Antonio Monda, lo scrittore italiano innamorato di New York
Giornalista, critico e uno tra i più importanti organizzatori di salotti culturali newyorkesi. Autore di un ciclo di romanzi che ha per protagonista la sua NYC
di Michele Crescenzo
27 Feb 2022
25 ottobre 2021. Volo Roma – New York. Il comandante avvisa i passeggeri che la breve turbolenza è passata e che tra poche ore atterreranno all’aeroporto John F. Kennedy. Antonio Monda si toglie le cuffiette, mette in pausa la musica di George Gershwin e si affaccia al finestrino. Una pallida luna sorge nel cielo argentato, il crepuscolo ammorbidisce i contorni della East Coast e colora di amaranto l’oceano Atlantico. Lungo quella costa c’è la sua città, non Napoli che è quella dei suoi genitori, né Cisterna di Latina dove ha trascorso l’infanzia e nemmeno Roma dove ha vissuto l’adolescenza, ma New York la città che ha scelto e dove vive da più di trent’anni.
Antonio Monda
Antonio Monda si abbassa, afferra la borsa e la apre. La Festa del cinema di Roma 2021, di cui è direttore artistico, è stato un successo, ma ha inesorabilmente fatto ritardare altri lavori. Afferra l’agenda e sistema gli appunti del corso di Film and Television Department che gestisce alla New York University, ricontrolla la lista dei “I film della mia vita” in onda ogni giovedì su RaiPlay, riflette su chi invitare al festival letterario Le Conversazioni (rassegna che si svolge a Capri, New York, Roma e Bogotà) e infine riguarda gli articoli per La Repubblica, La Stampa, Vogue, The Paris Review, The Common, Vanity Fair e Nuovi Argomenti.
Antonio Monda nel suo appartamento nell’Upper West di Manhattan (Foto di Terry W. Sanders)
Si passa una mano sul mento rasato. Vorrebbe riprendere al più presto i pranzi nel suo appartamento su Central Park West. Il New York Times li ha definiti “uno dei più importanti salotti culturali newyorkesi” dove si possono incontrare personalità come Don DeLillo, Meryl Streep, Al Pacino, Martin Scorsese, Paul Auster, Arthur Miller, Robert De Niro, i fratelli Coen, Zadie Smith, Orhan Pamuk, Marilynne Robinson, Frances McDormand e Woody Allen. Sorride, sa che il merito del successo di quegli incontri è soprattutto quello della straordinaria cucina di sua moglie Jacquie.
Sospira. In realtà quello che vorrebbe di più è trovare il tempo per scrivere.
Si volta ancora verso il finestrino, socchiude gli occhi come se da lontano potesse scrutare i grattacieli appuntiti di Manhattan avvolti dalla nebbia leggera del crepuscolo. La scrittura di Antonio Monda è strettamente legata a New York. Gli ha dedicato un vero e proprio progetto letterario di dieci libri ognuno ambientato in un decennio diverso. Il primo è L’America non esiste, vincitore del premio Premio Cortina d’Ampezzo, che narra la storia di Maria e Nicola, due fratelli del sud Italia, rimasti orfani appena ventenni, che attraversano l’Atlantico per andare dallo zio che ha fatto fortuna nell’America degli anni Cinquanta.
Il secondo è La casa sulla roccia ed è ambientato negli anni Sessanta, dove Beth, alla festa dei settant’anni del marito, riceve una telefonata da un vecchio amore e compie un viaggio a ritroso nel tempo, ricordando la loro storia.
Il terzo romanzo Ota Benga ripercorre la vera storia di un pigmeo di ventitré anni (chiamato proprio Ota Benga) rinchiuso nello zoo del Bronx negli anni Dieci.
Il romanzo Unworthy (L’indegno) è concentrato invece su Abram, un uomo di origini ebraiche che diventa sacerdote e decide di lavorare nella New York degli anni Settanta, tra tentazioni, amori e dubbi. Philip Roth commentò il romanzo così: “con finezza narrativa Monda ha realizzato un libro potente e compatto, che sembra un morboso racconto erotico del Boccaccio, nel quale viene esposto la tormentata lussuria del clero.
Con L’evidenza delle cose non viste ci troviamo negli anni Ottanta nella relazione clandestina tra un importante avvocato e una sua assistita iniziata dopo il match di pugilato tra il campione in carica e un giovane Mike Tyson.
In Io sono il fuoco Baldur, un nazista (più per opportunismo che per vocazione) cerca rifugio nella patria dei vincitori della Guerra Mondiale negli anni Quaranta.
Il romanzo Nel territorio del diavolo si concentra sul mondo politico in bilico tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, quello ereditato da Reagan e Gorbaciov, quell’epoca di grandi stravolgimenti storici che videro la caduta del muro di Berlino. Con Il principe del mondo ci si trova all’epoca del proibizionismo degli anni venti dove il giovane Jake Singer, dopo aver assistito alla nascita del sonoro nel 1928, inizia a lavorare per Joe Kennedy (padre di Robert e John Fitzgerald).
Antonio Monda nell'illustrazione di Pia Taccone
Nel corso della saga ci sono numerosi personaggi ricorrenti legati da parentela o amicizia, le loro vicende si incrociano con quelle di personaggi famosi nelle diverse epoche come Frank Sinatra, Jackie Onassis, Alfred Hitchcock. Tutti i libri sono tradotti in undici lingue.
Il comandante annuncia l’inizio della fase di atterraggio. Antonio Monda si avvicina al finestrino e finalmente riconosce New York. Luminosa e brillante. Energica e vitale. La prima volta che l’ha visitata è stato nel 1979 grazie alla madre che gli regalò il biglietto d’aereo per la maturità. In un pomeriggio dei primi di ottobre rimase incantato dal tramonto newyorkese (chiamato “magic hours”) il tassista che lo stava portando dall’aeroporto all’albergo lo capì e gli disse: «Benvenuto nel cuore del mondo». Tornò l’anno successivo e quello dopo, e quello dopo ancora per tutto il tempo dell’università fino alla laurea in Giurisprudenza. Dormiva da amici e cercava di recuperare qualche soldo facendo lavoretti come l’imbianchino e come Stock boy in un negozio di scarpe (dove incontrò Ingrid Bergman e David Bowie).
Antonio Monda nel suo appartamento di Manhattan (Foto di Terry W. Sanders)
Amava il cinema e – anche se è cattolico – è sempre rimasto affascinato dall’ebraismo tant’è che nel 1985-1987 girò un documentario sulla cultura ebraica per Raitre: Oltre New York. Viaggio nella cultura ebraica americana. In quell’occasione conobbe la sua futura moglie Jacquie e incontrò Isaac Singer a cui comprò i diritti per “Taibele e il suo demone”, ma non riuscì mai a farne un film. Riuscì però, nel 1990 a girare “Dicembre” che venne presentato a Venezia e ricevette buone critiche, ma fu un disastro al botteghino. Cercò, quindi, di collaborare con la NY University e gli offrirono un lavoro come adjunct assistant, ma viveva con una moglie e due bimbe piccole e i soldi non bastavano così dal 1994 al 1999 – dai suoi trentatré ai trentotto anni – ha arrotondato lavando scale, pulito caldaie, riscosso gli affitti, facendo il super (una via di mezzo tra il portiere e il factotum).
Nel 1996 iniziò a lavorare come organizzatore culturale, come ricorda a intervista larga “andai con molta faccia tosta, con il biglietto da visita con adjunct professor cancellato, al MoMa dicendo che ero un professore e che volevo organizzare delle mostre”. “È tutto così – ricorda nella stessa intervista – in America apprezzano molto le persone che hanno delle idee che vogliono essere realizzate, quindi l’ambizione… anche il network nasce così. Ho capito che qui ti perdonano tutto, ma non la menzogna, devi essere sincero e devi essere affidabile, tu dici una cosa e la mantieni”.
I motori rombano. L’aereo oscilla leggermente poi atterra delicatamente sulla pista. Antonio Monda presto vedrà sua moglie Jacqueline e i tre figli Ignazio, Caterina e Marilù che sono venuti a prenderlo in aeroporto. Sorride e sussurra “Sono a casa.”
