domenica 25 febbraio 2018

Dio e gli altri dirigenti / Le cose resteranno come sono


Angeli e demoni

Dio e gli altri dirigenti

Le cose resteranno come sono

23 MAGGIO 2015, 


L'enorme ufficio dell'Etere è spoglio. Esseri bianchicci si aggirano come candele consumate, colando sudore. Senza una parola spostano documenti, ammassano fotografie, timbrano fogli. Se posano gli occhi su quello vestito di rosso che sta dietro la lunga scrivania abbassano il capo con rispetto.
Si tratta di un individuo altissimo, con un panno bianco che gli copre il piccolo viso e una grande chioma sbiadita ornata di perle. Firma, decide, scuote la testa. Alcuni lo chiamano Dio, altri Schiavo. È obbligato a servire il Sommo Bene, entità superiore che si dice abiti nell'Ariesha, situato più sopra rispetto all'Etere. Nessuno l'ha mai visto, ma chi non crede in lui viene considerato eretico. "È nell'Ariesha che andremo alla fine", dicono tutti, "lì troveremo la luce eterna".
Quello vestito di rosso fantastica spesso su tale paradiso. Consolandosi con il pensiero che esso l'aspetta lavora da secoli per governare il Mondo, posto ancora più in basso dell'Etere. Pare che nel Mondo gli uomini aspirino all'Etere con entusiasmo e speranza: "Che stupidi", pensa quello vestito di rosso, "loro sono ignari di tutto, al contrario di me".
Un angelo dal pallore marmoreo si avvicina alla scrivania e bisbiglia qualcosa. "No!" ringhia quello vestito di rosso. Lo sguardo infinito dell'angelo trema, è da tempo immemore che cerca di far ragionare l'altro, vuole essere un po' più libero, ma prima sente il dovere di cambiare le cose. L'angelo ha capito, però nei suoi occhi scuri è riflessa la terrificante certezza che mai nessuno l'ascolterà. Un ghigno ne storce fulmineo le labbra sottili, come una fitta l'attraversa l'idea di divertirsi e basta, alla faccia di chi non capisce. Le cose resteranno come sono, ma Lucifero se la spasserà.
E come vivacchiano nell'Ariesha?
Il quartier generale è disordinato. Esseri deformi si aggirano sbraitando ordini e lamentele. Lavorano, lavorano, lavorano. Anche nella stanza del capo si lavora. Si tratta di un individuo tarchiato, dalla pelata lucida. Le mani grassocce spuntano da una vestaglia blu mentre su quello che chiameremo viso ha solo un grande occhio. Da alcuni è chiamato Sommo Bene, da altri Schiavo. È obbligato a servire la Grande Giustizia, entità superiore che si dice risieda nell'Ickrim, situato più sopra rispetto all'Ariesha. Nessuno l'ha mai vista, ma chi non crede in lei viene considerato eretico. "È nell'Ickrim che andremo alla fine", dicono tutti, "lì troveremo la pace eterna".

Con questo pensiero fisso quello vestito di blu sopravvive mentre da millenni governa L'Etere. Pare che nell'Etere si aspiri all'Ariesha con entusiasmo e speranza: "Che stupidi", pensa quello vestito di blu, "loro sono ignari di tutto, al contrario di me". Ormai da anni quello vestito di blu fa giustiziare i miscredenti che ritengono inutile sottostare alla Grande Giustizia, che vogliono un po' di libertà. Si è stufato di essere assillato da loro.
Le cose resteranno come sono mentre nell'Ickrim la Grande Giustizia, o Schiava, si illude con i suoi impiegati senza spassarsela nemmeno un pochino.



Alessandra Chiara Mansueto
Sono nata a Milano nel 1995. Racconto storie un po' pazze da sempre, il mio primo personaggio si chiamava Ponchio ed era un gatto cattivello (perdonatemi, ma avevo solo tre anni).
La mia passione mi ha portata a intraprendere studi classici, a pubblicare racconti già da qualche anno e a dedicarmi alla psicologia sociale e alla narrativa. Sto completando la mia prima raccolta di racconti. Punto forte: la fantasia.
Canto jazz e il mio sogno è di trovare un ragazzo che mi porti a ballare lo swing. Spero di vivere fino all'invenzione della macchina del tempo. Particolarità: parlo coreano.


mercoledì 21 febbraio 2018

Lo spirito della pineta / Le ombre del bosco danzavano sui nostri visi



Lo spirito della pineta

Le ombre del bosco danzavano sui nostri visi

23 APRILE 2015, 
ALESSANDRA CHIARA MANSUETO

Era maggio, il sole primaverile rideva e mi schiacciava la testa. Camminavo in un vialone larghissimo pieno di negozi. Mi scontravo con la folla cercando un posto dove comprare una qualsiasi cosa carina, ma allo stesso tempo non volevo proprio entrare da nessuna parte. Presa dal panico mi addossai al muro, tentando la fuga. Finii chissà dove, schiacciata tra la gente carica di sacchetti e barboni accasciati a terra. Sospirando mi guardavo attorno. Sul pavimento, seduto a gambe incrociate, notai un ragazzino con i capelli verdi e gli occhi bruni. Sembrava perso quanto me, e proprio per questo pensai di chiedere a lui qualche indicazione: "Scusa, sai dove siamo?"
"Oh, ho l’impressione che qui ci fosse una pineta", rispose muovendo le sopracciglia folte.
"Che vuoi dire?"
"Sono un po’ confuso, casa mia è sparita".
"Chi sei?"
"Ecco, non ne sono più sicuro ormai".
"Dove vivevi?"
"Crescevo con gli alberi".
"Ripartiamo da zero: come ti chiami?"
Mi chiamavano spirito della pineta… della pineta… non ricordo più il nome della pineta", si rabbuiò.
"Quanti anni hai? Non hai una famiglia?"
"Ho vari anni. La famiglia non so, ma avevo le gocce di rugiada e gli aghi e le pigne odorose di resina... ".
"Se qui c’era una pineta, l’hanno di sicuro abbattuta per costruire la città", risposi.
"Devo ritrovare la mia pineta!" pianse il ragazzino.
Gli porsi la mano: "Per prima cosa alzati".

