torchietti. C’erano i gamberi d’acqua dolce, ma non ci sono più.
Quando un pesce era particolarmente grande arrivava a domicilio per essere fotografato e dipinto. Nella mostra milanese ce n’è qualcuno consegnato all’immortalità.
mercoledì 19 maggio 2021
Luis Scafati / Donne
lunedì 17 maggio 2021
venerdì 14 maggio 2021
Franz Kakfa / La metamorfosi
I
Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po' la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
giovedì 13 maggio 2021
Franz Kafka / Il nuovo avvocato
mercoledì 12 maggio 2021
Pablo García / Scrittori
martedì 11 maggio 2021
Il film da non perdere questa settimana / "Nomadland"
Il film da non perdere questa settimana: "Nomadland"
La nostra newsletter settimanale dedicata ai film e alle serie tv.
Donne / Frances McDormand
Nomadland di Chloé Zhao, con Frances McDormand (film, al cinema e dal 30 aprile sulla piattaforma Star, all’interno di Disney+)
Tre premi Oscar, e questo lo sapete già, che seguono il Leone d’oro vinto all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Meritati? Io penso di sì. Il film racconta la vita dei nuovi nomadi, non proprio “homeless” ma come li definisce la protagonista, “houseless”: senza una casa di mattoni e con il tetto ma non senza un focolare. E il focolare è mobile, è un camper. Il lavoro è provvisorio. Le relazioni con gli altri nomadi sono rapsodiche ma non per questo insignificanti.
Frances McDormand interpreta Fern, personaggio fittizio che fugge da un luogo un tempo realmente esistito, una piccola città che aveva il pomposo nome Empire, nel Nevada. Alla fine del 2010 Empire è ufficialmente scomparsa, come un antico regno. Nata intorno a una miniera di gesso e a una fabbrica che lo lavorava, quando queste sono fallite, anche la città ha chiuso i battenti.
Nel film, Fern se ne a va a bordo del suo furgoncino bianco che battezza Vanguard, va a lavorare in un magazzino di Amazon (siamo sotto Natale, c’è bisogno di mano d’opera extra per fare i pacchi) e poi la seguiamo in questo viaggio che non si discosta molto da quello che fece autrice del libro da cui è tratto il film, la giornalista Jessica Bruder che per tre anni ha girato l’America, coprendo 15mila chilometri, da costa a costa e dal Messico al confine con il Canada.
L’idea al fondo del libro è documentare la nuova povertà dell’America appena diventata trumpiana, ascoltare le storie di cittadini che le istituzioni hanno, a vario titolo, “lasciato indietro” dopo la recessione del 2008. Il film, anche grazie alla interpretazione di McDormand, è meno ideologico e riesce a mescolare benissimo paesaggio naturale e paesaggio umano e, in modo più dolce che amaro, fa respirare lo spettatore a pieni polmoni un senso di verità.
A parte McDormand e pochi altri, gli altri interpreti sono veri nomadi. Non solo: per aggiungere realismo al tutto, persino il personaggio della sorella della protagonista è la migliore amica di Frances McDormand. Sentiremo ancora parlare di Chloé Zhao, una regista che ha molto da dire.
lunedì 10 maggio 2021
Donne / Maite Perroni II
domenica 9 maggio 2021
Le lettere inedite di Truman Capote raccontano l'uomo dietro l'autore
Le lettere inedite di Truman Capote raccontano l'uomo dietro l'autore
Tra queste anche i pensieri intimi e malinconici dedicati a Jack Dunphy, amore della sua vita.
Antonia Matarrese
04/05/2021
Amici. Nemici. Ex insegnanti del liceo. Direttori di giornali. Colleghi. Fotografi famosi. Amori. Compagni di vita. Sono alcuni dei destinatari di centinaia di lettere, più o meno brevi, scritte da Truman Capote (1924-1984), l’autore di Colazione da Tiffany, A sangue freddo, Preghiere esaudite, Musica per camaleonti.
Frivole, spesso inconcludenti, zeppe di errori per via della fretta, queste missive riempiono ora un volume di oltre seicento pagine, curato da Gerard Clarke (che nel 1988 ha redatto la biografia dello scrittore americano) e tradotto in italiano per i tipi di Garzanti. Titolo: È durata poco la bellezza. Una bellezza che diventa “assoluta” per descrivere le case dove Capote veniva ospitato ai quattro angoli del mondo, un maglione ricevuto in dono a Natale, un musical visto a Broadway, il quaderno rilegato comprato a Firenze, la primavera a Taormina, l’autunno di New York.
Sensibile, romantico e decisamente intuitivo, lo scrittore americano si arma di carta e penna solo quando ne ha “genuinamente voglia” e lo fa per sondare l’umore degli interlocutori attraverso i “segnali luminosi” delle loro risposte, per fare pubbliche relazioni, per tenere vivo un rapporto. Tramite le lettere, Capote simula una telefonata o una chiacchierata ad alto tasso di pettegolezzo, “come se stessimo bevendo un drink insieme da qualche parte”. E lui, di drink, ne beveva parecchi. Davvero curiosi i vezzeggiativi che usa come incipit: diavoletta, piccino, sorellina, tesoruccio, cuore prezioso, radioso, agnellino, pasticcino.
Chiama “malandrino” Cecil Beaton (il fotografo preferito dalla famiglia reale inglese nonché richiestissimo scenografo teatrale) colpevole di non aver dato sue notizie per lungo tempo, chiede aiuto al suo più caro amico, Andrew Lyndon, per cercare una casa in subaffitto, dichiara tutto il suo affetto a Gloria Vanderbilt (“sei qualcuno che questo qualcuno ama ricordare”), si lamenta dei problemi economici con il suo pigmalione, Newton Arvin, e di quelli di salute con Katherine Graham, potente editrice del Washington Post, ospite d’onore del ballo in maschera e cravatta nera organizzato dallo scrittore nel 1966 all’Hotel Plaza di Manhattan. Era un lunedì piovoso di novembre e lui voleva gridare al mondo intero la sua felicità dopo la consacrazione del romanzo A sangue freddo, definito l’evento editoriale del decennio (un anno prima il New Yorker lo aveva pubblicato in quattro puntate).
La vera sorpresa di questo epistolario, scovato tassello dopo tassello fra collezioni private e biblioteche in giro per gli Stati Uniti, sono i pensieri intimi, teneri, malinconici che Truman Capote dedica a Jack Dunphy, suo compagno per 35 anni: ex ballerino, atletico, scrittore pure lui. Condivisero successo e decadenza. Traversate a bordo della Queen Mary e passione per i cani. Gli scriverà il 5 luglio ’72: “Sei l’unica cosa buona che mi sia mai capitata. Ti stimo e rispetto tanto. Credo che ciò sia forse più importante che amarti. Si può amare per ragioni così futili e sbagliate. Io ti amo per quelle giuste. T.”