John Cheever, la doppia vita dello scrittore di New York tra ombre, tentazioni e nevrosi
Uno dei maestri della short story capace – nella vita e nelle opere – di oscillare tra dannazione e redenzione, carne e spirito, intimità e arte
di Michele Crescenzo 26 Mar 2022
Upper East Side of Manhattan, 1974. John Cheever accarezza la schiena del suo amante che dorme disteso accanto a lui. Osserva il suo corpo giovane, snello e bianco, sembra scolpito dentro le lenzuola come se fosse un quadro. Ha sempre adorato il sesso pomeridiano perché non c’è il rischio che la moglie né altri lo scoprino. Si alza piano dal letto e si affaccia alla finestra. New York dopo la pioggia gli sembra di una bellezza straordinaria, il modo in cui la pietra arenaria dei palazzi antichi di Park Avenue vira dal grigio chiaro allo scuro, il verde più intenso del Madison Square sullo sfondo e gli impermeabili e gli ombrelli che si muovono veloci e colorati. Apre la finestra e aspira l’aria. “Le uniche certezze che ho sono l’importanza dell’amore, l’odore di fritto e la musica della pioggia“. Sorride e si volta verso il suo giovane amante e all’improvviso sente salirgli la nausea come una viscida, umida vergogna. “Mi spaventa l’indefinitezza, il pensiero di essere omosessuale mi atterrisce, e provo paura edisagio“. Apre la porta ed esce svelto di casa. Sale sul suo roadster (modello A) e parte. Costeggia lento la East River nel traffico ordinato e lento. “Il mare lungo la costa sembra raccontare una storia triste, triste. Ho fatto questo viaggio migliaia di volte, e immagino che sia solo naturale, visto il mio passato, che mi venga l’ansia, che io regredisca a cose puerili, che mi spaventi non tanto di un’immagine quanto delle ombre, di quell’universo che mi vive nella codadell’occhio“. Sospira. “Forse non aver mai conosciuto l’amore di mio padre mi ha costretto in un amore così divorante e appassionato che non ho margine discelta“. Suo padre era un ricco venditore di scarpe che abitava in una grande casa vittoriana nel Massachusetts, ma a metà degli anni ’20 gli affari andarono male, perse la maggior parte dei suoi soldi e iniziò a bere molto. Trascorse gli ultimi anni da solo e alcolizzato.
La strada diventa più scorrevole. John Cheever vuole tornare a casa da sua moglie, dai suoi figli e vuole scrivere. “Scrivere bene, scrivere con passione, essere meno inibito, essere più caldo, essere più autocritico, riconoscere il potere così come la forza del desiderio carnale, scrivere,amare“. Nel 1930 vinse – a soli diciotto anni – il suo primo concorso di racconti sponsorizzato dal Boston Herald (dopo pochi mesi fu espulso dalla scuola per aver fumato in classe, l’autore scrisse un resoconto ironico di questa esperienza intitolato Expelled.) Nel 1935, il New Yorker acquistò il suo racconto Buffalo, per $ 45, il primo di tanti che Cheever avrebbe pubblicato sulla rivista. Lo stesso anno conobbe la sua futura moglie, Mary Winternitz, di sette anni più giovane di lui. L’ha sposata nel 1941, si è arruolato nel 1942 e il 31 luglio 1943 è nata sua figlia Susan.
Cheever svolta a sinistra ed entra in Sutton Place, dopo la guerra si era trasferito con la famiglia proprio lì vicino, in un condominio al 400 East 59th Street. Quasi ogni mattina per cinque anni, si era vestito con il suo unico abito, aveva preso l’ascensore fino alla stanza di una cameriera nel seminterrato, si era spogliato in boxer e aveva scritto fino all’ora di pranzo. Nel 1953 pubblicò The Enormous Radio (la sua seconda raccolta di racconti, la prima la rinnegò). Le recensioni furono per lo più positive, sebbene in quel periodo la preferenza generale fu per Nine Stories di JD Salinger, pubblicato più o meno nello stesso periodo.
Nel 1957, Cheever scrisse il suo primo romanzo The Wapshot Chronicle (Cronache della famiglia Wapshot, trad. di Vanni De Simone, Feltrinelli) che ha come protagonisti i membri di una eccentrica famiglia di un piccolo villaggio di pescatori del Massachusetts. La storia ha dei tratti autobiografici, in particolare nel personaggio di Coverly, che è tormentato, come Cheever, da dubbi di bisessualità. Il romanzo vinse il premio U.S. National Book Award for Fiction nel 1958.
Con il ricavato della vendita dei diritti cinematografici del racconto The Housebreaker of Shady Hill, Cheever e la sua famiglia trascorsero l’anno successivo in Italia, dove nacque il figlio Federico (In Letters of John Cheever, disse “Volevamo chiamarlo Frederick, ma ovviamente non c’è la K nell’alfabeto qui e ho rinunciato dopo un’ora o due”).
Nel 1964 pubblicò The Wapshot Scandal(Lo scandalo Wapshot, traduzione di Leonardo Giovanni Luccone, Feltrinelli), il seguito di Cronache della famiglia Wapshot. Lo scandalo al quale il titolo fa riferimento riguarda la moglie di uno dei componenti della famiglia Wapshot, che fugge con un garzone diciottenne della locale drogheria e si rifà una vita con lui in Italia. Il libro ha ricevuto ottime recensioni tanto che Cheever è apparso sulla copertina del numero del 27 marzo della rivista Time. Dopo qualche mese, il racconto The Swimmer (Il nuotatore traduzione di Leonardo Giovanni Luccone, Feltrinelli) apparve nel numero del 18 luglio 1964 del New Yorker. Questo racconto, uno dei migliori racconti americani di sempre, racconta di Ned, un uomo ricco e sicuro di sé che ha appena passato la mezza età. È a casa di amici per un party in piscina, un giorno di mezza estate. Tutti gli ospiti stanno godendosi con pigrizia la parte più matura del giorno, ognuno impegnato con il suo mal di testa a causa della sbornia. Ned, quasi per scherzo, decide di tornare a casa sua nuotando per tutte le sedici piscine lungo il tragitto. Inizia il viaggio entusiasta e pieno di energia giovanile e, nelle prime tappe, i suoi amici borghesi lo salutano brindando con un drink in mano. Man mano che il suo viaggio procede, il tono della storia diventa gradualmente più cupo e surreale fino a un colpo di scena finale. Nell’estate del 1966, un adattamento cinematografico di The Swimmer, con Burt Lancaster, fu girato a Westport, nel Connecticut. L’autore americano fu un assiduo frequentatore del set e ha fatto un’apparizione cameo nel film.
Cheever accelera. Sono ormai due ore che guida, New York è lontana alle sue spalle. “Il senso di fallimento e disperazione sembra acutizzato dal clima di New York e dei sobborghi. In certi casi sia New York che Scarborough scatenano un egoismo che si nutre della salute e del vigore della giovinezza, o di una loro imitazione, quando vengono meno. In entrambe ci sono indizi dell’abisso, e di quando in quando senti le voci e intravedi i visi deicaduti“. Stringe forte il volante. “Sosteniamo di possedere l’onestà della disperazione mentre di fatto non facciamo altro che innalzare strutture completamente artificiose di una realtà che possa risultare accettabile, e pervicacemente ci rifiutiamo di riconoscere i termini veri della nostraesistenza“. Fruga sotto il cruscotto del suo roadster, trova una bottiglia di gin e la beve tutta. “Anno dopo anno leggo in questi diari che bevo troppo, e non può esserci dubbio sul fatto che la cosa va aumentando. Butto via più giorni, ho fitte di senso di colpa più acute; alle tre del mattino mi sveglio con le opinioni di uno della lega antialcolica. Il bere, i suoi accessori, i suoi contesti ed effetti mi disgustano. Eppure, ogni giorno a mezzogiorno allungo la mano verso la bottiglia di whisky. Non sembro capace di bere con moderazione e però non sembro capace dismettere“.
L’alcolismo di Cheever aumentò dopo il 1969, quando venne pubblicato Bullet Park (traduzione di Vanni De Simone, Feltrinelli ) un libro sui segreti, le nevrosi e i sacrifici della società americana attraverso la storia di due uomini Eliot Nailles e Paul Hammer (nail e hammer sono, in inglese, rispettivamente chiodo e martello).