Non appena le nostre dita si sfiorarono sentii il corpo fresco, come inondato di una brezza leggera, e rividi me bambina, saltare sotto i pini nelle chiazze di sole. Sentivo le lacrime raccogliersi nei miei occhi, emozioni dimenticate rinverdire in un istante. Il ragazzino mi sorrise. "Ci… conosciamo?" chiesi io. Socchiuse le labbra: "Meno male", rise, "che qualcuno si ricorda di me". E la sua risata era cristallina, dolce, disumana. Mano nella mano cominciammo a camminare. Era strano: mi pareva di tenere allo stesso tempo la mano di mio figlio, di mio padre, del mio ragazzo, di mio nonno, e persino dei miei antenati sconosciuti.
"Dove stiamo andando?" mi chiese a un certo punto. Io mi riscossi: "Boh, che si fa?". Poi mi ricordai di avere il cellulare in tasca: "Aspetta, controllo su internet". Scoprii che il parco più vicino era a quattro fermate di metrò. Il ragazzino mi fissava. "Ok, fidati di me" dissi, e lo condussi sotto terra. Lui stava in silenzio e gli sudava un po’ la mano. Dopo poco eravamo davanti ai cancelli del parco. Il ragazzino mi lasciò la mano e corse dentro, io lo seguii. Il sole era così bello tra le foglie e sui fiori! L’aria diversa, come per magia. Il ragazzino carezzava il tronco di un castagno, mi avvicinai sorridendo. Lui si voltò: "Chissà se ci sono dei pini… ". "Beh, penso di sì. Ma se vuoi posso cercare su internet la pineta più vicina. So che nessun posto sarà mai come la tua pineta però… ". "Oh, per ora voglio stare un po’ qui", m’interruppe sovrappensiero. Le ombre del bosco danzavano sui nostri visi.



Alessandra Chiara Mansueto
Sono nata a Milano nel 1995. Racconto storie un po' pazze da sempre, il mio primo personaggio si chiamava Ponchio ed era un gatto cattivello (perdonatemi, ma avevo solo tre anni).
La mia passione mi ha portata a intraprendere studi classici, a pubblicare racconti già da qualche anno e a dedicarmi alla psicologia sociale e alla narrativa. Sto completando la mia prima raccolta di racconti. Punto forte: la fantasia.
Canto jazz e il mio sogno è di trovare un ragazzo che mi porti a ballare lo swing. Spero di vivere fino all'invenzione della macchina del tempo. Particolarità: parlo coreano.


domenica 18 febbraio 2018

Frank il quasi zombie / Perdendosi in ore e ore di vuoto...

Scheletri nella nebbia

Frank il quasi zombie

Perdendosi in ore e ore di vuoto...

