sabato 21 ottobre 2017

George Saunders esplora i legami Il padre, il figlio e il dolore dell’addio


George Saunders esplora i legami
Il padre, il figlio e il dolore dell’addio

L’opera ha consacrato lo scrittore texano come un grande della letteratura americana
La veglia del presidente Usa sulla salma del bimbo, prima che l’anima voli verso l’aldilà

Marco Missiroli
20 agosto 2017 (modifica il 29 agosto 2017 | 21:14)


Un padre, e suo figlio. Un padre disperato, presidente degli Stati Uniti, e suo figlio che muore a undici anni e si trova confinato in un purgatorio. È questo, Lincoln nel Bardo (Feltrinelli), il romanzo di George Saunders che consacra l’autore statunitense come uno dei grandi della letteratura contemporanea. Leggerlo è lasciare questa terra, approdando in una landa di mezzo — il Bardo secondo la filosofia tibetana — in cui le anime transitano finché si è pronti a distaccarsi dal mondo dei vivi.

Saunders ha scritto la sua meraviglia, permettendo al lettore un viaggio verso Abramo Lincoln, l’uomo privato, e Willie, il suo ragazzo che è già un ometto saggio e un punto di riferimento per tutti. Il rischio sarebbe stato un romanzo storico su una vicenda conosciuta, invece l’autore texano fa qualcosa di eccezionale: «scompone» la narrazione in più voci — i due protagonisti e le altre presenze del Bardo — ricostruendo i fatti e l’amore invisibile. Il risultato è un mosaico di testimonianze che aiutano Willie nel trapasso, mettendosi al servizio di Abramo attraverso piccoli segni che fanno arrivare ai vivi. Un romanzo corale, dunque, che unisce per l’ultima volta un papà e la sua creatura. Non è una Spoon River, nemmeno un esperimento drammaturgico, è qualcosa di indefinibile e l’effetto finale è la rivelazione sentimentale: siamo i padri e siamo i figli, siamo il loro legame.

Negli Stati Uniti il romanzo è stato accolto come un capolavoro, George Saunders prima di scriverlo l’ha pensato per venti anni, «cercando di evitarlo. Negli anni Novanta avevo sentito un aneddoto su Lincoln, colpito dal dolore per il lutto, che era entrato nella cripta di suo figlio e, a quanto pare, aveva abbracciato il suo corpo. Il materiale mi spaventava — soprattutto mi sembrava che richiedesse di essere trattato con molta serietà. Così, ho continuato a rimandare. Un giorno del 2012 — avevo appena finito Dieci dicembre e stavo aspettando che uscisse — ho pensato che voltarmi dall’altra parte sarebbe stato come una specie di resa artistica. Così mi sono detto, “Oh, che cavolo, un po’ di cose le ho fatte. Se fallisco in questa, chi se ne importa?”».

La sfida di Saunders era trovare una forma che riverberasse la freschezza della vita, che spazzasse via la noia e desse verosimiglianza. Ce l’ha fatta, dopo qualche pagina di spaesamento, il lettore va incontro a una epifania narrativa e a una discesa nelle profondità dell’animo. È un libro pregno di simbolismi e di prospettive orientali, gli studi sul buddhismo di Saunders lo hanno condizionato anche nell’immaginare il Bardo come incipit di tutto: «Era un punto di partenza. Adoro l’idea, per esempio, che qualsiasi cosa saremo nella morte somiglierà a chi siamo adesso e che l’attaccamento ci possa precludere l’ingresso in Paradiso, magari che il nostro pensiero e i nostri processi attuali s’ingigantiscano dopo la morte. (Beh, non è che io ami quest’idea, ma mi sembra interessante — e terrificante —). Da questo punto di vista sono partito da alcune idee tibetane di base ma poi ho osservato il testo stesso per capire che tipo di luogo voleva essere. In questo senso, era molto simile a scrivere una storia di fantascienza. Le regole interessanti non sono quelle che uno pensa all’inizio, ma quelle che si rivelano via via che si scrive. E si rivelano attraverso le azioni e le conseguenze».