Il 12 maggio 1973, Cheever si svegliò con una tosse incontrollabile e apprese in ospedale che stava per morire per un edema polmonare causato proprio dall’alcolismo. Dopo un mese in ospedale, tornò a casa giurando di non bere mai più ma riprese presto ubriacandosi (anche con lo scrittore Raymond Carver, un suo collega dell’Iowa Writers’ Workshop). Nel 1977 pubblicò Falconer(Falconer traduzione di E. Capriolo Feltinelli) la storia di un uomo solo circondato dai rimorsi della dipendenza dall’eroina e di una dolorosa e lacerante omosessualità.
Poiché il suo matrimonio continuava a deteriorarsi a causa dell’alcool e dei tradimenti (sia con uomini che con donne), Cheever lasciò l’Iowa e accettò una borsa di studio presso la Boston University l’anno successivo e si trasferì in un appartamento senza ascensore al quarto piano al 71 di Bay State Road. Dove sta andando ora.
“Ieri nel giro di dieci minuti un ferroviere a Tupper Lake, un facchino, due camerieri e il commesso di un negozio mi hanno detto che si farebbero dare volentieri una bella ripassata; che mi darebbero volentieri una bella ripassata. Soldi e desiderio sessuale sono gli argomenti principali nei discorsi che capita di sentire. Sono stanco, ma passerà. Amo il corpo di mia moglie e l’innocenza dei miei figli.Nient’altro“.
Jhon Cheever entra nel viale di casa e si ferma. Parcheggia fuori casa. In quel momento non sa che il 9 Aprile 1975 sarà ricoverato alla Smithers Alcoholic Rehabilitation Unit di New York e dopo non berrà mai più. Non sa nemmeno che una raccolta dei suoi racconti, The Stories of John Cheever, vincerà nel 1979 il Premio Pulitzer per la narrativa e diventerà una delle raccolte di maggior successo di sempre.
Entra in casa e abbraccia forte la moglie e si avvicina a dare un bacio ai figli, tutti gli appaiono però distanti e sospettosi. Mary prende un’aspirina e riempie un bicchiere d’acqua. Tutto è infelice, rotto, inconsistente. Abbassa lo sguardo sconfitto. Quando penso alla mia famiglia, mi ricordo sempre delle loro schiene. Se ne andavano via sempre sdegnati. Avverte che vuole scrivere un po’ prima di cena. So di avere una natura tormentata, e ho cercato di contenerla incanalandola in qualcosa di creativo.
Entra nella sua stanza. Si avvicina alla scrivania e rilegge un suo racconto. In quel momento non sa nemmeno che ha un tumore nel polmone destro, nel femore, al bacino e alla vescica, lo scoprirà nell’estate del 1981. L’anno dopo pubblicherà il suo ultimo romanzo, Oh What a Paradise It Seems (Sembrava il paradiso traduzione di Leonardo Giovanni Luccone, Feltrinelli). Morirà il 18 giugno 1982 e le bandiere di Ossining saranno abbassate a metà per dieci giorni. Due dei suoi figli, Susan e Benjamin, diventeranno scrittori, tutti i diari e le lettere verranno pubblicate donandogli un nuovo e inaspettato successo. Nel 2009 (dopo 30 anni dalla morte) ci sarà un documentario di novanta minuti sulla vita di Cheever chiamato Soul of a People: Writing America’s Story.
Lui non sa nulla di tutto questo. Adesso sta correggendo una storia. La moglie lo chiama per cena. Prima di scendere riposa i fogli e l’ultimo pensiero va ai lettori, gli unici a cui mostra la parte migliore di sé e non se ne è mai pentito. In una intervista al Christian Science Monitor nel 1979 dichiarò: Non posso scrivere senza lettori. È come un bacio: non te lo puoi dare da solo.
Tutte le citazioni sono prese da Una specie di solitudine tranne due: “Quando penso alla mia famiglia, mi ricordo sempre delle loro schiene. Se ne andavano via sempre sdegnati. tratto dal libro di Susan Cheever, Home before Dark Houghton Mifflin (1984) e Sosteniamo di possedere l’onestà della disperazione mentre di fatto non facciamo altro che innalzare strutture completamente artificiose di una realtà che possa risultare accettabile, e pervicacemente ci rifiutiamo di riconoscere i termini veri della nostra esistenza presa dal romanzo Bullet Park.
Somerset Maugham, un "Mago" a smascherare gli inglesi
Il romanzo ispirato ad Aleister Crowley ritrae un'epoca e la sua diffusa passione esoterica
Stenio Solinas 16 Luglio 2020 - 06:00
A lungo William Somerset Maugham (1874-1965) si vide affibbiata l'etichetta di «primo della classe fra gli scrittori di seconda categoria»... Era un giudizio dovuto essenzialmente a un paio di fattori: uno era il suo successo commerciale, che contrastava con il dogma critico che, in vita, il genio artistico dovesse andare a braccetto con la fame e l'incomprensione; l'altro era la sua longevità, sia biografica sia creatrice, che lo aveva visto esordire a fine '800 e continuare a dire la sua ancora a metà del '900, impermeabile alle mode, alle sperimentazioni, all'engagement e alle ideologie.
Era fondamentalmente uno storyteller Maugham, nei racconti come nei romanzi, ma specie in quest'ultimi l'avventura di cui erano intessuti era soprattutto intellettuale, i dolori esistenziali di un pittore, i grovigli psicologico-sessuali di una coppia, le ansie religiose di un credente, immersi però in una cornice esotica. Per il suo pubblico inglese di riferimento, quest'ultima da un lato cominciava già appena superato lo stretto di Calais e aveva Parigi come epicentro, culturale e no, della «diversità», dall'altro riguardava il cuore segreto di un impero, il subcontinente indiano, l'estremo Oriente, epicentro invece di quella tipologia umana del gentleman che era più un prodotto d'esportazione che un frutto autarchico, una proiezione onirica, per molti versi. Nei loro cottage di campagna o nei bungalow oltre mare, i lettori suoi connazionali si appassionavano a quelle storie come se si trattasse di inglesi traviati dal clima, dalle frequentazioni sbagliate, di libri, di quadri, di esseri umani: raccontavano un disordine tanto più eccitante perché letto all'interno di un sistema di valori rassicurante, la monarchia, la sterlina, le classi sociali, un filisteismo tanto di abitudini quanto di comportamenti. Metteva in scena il male, Maugham, ma come si trattasse di un'entità aliena, un qualcosa di estraneo e non riconducibile al genius loci, un corto circuito o, se si vuole, un colpo di sole rispetto alla nebbia nazionale scambiata per la vita moralmente vera. L'effetto era tanto più straniante se a questo si aggiungeva la maestria dei dialoghi, risultato di un'attività di commediografo intensa e fortunata: Maugham era abilissimo, si veda per fare un solo esempio, un romanzo come Vacanze di Natale, a dare corpo a quegli scambi svagati fra esponenti della middle e dell'upperclass britannica, dove si pattinava sui luoghi comuni, stile Royal Academy, in materia di arte moderna, di stereotipi sulla selvaggeria dell'anima russa, il mandolinismo di quella italiana, la cochonnerie francese... Lì dove lo stesso Maugham, che dalla madre patria era fuggito per paura di fare la stessa fine di Oscar Wilde, si divertiva a mettere in ridicolo lo stile inglese nella sua sordità esistenziale, i suoi lettori vi si rispecchiavano vedendone le loro certezze confermate.