23 MARZO 2015, 
ALESSANDRA CHIARA MANSUETO

Frank cantava come un ubriaco triste nella notte tempestosa. Ma ubriaco non era, poiché l’alcol non fa effetto a chi ha solo ossa. S’era risvegliato pochi giorni prima. Con le ossa aveva scavato nella terra dove un tempo l’avevano seppellito. Quando finalmente era uscito, le campane suonavano la mezzanotte. La prima cosa che aveva fatto era stato alzare le orbite oculari al cielo: la Luna… la Luna! Era grande, quasi piena.
Da quanto tempo Frank non vedeva la Luna? Avrebbe voluto piangere, ma si accorse che non poteva. Difficile piangere senza un apparato lacrimale. Si era guardato le mani, le braccia, le gambe… era tutto ossa. Devo essere morto da un po’, aveva pensato con un poco d’amarezza. S’era guardato attorno: dalle altre tombe erano usciti esseri umani mezzi decomposti, ma almeno non privi di sostanza, non privi di carne! S’era avvicinato al suo vicino di tomba: "Scusi, lei dev’essere il signor… James, sa che sta succedendo?" aveva chiesto leggendo premurosamente il nome del signore sulla sua lapide, per ricordargli chi era senza farglielo pesare nel caso l’avesse dimenticato. Ma James, di certo un gran maleducato, l’aveva schivato senza degnarlo di uno sguardo. Frank stava per protestare quando aveva pensato: "Povero signore! Ha gli occhi, ma probabilmente è quasi cieco come un neonato. E le orecchie di certo non funzionano bene, ecco che succede a non usarle per troppo tempo…". Allora Frank aveva deciso di andare in città per vedere cosa succedeva, che anno era e così via. Con sua grande sorpresa tutti gli zombie avevano cominciato a seguirlo. Forse essendo appena nati (beh, rinati) avevano bisogno di una guida, di una madre da seguire come gli anatroccoli. Ma ben presto Frank dovette rendersi conto che non seguivano lui, bensì il loro grande appetito di cervelli umani.
In città Frank, abbandonato per forza di cose il ruolo di guida dei rinati, aveva deciso di salvare dalla morte qualche essere umano nato una sola volta. Con grande coraggio aveva afferrato un manico di scopa e aveva dato una botta in testa a uno zombie che tentava di mangiare una ragazza, rintronandolo un po’. La ragazza aveva urlato: "Ammazzalo! Ammazzalo!". "Ma signorina," aveva risposto Frank, "si tratta pur sempre di un essere umano". Allora la ragazza gli aveva strappato il manico di scopa e aveva cercato di fracassare il cranio del povero zombie, ma Frank l’aveva fermata. A quel punto lei l’aveva guardato meglio: "Pazzo! Ti travesti da scheletro in un momento come questo? In cui i mostri sono dappertutto? Tu non hai cervello!". "E infatti non ce l’ho cara, mi sono risvegliato con questi… signori, ma senza carne". Allora la ragazza aveva strillato: "Muori, morto!" e gli aveva spaccato l’ulna. Frank era dovuto scappare via portandosi dietro il pezzo staccato. Però non aveva rinunciato a urlarle: "Penso che dato lo stato attuale delle cose, bisognerebbe ridefinire il concetto di morto!". Per fortuna nel caos generale aveva trovato della colla per tutte le superfici e si era riparato il braccio.
Ora Frank era solo. Era stato l’unico nei dintorni, e probabilmente in tutto il mondo, ad essersi risvegliato senza carne, senza stomaco, senza cervello, senza cuore. Non poteva unirsi agli zombie nella degustazione di cervelli. E non poteva neppure godere della compagnia dei nati una sola volta, che certo avevano cervelli freschi, ma spesso non li usavano. Però la tragedia più grande, più terribile, più insopportabile, era che non poteva aspettare con calma la fine dei tempi facendo razzia nei supermercati e rimpinzandosi di schifezze.
Perdendosi in ore e ore di vuoto Frank aveva cominciato a ricordare la sua vecchia vita. I ricordi lo prendevano come una marea, inondandolo di emozioni passate, ma così forti che a momenti si illudeva di avere ancora un cervello per pensare, un cuore per soffrire, delle lacrime da versare e delle labbra, per sorridere. Quei ricordi facevano parte di un altro mondo. Un mondo sparito molto tempo prima. Le memorie più dolci, e più tristi, erano quelle popolate da Giulia. Quante volte da vivo aveva combattuto le notti solitarie con quel nome sulle labbra… Giulia, quante volte aveva sperato di rincontrarla un giorno, oltre la vita e, ironia della sorte, oltre la carne. Invece non rammentava di essere passato per il Paradiso! Ma solo di essersi svegliato nel suo buco sotto terra. Frank era di nuovo solo, e questa volta per sempre. Giulia, lei… era scomparsa definitivamente dal mondo dei vivi. S’era fatta cremare. Del suo corpo non rimaneva che cenere sparsa al vento.
Molti nei panni di Frank si sarebbero disperati, e per un poco anche lui si lasciò andare; ma nella sua precedente vita aveva sofferto molto, e aveva imparato a farlo bene, era stato molto felice, e aveva imparato a godersi la felicità. Frank conosceva l’arte del vivere. Così, pur continuando a cantare canzoni tristi, cominciò a camminare. Il problema ora era trovare un’occupazione per passare il tempo: uno scopo, un progetto! Un giorno, per caso, entrò in un negozio di macchine fotografiche abbandonato: un po’ andando per tentativi, un po’ leggendo le istruzioni, imparò a usarle. Con un “sorriso” soddisfatto scelse di portarsi dietro una polaroid, tante pellicole e degli album da riempire. Camminando giorno e notte, ogni tanto remando, visitò e fotografò piramidi, templi buddisti, cascate spettacolari, anfiteatri, deserti, foreste, moschee, templi dell’Antica Grecia, grattacieli, castelli, fiordi, praterie, ghiacciai… Erano tutti occupati nella guerra e nessuno faceva caso a lui. Certo ogni tanto nelle foto apparivano cadaveri o zombie non molto fotogenici.
Frank perse la cognizione del tempo, e presto si ritrovò solo in un mondo deserto. A volte sentiva il vuoto nello sterno e si passava le dita tra le costole stringendo l’aria, disperato. Aveva girato tutto il mondo, per dimenticare la solitudine s’era concentrato sulla sua bellezza, ma senza fare nulla aveva lasciato che si svuotasse come un barattolo dove granchi prigionieri si uccidono a vicenda. Se si fosse sforzato di sicuro avrebbe trovato degli esseri umani comprensivi, o qualche bel gatto, e forse avrebbe potuto salvarli dai veleni andati fuori controllo durante la guerra. Ma Frank non poteva biasimarsi troppo: "Dopo tutto," si disse, "anch’io sono solo un essere umano". Though I've walked alone down this cold and soulless road, I've always felt you deep in my bones… cantava Frank camminando piano al chiaro di Luna.
Giunse in un vecchio laboratorio scientifico, prese tra le falangi le provette colme di microrganismi e sparse nuova vita per tutto il pianeta. In miliardi di anni nuove specie sarebbero nate, cose magnifiche sarebbero accadute. Frank sapeva e poteva aspettare: nel frattempo aveva da leggere, imparare e osservare tutto ciò che gli esseri umani avevano scritto, inventato, scoperto e creato. E di sicuro sarebbe riuscito, in tutto quel tempo, a scoprire o creare qualcosa anche lui.