Lincoln nel Bardo è un canto alla vita, dedicato alle sue imprevedibilità, anche per il narratore che l’ha scritto. «Era tutto molto misterioso e meraviglioso: i personaggi finivano improvvisamente in situazioni in cui dovevano decidere se restare egoisti o crescere. E continuavano a decidere di crescere, non necessariamente perché lo volevo io, ma perché era più drammatico, più vivo. E allora... li ho lasciati fare». In che modo li abbia lasciati fare è un altro capitolo importante di come lavora questo scrittore che cambia ogni volta la sua officina narrativa: «Scrivere Lincoln nel Bardo è stata sinceramente un’esperienza molto bella — avevo sentito gli scrittori dire che i loro libri si scrivevano da soli e così via, e pensavo fosse tutto assurdo. Ma in questo caso, tutte le mattine io mi avviavo un po’ pigramente verso la rimessa in cui scrivo e una volta arrivato... succedeva qualcosa di potente. Niente di mistico, ma mi ritrovavo ad avere opinioni molto forti e mi muovevo con certezza, sapendo sempre (beh, quasi sempre) se una cosa era buona o cattiva. Non era proprio come “scrivere sotto dettatura”, ma non avevo molte incertezze, né mi capitava di perdermi lungo la strada. Sapevo cosa mi piaceva — credo di poterlo dire così — e questo rendeva la scrittura molto divertente».

Come per Dieci dicembre (edito in Italia da minimum fax nel 2013), Saunders ha messo al servizio della storia un modo di sentire diverso, sia dei personaggi sia del narratore, innescando un meccanismo unico. Qui si nota la formazione scientifica dell’autore texano, che cuce sapientemente la matematica del plot e le sommosse dell’anima. La commozione è il sintomo di questo libro, che è anche ironico, sfrontato, ma che non dimentica mai la lacerazione tra un figlio e un padre. Per essere più realista possibile, Saunders si è documentato su alcune fonti del tempo, risalendo a dichiarazioni dell’entourage di Lincoln riguardo al lutto del presidente. Lo stesso è avvenuto per ritrarre il bambino, «un piccino tanto bravo, quasi saggio», che colpì anche Napoleone III in visita alla Casa Bianca. È l’esigenza di essere fedele alla Storia durante la lotta più feroce: l’accettazione della morte. Di più: l’inferno della mancanza. Qui Willie diventa genitore del genitore, padre mio, non piangere, sono qui accanto a te. La preghiera è soltanto questa e traccia un bivio per tutti, dimenticare chi non c’è più o farlo vivere in noi. Saunders va oltre, e indaga lo spazio e il tempo oltre la perdita. Si parla di fantasmi? Mai e poi mai. Si parla di noi.

George Saunders


È il senso di divertimento che scalfisce i personaggi, anche dopo il trapasso rimangono impertinenti e terreni, sempre poetici. Come se Saunders avesse scoperto sì una nuova forma del racconto, ma anche una nuova consapevolezza di chi racconta. «Qualche volta paragono lo scrittore a un giocoliere che costruisce i suoi birilli per poi lanciarli in aria. La seconda parte di una storia consiste nel ricordare quali birilli abbiamo lanciato e poi riprenderli, con un po’ di fantasia. Con questo libro mi sembrava che i birilli si moltiplicassero in aria: quelli che venivano giù erano molti di più di quelli che io avevo lanciato. E quando arrivava il momento di riprenderli, sembrava che a me crescessero nuove mani».


Saunders giocoliere di una nuova narrativa e al tempo stesso di una materia classica. Il risultato è un’acrobazia che gli riesce senza timori, completando un percorso iniziato assieme a David Foster Wallace e Jonathan Franzen, assolvendo tutti insieme a un imperativo crudele: scrivi di ciò che ti spaventa. I legami umani interrotti, elemosinati, le persone che inventano nuovi codici per stare insieme. È vincere la morte, in fondo a tutto. Come la disperazione di Abramo Lincoln, non il presidente, non il politico, non il padre di famiglia, solo l’uomo che un giorno di febbraio del 1862 si fa aprire la cripta dove il corpo del figlio giace, imbalsamato come si usava allora. È notte e Lincoln ha appena realizzato ciò che è accaduto, vuole vedere un’ultima volta il suo bambino. Willie ha la pelle chiara come la luna e il volto che riposa. È pronto a lasciarlo andare? Non lo sarà mai. Ma adesso ha la sua preghiera: sperare che il proprio amore guiderà il figlio nella terra del trapasso. Non sa — e qui Saunders compie la letteratura — che è il figlio a condurre il suo papà, anche adesso, nella penombra della cripta. Lincoln si sente perduto, noi sappiamo che è il contrario. E questo, nell’addio più oscuro, riluce di salvezza.


Gli incontri
Lincoln nel Bardo di George Saunders esce il 31 agosto per Feltrinelli (traduzione di Cristiana Mennella, pp. 352, e uro 18,50). L’autore sarà al Festivaletteratura di Mantova l’8 settembre (ore 16, Palazzo San Sebastiano) con Marco Malvaldi. Sabato 9 (ore 12, Palazzo San Sebastiano) con Federico Taddia rileggerà I racconti di Isaak Babel. Martedì 12 al Cimitero Monumentale di Milano ci sarà la «presentazione itinerante». Voci di Anna Nogara e Elena Russo Arman, regia di Luca Scarlini

CORRIERE DELLA SERA






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