Questo miscuglio di inglesità all'ennesima potenza, razionalismo filosofico, pragmatismo scientifico e spiritualismo scientista, è alla base di quel The Magician, Il mago, uscito da noi negli anni Trenta e ora riproposto da Adelphi (pagg. 254, euro 18, trad. Paola Faini) che Maugham scrisse nel 1908 ispirandosi a quel curioso personaggio che fu Aleister Crowley, negromante inglese da lui all'epoca incontrato a Parigi, figura di punta di quell'insieme di ciarlatanerie, riti, bizzarrie e persuasori occulti che ebbe fra le sue file anche chi, come Arthur Conan Doyle, aveva creato Sherlock Holmes, ovvero il detective più razionale del suo tempo e di tutti i tempi. Credeva nello spiritismo Doyle, nella possibilità di parlare con le anime dei defunti, nei medium, negli stati di trance. Che non si trattasse di una fissazione individuale, lo dimostra anche I Came, I Saw, l'autobiografia di uno scrittore-viaggiatore iper-novecentesco come Norman Lewis, l'autore di Napoli '44 e di Niente da dichiarare, in cui racconta come nella sua infanzia entrambi i genitori avessero dato vita a una sorta di club dell'al di là fra le quattro mura del loro salotto di campagna gallese.
Nel Mago, Crowley prende le fattezze mostruose di Oliver Haddo, ex bellissimo studente di Cambridge e ora fisicamente gonfiato, «un'incredibile obesità, il ventre di dimensioni imponenti, il volto grasso e carnoso, la bocca larga, le labbra turgide e tumide», dal proprio delirio di onnipotenza. Il suo desiderio è di «essere come Dio», di vedere «una sostanza inerte prendere vita grazie ai miei incantesimi». Al chirurgo Arthur Burton, che gli oppone la superiorità della scienza, Haddo replica che «la magia non è altro che l'arte di impiegare consapevolmente mezzi invisibili per produrre effetti visibili. Volontà, amore, immaginazione sono poteri magici che chiunque possiede; chi sa come svilupparli appieno è un mago. La magia ha un solo dogma, ovvero che il visibile è la misura dell'invisibile». Haddo sedurrà la giovane e bellissima fanciulla che Arthur avrebbe dovuto sposare, la porterà con sé in Inghilterra, ne farà una vittima e una schiava...
Nel Mago, Maugham dà prova di tutto il suo talento, una scorrevolezza mai piatta, una banalità apparente nel far risaltare la prosaicità dello scettico e sfortunato dottore a petto della verbosità pittoresca del suo alchemico nemico. Stria di una sorta di discesa gli inferi, il romanzo, come suggerisce la bandella editoriale, potrebbe raccontare anche la fascinazione del male, tanto più rischiosa perché «fame di una vita infinitamente viva, di rischiose avventure, di conoscenza soprannaturale e di ignota bellezza». È un'ipotesi suggestiva, ma per abbracciarla fino in fondo Maugham avrebbe dovuto essere quello che non era, un intellettuale e non uno scrittore.
Il romanzo di una vita d’artista: Somerset Maugham indaga Gauguin
di Mario URSINO
Il Gauguin di W. Somerset Maugham fra letteratura e pittura
Come sanno i lettori dello scrittore inglese William Somerset Maugham (1874-1965), il suo Gauguin si chiama Charles Strickland, protagonista del suo romanzo più noto, The Moon and the sixpence, edito per la prima volta a Londra nel 1919 (quasi cento anni fa) [fig. 1]. Una storia ancora oggi avvincente, diffusa in Italia nella famosa collana Medusa della Mondadori del 1946 [fig. 2] e in numerose successive edizioni. Lo scrittore narra la vita di un tranquillo signore britannico, sposato ad una brillante signora (Amy) che: “Aveva un appartamento a Westminster con panorama sulla cattedrale incompiuta…” e che amava ricevere nel suo salotto amici scrittori.
Maugham premette nei due capitoli iniziali della Luna e sei soldi che il suo non vuole essere un romanzo biografico sulla vita di Gauguin come pittore, ma “io mi propongo di trattare dell’opera di Charles Strickland solamente per quanto essa abbia riferimento alla persona”. Ciò si deve dedurre dal fatto che Somerset Maugham aveva studiato medicina al St.Thomas’ Hospital di Londra, anche per sfuggire all’opprimente vita di provincia nel Kent, sotto la tutela di un suo zio vicario a Whistable. Ma egli, segretamente, voleva diventare scrittore. Le esperienze di medico presso l’ospedale St. Thomas lo misero a contatto con ogni sorta di persone: “Vedeva la sofferenza che corrode i valori umani…”. Empatia e psicologia hanno quindi dato vita a personaggi di tutte le classi sociali con le quali veniva in contatto. La vita di Gauguin gli apparve perciò quasi come un caso clinico di improvviso rovesciamento della personalità di un individuo, che egli esaspera nella raffigurazione del quieto Charles Strickland, il quale, all’improvviso, esplode in una cinica personalità, staccandosi brutalmente dall’agiata famiglia che lui stesso aveva creato. Effettivamente così fece Gauguin, ma con minore brutalità, quando si separò dalla sua famiglia. Molte sono quindi le analogie tra l’autentica vita di Gauguin e quella del protagonista immaginato da Maugham: entrambi erano stati bravi agenti di cambio, entrambi erano sposati ed avevano dei bei figli e vivevano agiati. Gauguin aveva sposato Mette-Sophie Gad (1850-1920), appartenente alla borghesia luterana di Copenhagen; in entrambi i personaggi, infatti, si fa strada, dapprima lentamente, un’incontenibile ambizione per la pittura, in Strickland, però, ciò avviene segretamente, mentre Paul Gauguin (1848-1903) all’inizio è come un pittore dilettante della domenica, considerato dalla famiglia come un comune hobby, che si trasforma in passione dopo l’incontro folgorante con Camille Pissarro (1830-1903) e gli impressionisti nel 1874, l’anno, come è noto, della loro prima mostra nello studio del famoso fotografo Nadar. Con costoro Gauguin inizierà a partecipare alle loro mostre a partire dalla quarta nel 1879; queste, dunque, le divergenze tra il personaggio reale e quello immaginario. Gauguin si stacca dalla famiglia che torna a Copenhagen, dopo che l’artista aveva perso il suo lavoro di agente di cambio, mentre Strickland sparisce all’improvviso e senza alcuna giustificazione, lasciando la moglie e i figli per sempre, per andare prima da Londra a Parigi e poi a Marsiglia, e infine, proprio come Gauguin, in Oceania.
Benché l’interesse di Maugham, come già detto, sia principalmente la “mostruosità” del rovesciamento della personalità del suo protagonista, nel romanzo si avverte anche la sua sensibilità per le arti figurative. Infatti lo scrittore inglese, divenuto ricco e famoso, metterà insieme una raffinata collezione d’arte che include appunto il singolare acquisto di un’opera di Gauguin (di cui parlerò più avanti) e opere di Matisse, di Picasso, di Renoir, Monet, Toulouse-Lautrec, Utrillo, Sisley e di molte altre, finite all’asta nel 1962, tre anni prima della sua scomparsa.