Alessandra Chiara Mansueto
Sono nata a Milano nel 1995. Racconto storie un po' pazze da sempre, il mio primo personaggio si chiamava Ponchio ed era un gatto cattivello (perdonatemi, ma avevo solo tre anni).
La mia passione mi ha portata a intraprendere studi classici, a pubblicare racconti già da qualche anno e a dedicarmi alla psicologia sociale e alla narrativa. Sto completando la mia prima raccolta di racconti. Punto forte: la fantasia.
Canto jazz e il mio sogno è di trovare un ragazzo che mi porti a ballare lo swing. Spero di vivere fino all'invenzione della macchina del tempo. Particolarità: parlo coreano.

giovedì 15 febbraio 2018

Il lungo viaggio verso un grande sogno / Due pance piene d’emozione in un cielo immenso



Il lungo viaggio verso un grande sogno

Due pance piene d’emozione in un cielo immenso

23 GENNAIO 2015, 
ALESSANDRA CHIARA MANSUETO

Mentre Astaroth tramontava, il cielo si faceva scuro per Peter: il pianeta che la mamma gli aveva lasciato in eredità sarebbe sparito per dieci anni dalla sua vista, la speranza sarebbe stata lontana dai suoi occhi e dal suo cuore. Peter godette dell’ultimo spicchio di Astaroth come una lucertola gode dell’ultimo sole in una sera d’estate, poi chiuse gli occhi. Sentì il suo cuore farsi triste e forte allo stesso tempo: "Partirò per Astaroth," disse. Aprì gli occhi. L’assalì il pensiero che se non si fosse mosso subito non avrebbe avuto un futuro. "Partirò per Astaroth," ripeté come pronunciando un voto, e corse verso il quartiere commerciale.
Nella vecchia officina arrugginita Peter batté le mani sul tavolo: "Aiutami a costruire un’astronave Nate, ti prego". Nate rise e i suoi baffi biondi vibrarono in modo buffo: "Non si costruiscono astronavi su questo pianeta".
"Ti prego! Tu sei l’unico ancora in grado di farlo."
"Ti costerà caro."
"Pagherò lavorando per te."
"Dovresti lavorare tutta la vita."
"Lavorerò anche di notte!"
Gli occhi di Nate brillarono: "I principi decaduti fanno di tutto al giorno d’oggi. Comincerai domani."
Peter si sporse sul tavolo: "Grazie!"

Quella notte Peter non riuscì a dormire: sognava e immaginava il suo futuro come una confusa, sfumata serie di immagini misteriose e magnifiche. Forse ad Astaroth sarebbe stato un vero principe, o avrebbe trovato se stesso, forse avrebbe avuto una famiglia, oppure degli amici. Finalmente sarebbe tornato al luogo da dove, così gli era stato detto, veniva, ma allo stesso tempo sarebbe partito per l’ignoto, per un mondo da scoprire.
Il giorno dopo Peter lavorò instancabilmente, e solo a notte fonda, quando crollò esausto, si fermò. Così fece anche il giorno dopo ancora, e quello dopo ancora, e via via sempre lo stesso. Ogni tanto Nate lo aiutava a costruire un pezzettino di astronave, e Peter, speranzoso, lavorava. Passò un anno, e Peter era davvero stanco, ma continuò a lavorare.
Passò un altro anno e Peter lavorò instancabilmente. Dopo cinque anni solo un sesto di astronave era costruito, ma quante, quante aspirapolveri terrestri Peter aveva completate e vendute! Il ragazzo, sfiancato e soddisfatto dal lavoro, non aveva tempo di pensare cose del tipo: "Voglio partire per Astaroth! Ora!". Eppure anni prima l’aveva scosso il pensiero che se non si fosse mosso subito non avrebbe avuto un futuro. Ma un futuro l’aveva, perché ogni giorno i tre soli sorgevano, e anche se Astaroth non si vedeva la vita continuava. Lavorando Peter si era fatto degli amici con cui scherzava e si confidava.
Ormai era un esperto in materia di elettrodomestici terrestri, e non gli era più difficile svegliarsi la mattina presto per avvitare bulloni, riparare centrifughe, dipingere lavatrici. Anzi gli faceva piacere rendersi utile a schiere di persone sempre diverse (infatti nessuno riusciva più a fare a meno degli elettrodomestici). Peter aveva imparato ad apprezzare i piccoli piaceri quotidiani: la birra fresca della sera con gli altri operai, l’odore di pioggia nel cortile polveroso, il sole sul balcone la mattina, il profumo di lenzuola pulite.
Gli anni rotolavano pigri, così altri quattro ne passarono. Durante il decimo anno di lavoro Peter non era più un ragazzino, ma un uomo di ventotto anni. Ormai insistere perché un altro pezzo di astronave venisse costruito gli sembrava un capriccio infantile; aveva chiesto invece, con successo, di avere un salario fisso. Con l’esperienza aveva guadagnato del tempo, e ogni giorno poteva prendersi qualche ora di riposo. A volte la sera si sedeva sul muretto davanti le colline. Durante quei lunghi minuti di vuoto fumava una sigaretta e pensava. La vita a volte gli sembrava insensata, certo non da buttar via.
Un giorno, in una fresca serata primaverile, Peter uscì dall’officina, alzò gli occhi al cielo e vide Astaroth. Un’improvvisa malinconia afferrò il suo cuore, come quando torna a noi in un lampo un odore del nostro passato, inafferrabile nell’aria. Erano passati in un attimo quei dieci anni! Eppure ora ricordava quando dieci anni prima gli erano parsi un’eternità. Che aveva fatto per tutto quel tempo? A mala pena lo ricordava. Peter corse al cortile sul retro e si sdraiò nella polvere, il riflesso di Astaroth negli occhi spalancati e umidi. Il suo grande sogno era lì alto nel cielo, come aveva potuto dimenticarlo? La giovinezza era andata.
Nate stava controllando dei documenti quando decise di prendersi una pausa, si diresse così verso il cortile per sgranchirsi le gambe e guardare le stelle. Con grande stupore vide un uomo inginocchiato nella polvere, la testa tra le mani. Si carezzò perplesso i baffi grigi: era notte fonda, e nessuno avrebbe dovuto essere in officina all'infuori di lui. Nate s’avvicinò, s’accovacciò davanti all’uomo e gli diede un colpetto sulla spalla sinistra: "Che succede? Ragazzo, sei Peter vero?". Peter alzò gli occhi gonfi su di lui: "Guarda," bofonchiò indicando il cielo. Nate guardò, ma non vide nulla di straordinario. "Guarda" ripeté Peter indicando un punto viola fosforescente, "Astaroth."
"Ah giusto, il tuo pianeta."
"Sono passati dieci anni, l’astronave non è pronta, io non sono partito, sono vecchio…"
"Vecchio? Ragazzo mio, ma se non hai nemmeno trent’anni, riprenditi."
"Trenta tra poco, non realizzerò mai il mio sogno."
"Quasi quasi preferivo il ragazzino di dieci anni fa."
"Non sono più un bambino."
"No infatti," ridacchiò Nate, e tornò a lavorare.