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Dunque, egli struttura il suo romanzo con l’espediente letterario dell’io narrante (lui stesso), retrocedendosi biograficamente agli anni dei suoi inizi letterari, quando ancora era uno sconosciuto scrittore, introdotto in società per il tramite dell’amicizia della garbatissima signora Amy Strickland, che lo accoglie come un abituale amico frequentatore del suo salotto, dove riuniva più anziani letterati, scrittori e artisti. Confidando nella sua giovane età e sensibilità, la moglie di Strickland, disperata, chiede il suo aiuto, mostrandogli la breve lettera d’addio del marito fuggito da Londra a Parigi: “Ho deciso di vivere lontano da voi, e parto per Parigi in mattinata … Non tornerò. La mia decisione è irrevocabile. Affettuosamente. Charles Strickland”. E così sarà per tutta la storia. Viceversa per Gauguin, anche quando si allontana dalla moglie e dai figli, si reca poi a Copenhagen, dove per un certo tempo trova anche un lavoro, ma la Danimarca non fa per lui e inizia i suoi viaggi di andata e ritorno nei mari del Sud, affermando perentoriamente: “D’ora in avanti dipingerò tutti i giorni” (in Victor Segalen, Hommage à Gauguin, Paris, Georges Crès et Cie, 1918, trad. it. Omaggio a Gauguin, in Paul Gauguin. Scritti di un selvaggio, Milano, 1996, p. 12, fig. 3), nonostante le ristrettezze economiche e le malattie che lo condurranno fino alla morte. Scrive Segalen nel suo testo sopra citato: “Questaenergia lo porta prima da Parigi in Bretagna, a Pont-Aven. Poi si ricorda di altre terre più lontane … terre tra i due tropici … E, arrivato al momento (ormai raggiunta la quarantina) […] solo allora si decide e parte per le Antille francesi, per la Martinica” (p. 13). Anche lo Stricklanddi Maugham è un quarantenne nella svolta epocale della sua esistenza. Nel romanzo il giovane scrittore (Maugham) viene pregato dalla signora Amy in lacrime, di andare a Parigi per cercare di convincere il marito a tornare indietro, lei lo perdonerebbe, perché immagina, con i suoi familiari, che l’uomo sia fuggito per una storia d’amore (poiché nulla sapeva della sua segreta passione per la pittura). Ma non era così. Delle donne non gliene importava punto. Solo la pittura. La discussione sul delicato incarico, Maugham lo descrive da par suo: i dialoghi dell’io narrante con la donna, e con i vari personaggi della sua famiglia, e di qualche amica pettegola, sono il punto di forza di questa storia, così come in tutti i racconti e i romanzi dello scrittore inglese, dai quali sono stati tratti anche alcuni importanti film [fig. 4]. Bisogna tener conto che quando Maugham scrive questo romanzo, grosso modo tra il 1916 e il 1919, anch’egli era un quarantenne, però già affermato, che aveva al suo attivo una decina di lavori teatrali e altrettanti romanzi. Ma, tornando alla storia di Strickland, egli accettò l’incarico della donna abbandonata, e va a Parigi alla ricerca del fuggitivo; e quando lo trova miseramente lacero e affamato, alloggiato in una locanda di infimo ordine, si trova ad affrontare un brutale colloquio con l’esule aspirante pittore, divenuto un inconoscibile e cinico personaggio, la cui unica ragione di vita era quella di dover dipingere. “Meritava che la trattaste così?”- gli chiede il giovane scrittore. “No”, risponde lui.
“Avete qualcosa da rimproverarle?” – “Nulla” è la risposta. “Ma allora non è mostruoso abbandonarla in quel modo, dopo diciassette anni di vita coniugale, senza una colpa da addossarle? È mostruoso.Lo guardai sbalordito. Il suo cordiale assenso a tutto ciò che dicevo mi faceva mancare il terreno sotto i piedi”. A questo punto ci sovvengono anche le parole che Victor Segalen aveva già scritto nel 1904, quale prefazione a quel piccolo capolavoro di Gauguin,Noa Noa [fig. 5], pubblicato per la prima volta nel 1901, insieme al poeta Charles Maurice, su i due anni felicemente trascorsi a Tahiti, tra il 1891 e 1893; ha scritto Segalen: “Gauguin fu un mostro: vogliodire che non lo si può far rientrare in nessuna delle categorie morali, intellettuali o sociali con le quali siamo soliti definire la maggior parte degli individui” (p. 7). Testo sicuramente noto a Maugham, quando stava elaborando La Luna e sei soldi. Però, nelle pagine introduttive del romanzo, che ho anche citato più sopra, Maugham tiene a sottolineare, a proposito della vita di Gauguin: “Il sorgeredi questa fama è uno dei più romantici avvenimenti della storia dell’arte”. Quindi, se è vero che la spinta a scrivere tale romanzo sia stato l’interesse per un caso clinico di estraniamento della personalità umana, è altrettanto vero che lo scrittore inglese si intendeva anche di storia dell’arte: sono esemplari il suo saggio su El Greco e su Zurbaran, frutto di un suo prolungato soggiorno in Spagna, oltre ad aver costituito, come già detto, una raccolta d’arte di grande interesse, poi dispersa sul mercato dell’arte. In questo senso Maugham, sebbene parta, come abbiamo visto, da premesse interessate alla personalità sconcertante del suo personaggio, fa apparire sulla scena un’altra figura d’artista, ovvero un pittore olandese conosciuto a Roma, e rincontrato per caso a Parigi; costui conosceva bene Strickland e lo considerava un grandissimo pittore. L’olandese si chiama Dirk Stroeve, un tipo dall’aspetto un po’ comico e dipingeva in maniera corrente. “Era pittore – scrive drasticamente Maugham – ma pessimo”. Stroeve era però un uomo generoso e umanissimo, ma queste sue qualità furono anche causa della sua rovina. Egli volle assistere e curare personalmente Strickland, portandolo a casa sua (persino contro il volere di sua moglie), quando questi fu trovato malatissimo e senza assistenza nel suo lurido alloggio. E questa circostanza, Maugham la descrive come un vero e proprio colpo di teatro. Ripresosi per le cure ricevute, il cinico Strickland prima seduce la moglie dell’olandese, poi addirittura rimane a casa sua passivamente, poiché Stroeve si autoesclude volontariamente per non privare dall’agio la sua amatissima moglie Blanche, che altrimenti avrebbe seguito il pittore inglese nella sua squallida dimora. Ma la tragedia continua, e il brutale Strickland abbandona anche questa donna che, talmente presa da lui, si toglie la vita. E siamo solo a metà del romanzo.
Raccontata così sinteticamente la storia può sembrare banale, ma qui ci interessa l’aspetto sottostante della pittura che è latente in tutto il corso del racconto; e mi è parso particolarmente significativo uno dei momenti più drammatici della storia di Stroeve, quando egli torna in possesso della propria casa dopo la morte della moglie e trova il suo studio in ordine con i suoi quadri, ma ne vede uno molto più grande dei suoi, rivolto verso la parete; gira il dipinto e vede raffigurato uno splendido nudo, quello di sua moglie, ultima crudeltà dello Strickland. Fa per distruggerlo – racconta Stroeveal giovane Maugham – ma poi si ferma perché l’opera è un capolavoro. Sebbene la descrizione iconografica approssimativamente indichi un nudo disteso, penso che l’idea avuta da Maugham sia dovuta alla conoscenza del primo dipinto che dette a Gauguin una certa notorietà, e si tratta del Nudo di donna che cuce, 1880, Copenhagen, Ny Carlsberg, Gliptotek [fig. 6],
lodato dal grande scrittore J.K. Huysmans (1848-1907) che scrisse: “Non esito ad affermare che tra i pittori contemporanei che hanno trattato il nudo, nessuno lo aveva fatto finora con una nota così violentemente reale …” (in L’Art moderne, 1880) e che fu esposto alla sesta mostra degli impressionisti nel 1881. Il dipinto, a mio avviso, doveva sicuramente essere noto a Maugham, se non altro per le autorevoli parole di Huysmans.
Ma è possibile anche un riferimento letterario-iconografico, nella Donna che cuce di Gauguin e andrebbe ricercato nel passo della Luna e sei soldi, laddove il giovane Maugham, invitato a casa dell’amico Stroeve per essere presentato a sua moglie Blanche, così descrive la donna: “La moglie era seduta alla stufa col suo cucito …”. Stroeve rivolgendosi all’amico dice: “Ma non è straordinaria?… Guardala seduta là. Non è un bel quadro? Chardin, eh?”. Più avanti Maugham riflettendo sull’aspetto della donna: “Ma Stroevenon aveva avuto torto ad alludere a Chardin, ed ella infatti mi ricordava stranamente quella simpatica massaia in cuffia e grembiule che il grande pittore aveva immortalato” [fig. 7, ma confrontare anche Mette Gauguin che cuce di Gauguin, 1878, fig. 8].
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Somerset Maugham a Tahiti e la Eva di Gauguin
Nel capitolo iniziale della Luna e sei soldi, come detto più sopra, Maugham spiega le ragioni del suo interesse per la figura del protagonista Strickland, che immagina di aver conosciuto e frequentato a Parigi, fino a quando il personaggio si trasferisce a Marsiglia (anche qui troviamo un’analoga coincidenza con il vero e drammatico soggiorno di Gauguin nella stessa città). Ma lo scrittore, sempre con espediente letterario, dice che: “… ma credo che non avrei mai messo su carta i miei ricordi, se i casi della guerra non mi avessero portato a Tahiti, dove, come è noto, egli [Gauguin, n.d.a.] trascorse gli ultimi anni della sua vita, e dove incontrai gente che lo aveva frequentato con una certa familiarità”. Poi nel capitolo XLV del romanzo, Maugham ci avvince con la narrazione del suo soggiorno e degli incontri con soggetti che avevano conosciuto il Gauguin-Strickland, fino alla sua drammatica e sofferente scomparsa, anche questa volta la finzione è ancora pressoché coincidente con la realtà. E spiego perché.
Quando Somerset Maugham decise di vendere la sua collezione nel 1962, volle lui stesso premettere al catalogo della vendita la storia dei suoi acquisti nell’interessante e godibile testo Purely for my pleasure, ignoto in Italia, poiché non è mai stato tradotto. Suscitato da questa curiosità, qualche anno fa riuscii a venire in possesso di una copia di codesto catalogo [fig. 9] che acquistai sul mercato librario londinese. Il libro riproduce ben 37 opere della sua collezione (che includeva autentici capolavori di Picasso, Matisse, Renoir, Monet, Pissaro, Sisley e altri pittori impressionisti e postimpressionisti) e affidai il testo alla cortesia della professoressa Paola Faini dell’Università Roma 3, che già in passato aveva tradotto altri libri dello scrittore inglese. Il testo in questione, però, è tuttora inedito in Italia per il disinteresse di note case editrici milanesi da me interpellate, che pure di Maugham hanno pubblicato e ripubblicano numerose sue opere. Ma tant’è. È questa dunque l’occasione per far conoscere al pubblico, per gentile concessione della studiosa Paola Faini, almeno il brano in cui Maugham racconta come realmente sia venuto in possesso di una singolare opera di Gauguin. Sembra una finzione letteraria, ma non lo è. Quindi lo pubblichiamo dalla traduzione dall’originale inglese più sopra citato:
“Passò del tempo. – scrive Maugham – Avevo a lungo accarezzato l’idea di scrivere un romanzo sulla vita di Paul
Gauguin. Così andai a Tahiti, nella speranza di trovare qualcuno che lo aveva conosciuto, per ottenere qualche informazione utile. Scoprii subito che da qualche parte, nella foresta, c’era una capanna in cui Gauguin, malato, aveva passato del tempo, dipingendo durante la convalescenza. Presi a noleggio un’auto, e in compagnia di un conoscente viaggiammo finché l’autista scorse la capanna. Scesi dall’auto e la raggiunsi percorrendo uno stretto sentiero. Sui gradini una mezza dozzina di bambini stavano giocando. Si affacciò un uomo, probabilmente il padre, e quando gli dissi cosa volevo mi invitò a entrare. C’erano tre porte. La parte inferiore di ciascuna di esse era un pannello di legno, e la parte superiore era di vetri tenuti insieme da listelli di legno. L’uomo mi disse che Gauguin aveva dipinto tre immagini sui pannelli di vetro. I bambini avevano raschiato via i dipinti su due delle porte, e avevano appena cominciato a lavorare sulla terza immagine. Raffigurava Eva, nuda, con in mano la mela (Tavola X) [fig. 10]. Chiesi all’uomo se era disposto a venderla. “Ma così dovrei comprare un’altra porta”, mi rispose. “Quanto costerebbe?” gli chiesi. “Duecento franchi,” fu la sua richiesta. Acconsentii e egli prese il denaro ben volentieri. Togliemmo i cardini alla porta e, aiutato dal mio compagno, la portai alla macchina e ripartimmo per Papeete. Quella sera un altro uomo venne da me, sostenendo che la porta per metà era sua. Mi chiese altri duecento franchi, e glieli detti volentieri. Feci segar via il pannello di legno dalla cornice della porta, e con ogni possibile cautela portai i vetri prima a New York e da lì in Francia. La pittura è lieve, poco più d’uno schizzo, ma incantevole. L’ho sistemata nel mio studio.”
Lo scrittore inglese aveva la sua residenza a Cap Ferrat, Villa La Mauresque, acquistata nel 1927, dove
amava ricevere amici, scrittori e personaggi illustri, come il Duca e la Duchessa di Windsor, Lord Beaverbrook (famoso editore e politico britannico), l’Aga Khan, T.S. Eliot, H.G. Wells, Rudyard Kiplng, Ian Fleming, Virginia Woolf, Winston Churchill, che, dopo le sue dimissioni nel 1955 da Primo Ministro, amava trascorrere lunghi periodi sulla Costa Azzurra [fig. 11].
Era il 1916, il tempo di questi ricordi, quando Maugham fece un viaggio nelle isole del Pacifico, per raccogliere, appunto, materiale per il suo romanzo The Moon and sixpence. Fu il primo dei suoi viaggi nelle colonie britanniche che proseguirono negli anni Venti e Trenta, quale testimone degli ultimi aspetti del colonialismo in India, in Cina, nel Sud-Est asiatico e nel Pacifico. E nel 1938, pubblicando la sua singolare autobiografia filosofica-letteraria, The Summing Up, Maugham ricorda ancora una volta di quando partì per i mari del sud: “Avevo sempre desiderato di andarci fin da quando, giovane, avevo letto The Ebb-Tide e Tbe Wrecker [di R. L. Stevenson, n.d.a.], e inoltre volevo trovare materiale per un romanzo, al quale pensavo da tempo, sulla vita di Paul Gauguin. Partii, cercando bellezza e avventura, lieto di frapporre un oceano tra me e i problemi che mi tormentavano. Trovai bellezza e avventura, ma scoprii anche qualcosa che non mi sarei mai aspettato: un nuovo me stesso. Da quando avevo lasciato l’ospedale St. Thomas, avevo vissuto con persone che davano valore alla cultura. Ero arrivato a pensare che nulla al mondo fosse più importante dell’arte. Cercavo un significato nell’universo, e l’unico che riuscivo a trovare era la bellezza che gli uomini di tanto in tanto creavano. Apparentemente la mia vita era varia ed eccitante; ma al di là delle apparenze era limitata. Ora entravo in un nuovo mondo, e tutto l’istinto del romanziere che era in me si espanse esilarato, per assorbire la novità. Non era solo la bellezza delle isole che mi aveva conquistato, Herman Melville e Pierre Loti mi avevano preparato a tutto questo, e pur essendo una bellezza diversa, non è maggiore di quella della Grecia o dell’Italia meridionale; e non era neppure la loro vita, sconnessa, soffusa d’avventura: quel che mi eccitava era incontrare, una dopo l’altra, persone per me nuove (in The Summing up, traduzione italiana di Paola Faini, La resa dei conti, Lucarini Editore, Roma 1988, p. 137).
Il pubblico vuol conoscere in un sol giorno, in un solo minuto, ciò che l’artista ha imparato in molti anni
(Paul Gaugin, 1892)
I rari dipinti su vetro e le Eve di Gauguin
Sono poche e poco note le vetrate dipinte di porte e finestre che Gauguin aveva decorate tra il 1893 e il 1896; quella trovata da Maugham nel 1916, come da descrizione del racconto più sopra riportato, è l’ultima superstite delle tre porte dipinte quando l’artista era ospite in casa di un indigeno durante un periodo delle sue frequenti malattie (cfr. n. 372 in Gauguin, L’opera completa, Milano 1972, p. 109). La vetrata rappresenta una Eva con in mano una mela in un paesaggio, 1896, olio su vetri suddivisi in sei riquadri, cm.100 x 75, firmata nel riquadro in basso a destra: P Go, che Maugham fece montare ad una finestra del suo studio nella villaLa Mauresque a Cap Ferrat [fig. 12]. L’opera e altri dipinti della sua collezione furono messe all’asta di Sotheby a Londra, Bond Street nell’aprile del 1962, e fu aggiudicata per 13.000 sterline a J. P. Berman (in seguito a Parigi al Jeu de Paume e, probabilmente
oggi al Musée d’Orsay). Il dipinto rappresenta, come è evidente, anche in altre opere di Gauguin una Eva primordiale in versione Maori (la mitica razza presente nelle isole polinesiane). La pittura su vetro, per Gauguin, non era meno importante tra le diverse tecniche da lui utilizzate (sculture e rilievi su legno primitiveggianti, lavori su creta e ceramiche arcaicizzanti), come si legge in una lettera al suo caro amico Daniel de Monfreid (1859-1929), pittore anche lui e devoto a Gauguin e suo primo biografo (si veda il suo omaggio pittorico all’amico, fig. 13); de Monfreid era pure la persona di fiducia che si occupava degli affari di Gauguin in Europa. Ecco cosa l’artista gli scrive a proposito della pittura su vetro: “La vetrata semplice che attira lo sguardocon le sue divisioni di colori e di forme è ancora quello che c’è di meglio. È, in un certo senso, della musica […]. Sia vetrate, sia arredamento, ceramica ecc … ecco in fondo le mie vere attitudini: molto più della pittura propriamente detta” (in, Lettere di Gauguin alla moglie e agli amici, Longanesi, Milano 1948, p. 205). È l’agosto del 1892 a Tahiti, quando egli manifesta questi pensieri: in realtà egli dovrà ancora dipingere molti capolavori, prima della sua fine.