Erano già passati dieci anni! I suoi baffi non erano più biondi, ma grigi, e aveva compiuto cinquant’anni da quasi due anni. Nate si guardò allo specchio e rise: "Caro mio, hai una crisi di mezz’età! Il primo passo è ammetterlo." Uscì di casa pensando a cosa potesse fare per divertirsi un po’ e dare un senso anche alla mezza età. Arrivato in officina vide Peter che lavorava borbottando come una teiera. Dopotutto il motivo per cui Nate aveva imparato a costruire le astronavi era che uno dei suoi sogni, un tempo, era stato viaggiare per l’Universo. Era stato prima o dopo rispetto a quando aveva imparato, o meglio, quasi imparato, a suonare la chitarra elettrica? Proprio non ricordava, ma doveva essere stato prima di aver comprato un pony per incrociarlo con l’ultimo rinoceronte nano e creare un mini-unicorno, che avrebbe spopolato più di un cd rock. Come era finito a vendere elettrodomestici terrestri? Nate di sogni ne aveva avuti, ne aveva, e avrebbe potuti averne un’infinità; così non aveva più pensato al viaggio nell’Universo e se n’era scordato. Ma in questo momento proprio un sogno gli serviva, e vedendo Peter riesumò quello dell’astronave. Preso da improvviso fervore si chiuse in laboratorio.
Peter, incuriosito dal fatto che per un’intera settimana Nate se ne fosse stato in laboratorio, decise di dare un’occhiata. E che vide! L’astronave costruita per tre quarti e Nate lì accanto a leggere un manuale sul tennis. Peter rimase a bocca aperta: "Nate… Finalmente" disse.
"Anche a te piace il tennis? Vorrei diventare bravino in una settimana per andare alle Olimpiadi della gente comune," rispose Nate sovrappensiero.
"Io parlavo dell’astronave."
"Giusto, l’astronave," rise Nate.
"Devi completarla subito! Ti prego!" tuonò Peter con una nuova ondata di calore in corpo. Si sentiva forte e appassionato, voleva combattere.
"Non so ragazzo, le Olimpiadi della gente comune sono tra una settimana…"
"Ti prego Nate! Ho aspettato così tanto! Lavorerò anche di notte se necessario!"
Nate rise di gusto: "Prima di tutto dovresti imparare a pilotare un’astronave..."
"Questa mi sembra una scusa, puoi insegnarmelo tu in qualsiasi momento."
"Vado a imparare da solo come si gioca a tennis nel mio ufficio, dove nessuno mi scoccia," lo salutò Nate uscendo dal laboratorio con il manuale in mano.