E per tornare all’iconografia dell’Eva che coglie il frutto nella vetrata del Maugham, va detto che Gauguin aveva già dipinto una Eva esotica, 1890, Parigi, coll. priv. [fig. 14],
prima dell’incontro con le giovani tahitiane: essa era stata desunta da una riproduzione fotografica di un particolare di un rilievo del tempio giavanese di Barobudur (cfr. Gauguin, op. cit. 1972, n. 226, p. 99); la medesima posa la si trova nella più nota Donna tahitiana in unpaesaggio, 1892, che al centro in basso reca la scritta Te Nave Nave Fenua (Terra deliziosa), Kurashiki, Oara Art Museum [fig. 15]. E un’altra Eva è raffigurata nella vetrata Rupe Tahiti, 1893, anche questa, come in quella di Maugham, dipinta in sei scomparti ed è siglata nel pannello in basso a destra: “P Go”, oggi nel New Orleans Museum of Art [fig.16].
Altre due note vetrate, Donna tahitiana in un paesaggio, e NaveNave, entrambe del 1893, sono esposte e conservate a Parigi, Musée d’Orsay[figg. 17-18]; esse furono dipinte da Gauguin nel suo studio, preso in affitto per tre mesi, in rue Vercingétorix, n. 6, quando tornò a Parigi da Tahiti nel settembre del 1893. La medesima iconografia compare inoltre in una delle dieci xilografie per illustrare il suo testo Noa Noa: Nave Nave Fenua, 1893-1894, N.Y. MoMA [fig. 19].
Il soggetto dell’Eva tahitiana, a Gauguin dovette apparirgli all’improvviso durante una sua escursione per raggiungere la cima dell’isola tahitiana, la montagna sacra e temuta dai nativi, detta l’Aorai; ecco come l’ha descritta nel suo Noa Noa: “D’improvviso, a una svolta, scorsi, dritta contro la parete di una roccia che carezzava più che tenere con tutte e due le mani, una ragazza nuda: beveva alla sorgente che zampillava molto in alto tra le pietre. Quando ebbe finito di bere, prese dell’acqua tra le mani e se la lasciò scorrere tra i seni”. Questa immagine edenica il pittore la trascrive nel dipinto Donna che beve a una fonte e Busto maschile (Hina Tefatou),1893, in basso a sinistra si legge: Gauguin93; a destra si legge Hina Tefatou, che vuol dire: La Luna e la Terra [fig. 20], New York, MoMA. Due anni dopo, nel febbraio del 1895, in una lettera indirizzata da Parigi al famoso drammaturgo e scrittore svedese, August Strindberg (1849-1912), che scriverà in quell’anno la presentazione di una mostra di Gauguin all’Hotel Drouot, il pittore manifesta il suo pensiero sulla donna della Genesi:
“Dinanzi all’Eva di mia scelta, che ho dipinto in forme e armoniedi un altro mondo […] hanno forse evocato un passato doloroso. L’Eva civilizzata della vostra concezione vi rende, e ci rende, quasi tuttimisogini; l’Eva antica che, nel mio studio, vi fa paura, potrebbe forse un giorno sorridervimenoamaramente […]. L’Eva che ho dipinto (lei sola), logicamente può restar nuda davanti ai nostriocchi. La vostra, in quello stato naturale, non saprebbe camminare senza impudicizia […]. Per farvicapire il mio pensiero bene, paragonerei non più quelle due donne direttamente, ma la lingua maorio turaniana che parla la mia Eva e la lingua che parla la vostra donna fra tutte, lingua a flessioni, lingua europea. Nelle lingue d’Oceania, di elementi essenziali, conservate nella loro durezza, isolate o saldate senza nessuna preoccupazione del levigato, tutto è nudo e primordiale” (in Lettere diGauguin, op. cit. pp. 233-234)
Queste parole dell’artista riflettono la felicità trovata a Tahiti nei due anni trascorsi tra il 1891 e il 1893 in compagnia di una sua Eva reale, che gli ispirò forse i suoi quadri migliori, tanto che Edgard Degas presentò ben 44 dipinti, nell’autunno del 1893 alla famosa Galleria Durand-Ruel, acquistando per sé proprio La Donna chebeve alla fonte, che rappresenta appunto questa Eva primordiale. E troviamo tra Scritti di un selvaggio, di Gauguin tra il 1896-1897, come descrive la donna polinesiana: “È astuta e saggia nella sua ingenuità l’Eva diTahiti. Rimane per me un enigma ciò che nasconde il suo occhio infantile […] è l’Eva dopo ilpeccato, che ancora può camminare nuda senza vergogna, con tutta la sua fiera bellezza come il primo giorno” (ed. italiana, a cura di Maurizio Brusa, Tea, Milano 1996, p. 79).
Gauguin, infatti, aveva trovato una giovanissima tredicenne maori, che lo incantò non solo per la sua primitiva bellezza, ma soprattutto per il racconto che ella gli fece della lunga e complicata Teogonia polinesiana, tutta intrisa di immanentismo naturalistico (cielo, acqua, sole, luna, luce, tenebre), narrata poi dal pittore con mirabile sintesi, non priva di sue interessanti notazioni antropologiche e filosofiche, nel citato libro, Noa Noa [anche sulla scorta degli studi di J.A. Moernhout (1796-1879), esploratore, etnologo e diplomatico nella Polinesia francese, autore del Voyage aux iles du Grand Océan, 1837].
La ragazza si chiamava Teura, con lei Gauguin si trasferisce da Papeete, la capitale di Tahiti, a Mataiea, a molti chilometri di distanza, per vivere pienamente nella natura, in una tipica capanna indigena [fig. 21]; così scrive della giovane compagna:
“L’oro del viso di Teura inondava di gioia e di luce la nostra casa e il paesaggio intorno. Ed eravamo tutti e due così perfettamente semplici! Come erabello la mattina andare insieme a rinfrescarci al vicino ruscello: così dovevano essere il primo uomo e la prima donna nel paradiso terrestre. Paradiso tahitiano, “nave nave fenua”… E l’Eva di questo paradiso si abbandona sempre più docile, amante”.
Dopo circa due anni ritorna in Francia, prima a Marsiglia e poi a Parigi, per esporre alla sopra citata mostra da Durand-Ruel; farà un ultima visita alla moglie a Copenaghen.
Nel luglio del 1895, Gauguin si imbarca nuovamente per i mari del Sud, e giunge a Tahiti a settembre, ma non farà mai più ritorno in Francia: le sue condizioni di salute andranno sempre peggiorando. Ciononostante egli dipingerà altri numerosi capolavori, aventi per soggetto Eve e Veneri tahitiane: ad esempio, Donna tahitiana sdraiata, detta anche La donna dei manghi, 1896, San Pietroburgo, Ermitage; sul dipinto si legge in basso a destra: “Te Arii Vahine, (Regina di bellezza), P. Gauguin1896” [fig. 22];
la ragazza raffigurata è la sua ultima compagna, una quattordicenne di nome Vaeoho (o Pahura, secondo altra fonte, dalla quale ebbe anche una figlia, sopravvissuta solo un anno); Gauguin dipinge la giovane secondo una iconografia classica, desunta dalla storia dell’arte europea: in questo caso da una Venere del 1518 di Lucas Cranach. A proposito del dipinto, Donna tahitiana sdraiata, Gauguin scrive all’amico Daniel de Monfreid nell’aprile del 1896: “Hoappena dipinto una tela di 130 per un metro, che credo migliore ancora di tutto quanto ho fatto finora: una regina nuda, sdraiata su un tappeto verde […]. Credo di non aver mai fatto con i colori una cosa di tanto grave sonorità” (in Gauguin, 1972, op.cit., n. 364, pp. 108-109); ma va detto che l’opera rammenta anche la Maya desnuda, 1800c., di Goya, Madrid, Prado, l’Olimpia, 1863 di Manet, Parigi, Musèe d’Orsay, e le Veneri di Giorgione e di Tiziano. E ancora vanno ricordati alcuni degli ultimi capolavori, raffiguranti Eve o Veneri tahitiane che sono, quali esempi tra le più note, Seni con fiori rossi, 1899, New York, Metropolitan Museum [fig. 23]
e Due donne tahitiane sedute, (… El’oro dei loro corpi), 1901, in basso a destra si legge: “ Et l’or de leur corps/ P. Gauguin 1901”, Parigi, Louvre [fig. 24].
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La fine di Strickland-Gauguin
Gli ultimi tre anni di vita di Gauguin, tra il 1901 e 1903, non furono edenici come quelli del precedente soggiorno (1891-1893) a Tahiti, e narrati in Noa Noa. L’artista era malatissimo, e con gravi problemi economici. Decide quindi di trasferirsi nel 1897 dalla tahitiana Panaauia ad Atuana, un villaggio della Dominica, Hiva Hova, nelle isole Marchesi, convinto che lì la vita costasse meno. Si costruisce una nuova
casa-capanna, con l’aiuto degli indigeni, e la intitola. “Maison du Jouir” (si veda foto di una ricostruzione fedele, fig. 25). Qui vivrà sino alla dolorosa e drammatica morte, solo, ed assistito da un affezionatissimo indigeno di nome Tioka, secondo le testimonianze biografiche, riportate nel citato testo di V. Segalen, (cfr. Omaggio a Gauguin, op. cit. pp. 29-30).
Diversa, e più romantica, è la versione che ne dà Maugham nella La luna e sei soldi. Lo scrittore ci racconta di aver visto Strickland per l’ultima volta a Parigi, prima della sua partenza per Marsiglia, e poi per la Martinica. Dopo diversi anni, quando Strickland era già morto, Maugham va a Tahiti e riesce ad incontrare alcune persone che avevano conosciuto il pittore (esemplare la narrazione del capitano Nichols che aveva condiviso col pittore inglese la vita agra trascorsa a Marsiglia; e quella di un altro Capitain au long cours, René Brunot, che gli racconta di quando era stato ospite di Stricklandnella sua ultima dimora; e infine il vecchio medico francese, il dottor Coutras, che lavorava a Papeete, la capitale di Tahiti. Fu questi l’ultimo testimone della drammatica morte del pittore per lebbra, tra la disperazione di Ata, la giovane compagna indigena che gli aveva dato due figli. Ma le sofferenze, e l’indifferenza per il male irreversibile che lo aveva colpito, non gli impedì di dipingere fino alla fine, persino le pareti della sua capanna, come racconta, nel romanzo il dottor Coutras a Maugham: “Avevaaccettato di morire, perché il suo compito era stato adempiuto. “Che soggetto era?” domandai. “Quasi non lo so. Era strano e fantastico. Una visione del principio del mondo, il giardino dell’Eden, con Adamo ed Eva [fig. 26]*… que sais-je … un inno alla bellezza delle forme umane, una lode alla natura, sublime, indifferente, bellissima e crudele […]. I colori erano i colori a me familiari, e tuttavia diversi, con un significato tutto loro. E quei nudi di uomini e donne. Erano sulla terra e tuttavia distaccati. Sembravano possedere qualcosa d’argilla, ond’erano stati creati, e insieme qualcosa di divino”. Fin qui la finzione letteraria, e la fine della storia di Strickland.
Ma la morte di Gauguin fu ben più drammatica, sìa per gravissime malattie (si è detto lebbra, elefantiasi, sifilide), ma pure per una vicenda giudiziaria che lo aveva condannato ingiustamente, per una sua denuncia di corruzione di un gendarme francese che favoriva dei contrabbandieri. L’unico testimone della sua fine, non fu un medico, come nel romanzo, ma un missionario pastore protestante, Paul Vernier che era andato a trovarlo, dopo aver ricevuto un biglietto da Gauguin: “Caro Signor Vernier, non vorrei disturbarvi ma ho bisogno di voi, la vista non mi funziona più bene. Sono molto malato e non posso più camminare”.
Il missionario ricorda: “Andaida lui. Soffriva orribilmente, le gambe erano tutte arrossate e ricoperte di eczemi. Gli chiesi se potevo medicarlo; mi ringraziò molto gentilmente dicendomi che avrebbe fatto da solo … Si mise a chiacchierare, parlando della propria arte in modo mirabile” […]. L’8 maggio, di buon ora, mifece chiamare sempre da Tioka. Lamentava dolori molto acuti per tutto il corpo. Mi chiese se era mattino o sera, giorno o notte […]. Mi parlò di Salambò [romanzo esotico di Flaubert, NdA]. Lo lasciai più calmo dopo questa conversazione. Più tardi alle undici […] Paul Gauguin era morto … Tioka se ne stava lì a gridare, e piangendo diceva: “Ero venuto a vedere come stava … Lo chiamavo da fuori: Kokè ! Kokè! Non rispondeva … Sono entrato, Kokè non si muoveva più. Mata! Mata! Mata!” E Tioka mordeva la pelle del cranio – mata – per richiamarlo in vita … Tentai la respirazione artificiale … Paul Gauguin era morto, credo, per arresto cardiaco.
Fu allora che Tioka, guardando per l’ultima volta il suo amico Kokè, disse: “Adesso non ci sono più uomini” (in V. Segalen, op. cit. pp. 29-30).
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Intervista a Paul Gauguin, di Eugène Tardieu, apparsa su L’Echo de Paris, 13 maggio 1895:
“Perché siete andato a Tahiti?”
“Ero rimasto affascinato tempo fa da questa terra vergine, dalla sua gente semplice e primitiva; ci sono andato e sto per tornarci. Bisogna cercare il nuovo risalendo alle origini, all’infanzia dell’umanità. La mia Eva è quasi un animale, per questo è pura anche se nuda. Tutte le Veneri esposte al Salon sono indecenti, odiosamente sconce …”
“Gauguin tacque di colpo, lo sguardo rivolto a una tela appesa al muro con alcune donne di Tahiti nella foresta vergine”
“Prima di partire”, rispose dopo qualche secondo, “farò pubblicare, con l’aiuto del mio amico Charles Morice, un libro dove racconto la mia vita a Tahiti e le mie opinioni artistiche. Morice commenta in versi l’opera che ho ricavato da quell’esperienza. La sua lettura vi spiegherà come e perché sono voluto partire.
“Il titolo di questo libro”?
“Noa – Noa, che significa nella lingua di Tahiti: fragrante; sarà il profumo di Tahiti”
Mario URSINO Roma 1° dicembre 2018
Nota
*Il dipinto Adamo ed Eva, 1902, olio su fustagno, cm.59×38, firmato e datato: “Paul Gauguin, 1902”, Copenaghen, Collezione Ordrupgaard, è attualmente esposto nella mostra Gauguin e gli Impressionisti a Padova, Palazzo Zabarella, 29 settembre 2018-27 gennaio 2019. Sulla interpretazione e la bibliografia dell’opera, si veda la scheda n. 57 di Anne-Birgitte Fonsmark, pp. 208 e 211.
I brani citati de La Luna e sei soldi di William Somerset Maugham, traduzione dall’inglese di Giorgio Monicelli, sono tratti dall’Edizione Mondadori, “I Libri del Pavone”, Milano 1956.
I brani citati da Noa Noa di Paul Gauguin con introduzione di Victor Segalen, tradotti dal francese da Maria Cristina Marinelli, sono tratti da Passigli Editori, Bagni di Ripoli, (Firenze) 2000.
Le foto che corredano il testo figurano tra quelle disponibili in rete.