Peter sentì l’improvviso bisogno di fare qualcosa! Subito! Era arrabbiato e non voleva più sentirsi impotente, quindi frugò tra i libri e gli appunti di Nate finché non trovò un paio di tomi enormi: Costruire e Pilotare un’astronave 1 e 2, poi subito andò a comprare quattro begli evidenziatori di diversi colori per sottolineare. Dopo aver pranzato si chiuse in laboratorio e cominciò a studiare, ma solo la prefazione era lunga 20 pagine, e dopo averla letta saltando qualche pezzo Peter si sentì abbastanza soddisfatto da dirigersi alla macchinetta del succo di mango.
Angelica stava aspettando che il suo succo fosse pronto quando vide Peter: subito rimase colpita. Il ragazzo era radioso, contento, camminava impettito; eppure aveva passato gli ultimi giorni con un muso nero da far paura. "Che succede di bello?" gli chiese. "A breve partirò per Astaroth," rispose Peter, e aprendosi come un fiore le raccontò di tutti i suoi sogni, le sue speranze, i suoi errori e le sue paure. Angelica l’ascoltava con gli occhioni verdi spalancati. La vita di Peter le pareva una fiaba: un principe decaduto in cerca della propria identità, teso verso il cielo, pronto a volare verso il futuro ma intrappolato nella routine del mondo reale, come colpito da una maledizione… Angelica decise di amarlo e aiutarlo.
L’amore fu per Peter come un sogno tiepido e inconsapevole che poco alla volta diviene vero, grande e inarrestabile. A momenti dimenticava ogni altra cosa. Ma secondo Angelica era importante estendere al mondo e alla vita interi la nuova grande capacità di amare risvegliata da una passione erotica che era sì bellissima, ma anche troppo caduca e limitata per divenire il suo modo di interpretare la vita. Così lei e Peter fecero pratica nell’amare se stessi, il mondo e la vita (anche se ogni tanto, come è normale, avrebbero giurato di odiare se stessi, il mondo e anche la vita.)
Angelica un giorno annunciò a Peter che aspettavano un bambino, lui si scoprì molto felice. Ormai avevano imparato a prendersi cura l’uno dell’altra ed erano fiduciosi che sarebbero stati capaci di amare anche una terza persona. Comprarono una casa vicina al centro e si divertirono ad arredarla in attesa del bebè. Nacque una bambina, Kate, con gli occhi verdi di Angelica e i capelli neri di Peter. Peter le voleva molto bene e lo emozionava vederla crescere e crescere con lei. "Tanto Astaroth mi aspetta," pensava ogni tanto. Dopo qualche tempo Angelica gli fece trovare i manuali Costruire e Pilotare un’astronave 1 e 2 sul comodino. Peter, giorno dopo giorno, li studiò con pazienza.
Peter finì di costruire l’astronave al momento giusto: quando Kate aveva poco più di diciassette anni ed era dunque abbastanza matura per capire che anche i padri hanno i loro sogni. In realtà Peter l’avrebbe completata prima se la scomparsa sospetta di qualche componente non l’avesse rallentato... Chiese ad Angelica e a Kate di partire con lui, ma Kate non voleva lasciare la scuola e Angelica era occupata nello sviluppo di un nuovo tipo di combustibile sostenibile. Angelica a momenti non voleva che Peter partisse, ma per restare coerente a sé stessa decise di sfogare l’impulso “sabotare sogno altrui” nell’operazione “festa di buon viaggio”. Kate, che all’inizio era triste e arrabbiata, disse a suo padre: "Torna presto, la prossima volta verrò con te."
Peter indugiò qualche mese, perché andando via avrebbe abbandonato la sua vita, faticosamente e amorevolmente costruita in tutti quegli anni. Ma sapeva che non partire avrebbe significato rinunciare definitivamente a una parte della sua storia altrettanto importante, sognata così a lungo da non poter essere ignorata.
Conclusi gli ultimi preparativi Peter e Nate partirono: due pance piene d’emozione in un cielo immenso.
Dunque se prima o poi volete realizzare i vostri sogni:
1. Appuntateli nel cervello con un bel pennarello brillante.
2. Aspettate che abitando a lungo nella vostra testa si trasformino in veri e propri bisogni.
3. Mettetevi comodi: il viaggio comincia prima della partenza, dura molto e conviene goderselo.




Alessandra Chiara Mansueto
Sono nata a Milano nel 1995. Racconto storie un po' pazze da sempre, il mio primo personaggio si chiamava Ponchio ed era un gatto cattivello (perdonatemi, ma avevo solo tre anni).
La mia passione mi ha portata a intraprendere studi classici, a pubblicare racconti già da qualche anno e a dedicarmi alla psicologia sociale e alla narrativa. Sto completando la mia prima raccolta di racconti. Punto forte: la fantasia.
Canto jazz e il mio sogno è di trovare un ragazzo che mi porti a ballare lo swing. Spero di vivere fino all'invenzione della macchina del tempo. Particolarità: parlo coreano.

mercoledì 14 febbraio 2018

Ogni giorno è un nuovo inizio / Essere favolosi sempre




Ogni giorno è un nuovo inizio

Essere favolosi sempre

23 NOVEMBRE 2014, 
ALESSANDRA CHIARA MANSUETO

In una sera d’inverno, mentre fiocca la neve, nasce una grande sognatrice: la piccola Eleonora. Con le manine paffute mima navi, gatti e principesse; a volte corre e apre le braccia come per volare; e ai giardini pubblici cammina in tondo immaginando scene drammatiche per imparare a piangere a comando.
Eleonora cresce e scrive tante storie, ma nessuna di esse finisce; non riesce a scrivere nemmeno un finale, così spesso dice a se stessa: "Quando sarò pronta i finali verranno da soli, come vengono gli inizi". Eppure gli anni passano senza che i finali arrivino. In compenso gli inizi continuano a nascere numerosi e fragranti come biscotti appena sfornati, caldi, carichi di promesse. Le fiabe di Eleonora nascono con lei, crescono con lei, vivono con lei… forse scriverle fino in fondo significherebbe morire?
Eleonora compirà presto vent’anni, e vorrebbe che qualcuno leggesse i suoi racconti. Ma nessuno vuole perdere tempo con una storia incompleta: "Come va a finire?" chiedono un po’ irritati. Eleonora è in ansia! Vuole essere compresa, apprezzata, e comincia a pensare che i finali non arriveranno mai, che lei stessa non concluderà mai nulla! Mai, mai, mai… Prima tutto poteva succedere, ora sembra che semplicemente non accadrà mai niente. Da un infinito numero di possibilità a un vuoto senza capo né coda, senza inizio né fine. Le parole scivolano dai fogli e perdono significato: la strega delle colline, il drago Rosellino, il vecchietto grassottello, lo zombie narcisista... ormai appaiono tutti uguali, perché nessuno di loro sa cosa vuole, o cos’è giusto, o qual è la meta, insomma come si compirà la sua storia.
Inutile dirlo, nemmeno Eleonora sa dove andrà a parare la sua vita. Anche se potrebbe sembrare un’eterna sognatrice lei ha una vita reale, concreta, una storia tutta sua. La vita di Eleonora è nello stesso mondo dove viviamo noi, e non in quello delle favole, ma riesce ad essere favolosa. Eleonora è triste in modo favoloso, felice in modo favoloso, passionale in modo favoloso, malinconica in modo favoloso, arrabbiata in modo favoloso, stressata in modo favoloso, annoiata in modo favoloso e così via. Basta un po’ di fantasia per avere una vita favolosa. Ma per trovare un fine alla vita non basta la fantasia! La fantasia di fini ne trova un milione! E nessuno è quello giusto, l’inconfondibile, il sogno, la fine, THE END.
Passa del tempo, ormai persino i nuovi inizi hanno smesso di arrivare. Certo: che senso avrebbe cominciare nuove storie senza senso? Come non ci sono fini non ci sono inizi. Ma Eleonora vuole uscire da questo stato di stallo grigio come il nulla, così prende una decisione definitiva: deve trovare dei finali per i suoi racconti. Se questo significherà morire, allora morirà.
Eleonora parte per un lungo viaggio: lo chiama solennemente “Alla ricerca della fine”. Ogni giorno dovrà recarsi in un posto nuovo, scoprirlo, e comunque esso sia trovare lì il finale per uno dei suoi personaggi. Ogni giorno una storia conclusa. Per forza! In questo modo il destino delle fiabe sarà un po’ in mani sue, un po’ in quelle del caso.
Il primo giorno Eleonora decide di andare in un’erboristeria vicina casa dove non era mai entrata. Il commesso è un uomo gentile che maneggia creme, tisane e oli essenziali come fossero piccoli tesori. "In questo posto verrà a lavorare la strega delle colline," decide Eleonora. È molto soddisfatta, anche se forse la strega pensava di essere destinata a qualcosa di più pazzesco (ma Eleonora non ha né i soldi né il tempo di visitare New York o un antico tempio buddista).
Poi Eleonora ragiona un attimo e le viene in mente che questa non è davvero una fine! Potrebbe essere un… nuovo inizio? Che combinerà la strega nel negozio? Aggiungerà della magia ai prodotti per regalare un po’ di felicità ai clienti? O li incanterà per farsi pagare il doppio? Cambierà il colore delle pareti? Ora sono verdi, ma forse un bel color pesca sarebbe più caldo e accogliente. Insomma è una fine fasulla, perché una fine vera non esiste! Non esiste! Anche se la strega delle colline un giorno dovesse morire (cosa che probabilmente accadrà), una sua particella potrebbe diventare parte della prima capra su Marte, e poi alla morte della capra potrebbe essere mangiata da un microbo marziano e dopo qualche tempo ritrovarsi nel corpo di un alieno! E così via.
Eleonora, resa euforica dalla sua nuova intuizione, saltella verso casa. "Ma alla gente andrà bene un finale del genere? Non penserà che andare a lavorare in un’erboristeria non porta alla fine di nulla?" si chiede in un attimo d’insicurezza. Fa una prova e scopre che i suoi coinquilini Maria e Riccardo non si accorgono che la fine è finta e sono contenti: "Brava," le dicono, "è un racconto molto carino. Finalmente gli hai dato un senso." Eleonora sorride tra sé e sé: ha imbrogliato tutti. Ora la strega delle colline è libera di continuare a vivere giorno per giorno, ed Eleonora ha la sua storia da condividere. Finalmente qualcuno potrà apprezzare le sue fiabe, spaccati di vita quasi sensati, di sicuro favolosi.
Il lungo viaggio di Eleonora è durato un solo giorno, perché vivendo è impossibile cercare la fine; inoltre iniziare qualcosa è più divertente che finirla. È dunque naturale che spesso non concludiamo nulla e per tirarci su di morale diciamo: "Ogni giorno è un nuovo inizio!"



Alessandra Chiara Mansueto
Sono nata a Milano nel 1995. Racconto storie un po' pazze da sempre, il mio primo personaggio si chiamava Ponchio ed era un gatto cattivello (perdonatemi, ma avevo solo tre anni).
La mia passione mi ha portata a intraprendere studi classici, a pubblicare racconti già da qualche anno e a dedicarmi alla psicologia sociale e alla narrativa. Sto completando la mia prima raccolta di racconti. Punto forte: la fantasia.
Canto jazz e il mio sogno è di trovare un ragazzo che mi porti a ballare lo swing. Spero di vivere fino all'invenzione della macchina del tempo. Particolarità: parlo coreano.


venerdì 9 febbraio 2018

Una domenica a spasso per Bogotá / Una città dallo spirito ecologico e intellettuale

Mapa Teatro
Bogotá, 2018
Foto di Triunfo Arciniegas


Una domenica a spasso per Bogotá

Una città dallo spirito ecologico e intellettuale

19 DICEMBRE 2017, 
RICCARDO GALLINO

Uno sciame di ciclisti invade senza sosta il lungo viale lastricato di nuovo, evitando con maestria una schiera di runners, skater e famiglie con bambini attirati da artisti di strada, venditori ambulanti e sessioni di ballo improvvisate, mentre un timido sole fa capolino da una schiera di nubi che minacciano pioggia da dietro le montagne. Sembrerebbe la descrizione di una canonica mattinata domenicale in una qualsiasi metropoli europea, ma di fatto ci troviamo in sud America, a Bogotá.
La capitale della Colombia, associata dai più alla sua storia passata di guerriglia e narcotraffico, si mostra invece città dallo spirito ecologico e sportivo, intellettuale e tecnologico. La "Candelaria”, il centro storico, viene chiuso al traffico risultando una spaziosa area ciclo pedonale lungo tutta la Carrera 7, il viale principale, dalla piazza Bolivar alla imponente Torre Colpatria, catalizzando l'interesse dei cittadini che utilizzano la domenica per scendere in strada spensierati. Moderne biciclette scorrono ovunque, con i relativi proprietari più appassionati protetti con tute sgargianti e caschetti tecnici, e con lo stesso mezzo si muovono con agilità tra la folla poliziotti o paramedici preposti al controllo della sicurezza. A riprova che le due ruote sono il mezzo di locomozione principale, a lato strada sostano carretti adibiti a vendita di ricambi o riparazione estemporanea delle biciclette: una semplice foratura non può rovinare una così bella mattinata.
A lato dei ciclisti si muovono, più lenti ma non meno motivati, stormi di runner che affrontano i dislivelli tra le strade che circondano la grande Piazza Bolivar, dominata dal Palazzo della giustizia e dalla Catedral Primada. Parallelamente agli sport più fisici si ritagliano spazio sfide agonistiche dal taglio più intellettuale: sono numerosi e ben distribuiti lungo tutto il centro storico tavoli attrezzati con scacchiere dove nascono tornei improvvisati per tutte le età, mentre magari poco lontano solo i più giovani vengono catalizzati dalle dimostrazioni tecnologiche a base di realtà virtuale.
L'anima intellettuale della città si dimostra grazie alle numerose installazioni fisse espositive a cominciare dal centralissimo Museo de Oro, dove tutta la storia del paese viene riletta in funzione del metallo prezioso, continuando per i vari musei archeologico o della civilizzazione, più defilati ma non meno interessanti, che si aprono gratuitamente al pubblico domenicale nelle vicinanze della nuova e grande biblioteca Luis Angelo Arango. La lettura è altra passione tipica della città, come testimoniano le ricche librerie e i numerosi mercatini di libri usati che popolano le piazzette nei giorni di festa.
La vena creativa dei colombiani si dimostra ulteriormente a tutti i livelli, partendo dagli artisti di strada improvvisati, travestiti con costumi autocostruiti dalle fogge che spaziano dal robotico al fantastico che però difficilmente si sposano con lo stile architettonico cittadino finendo per regalare solo qualche nota di acceso colore, arrivando a rappresentazioni improvvisate di compagnie di attori o ballerini, che sfruttano la strada come loro palcoscenico privilegiato. Coloratissimi e di generose dimensioni sono anche i molteplici murales che coprono intere facciate di palazzi e recinzioni, ma con soggetti che in questo caso si richiamano alla tradizione sudamericana.
A Bogotá' trovano inoltre esposizione permanente, nel museo a lui dedicato, le opere del pittore e scultore Botero, originario di Medellin, e talvolta alcune statue vengono posizionate nella piazza Bolivar divenendo attrazione principale e interattiva per locali e turisti. Per tutta la città si respira un clima festoso e rilassato grazie anche alla presenza massiccia di legioni di poliziotti con appariscenti pettorine ad alta visibilità, deterrente anche per i senzatetto che vivono di espedienti, la cui presenza finisce per svelare le problematiche di povertà e disagio da cui nessuna metropoli potrà mai svincolarsi.
Spendendo l'intera giornata tra sport e musei, scacchi e spettacoli si arriva celermente alla sera, quando il buio scende velocemente e lo skyline urbano ci saluta con un tripudio di colori proiettati dalla Torre Colpatria, illuminata da imponenti strisce di led che regalano una dinamica scenografia: dopo un giorno cosi intriso di attività è l'augurio per una notte altrettanto movimentata, sempre nel centro di Bogotá.
Riccardo Gallino
Riccardo Gallino nasce nella prima metà degli anni '70 a Vigevano (PV), dove vive ancora oggi. “Ingegnere a tempo perso, creativo a tempo pieno”, dopo aver esercitato l'attività di progettista mette a frutto la specializzazione in architettura virtuale realizzando scenografie digitali per lungometraggi, cinema indipendente e teatro. Appassionato di fotografia di reportage esplora in pochi anni più di 80 paesi in tutto il globo, guidando anche spedizioni come tour leader per diverse agenzie specializzate in viaggi avventurosi. Innamoratosi del contenente africano si è certificato come guida safari per paesi dell'Africa australe, perfezionandosi parallelamente anche come guida per i paesi artici. Praticando da sempre attività orientate all'oudoor e sport estremi ha organizzzato nell'ottobre 2016 la spedizione "Kalimantan 2016", che ha attraversato il Borneo indonesiano lungo 2000 km di navigazione fluviale e 100 km di cammino in foresta riaprendo una via quasi dimenticata, percorsa nel 1978 da Alfonso Vinci e nel 1986 da J. Palkiewicz.