Un ritratto di Philip Roth a New York. Lo scrittore americano è nato a Newark, nello stato del New Jersey, il 19 marzo 1933 (foto Reuters/Eric Thayer) |
Philip Roth, tutti gli esordi
Le prove giovanili e la nascita del personaggio di Nathan Zuckerman: esce
per i «Meridiani» Mondadori la raccolta dei romanzi dello scrittore dal 1959 al 1986
di EMANUELE TREVI22 ottobre 2017 (modifica il 23 ottobre 2017 | 22:12)
«Scrivila, per amor di Dio. Scrivi quella storia». Philip Roth non si è mai dimenticato queste parole di incoraggiamento, ascoltate quando era ancora giovanissimo, in una taverna della Chicago University. A pronunciarle fu Richard Stern, Dick per gli amici, critico influente, romanziere lui stesso, e grande educatore di talenti in erba.
È un episodio che Roth ha più volte rievocato, quasi trasformandolo in un piccolo «mito dell’origine», e vale la pena tornarci sopra, perché contiene un’inestimabile lezione di scrittura. Per divertire Stern, durante un pranzo Roth gli aveva raccontato una sua storia d’amore con una ragazza dei sobborghi ricchi di Newark, figlia di un industriale del vetro. Entrambi ebrei, ma divisi da un abisso sociale. Gli piaceva raccontare storie di famiglia e di quartiere. La comunità ebraica di Newark, in effetti, con i suoi tipi umani, le sue leggende, i suoi pettegolezzi, era una miniera narrativa inesauribile. Ma tutti i giovani commettono lo stesso errore iniziale, credono che una cosa sono i racconti che si fanno agli amici, un’altra ciò che si dovrebbe scrivere. È così che la letteratura diventa una falsa vocazione, una specie di sordità che impedisce di ascoltare la propria voce, di affidarsi al suo ritmo, di riprodurlo sulla pagina.
Quell’esortazione di Stern ebbe il valore di un orientamento decisivo. Ciò che cercava a tentoni, l’ambizioso apprendista che era Roth lo aveva sotto il naso, come la famosa lettera rubata. «Scrivi quella storia» non ha un significato diverso da «vivi la tua vita», così come i grandi maestri, Conrad o James o Flaubert, avevano vissuto la loro. «Scrivila, per amor di Dio». Lo ha detto benissimo Alessandro Piperno: la lettura del Lamento di Portnoy gli ha insegnato che bisogna lavorare con il «poco» che la sorte ci ha riservato. Il «tanto» degli altri non vale nulla. Ci vollero un paio d’anni, ma nella primavera del 1959 il libro d’esordio di Roth, Goodbye, Columbus, realizzò nel modo più incantevole e sorprendente che si potesse immaginare l’auspicio di Dick Stern. Iniziò così, a ventisei anni, una carriera tra le più ricche, complesse, coinvolgenti che la storia della letteratura moderna ricordi.
Di fronte a tanti capolavori, a un senso così acuto e profondo della natura umana, a un umorismo così irresistibile, si stenta davvero a credere che il «Meridiano» dei Romanzi di Philip Roth curato da Elèna Mortara sia solo il primo dei tre che verranno dedicati all’opera del gigante (come altrimenti definirlo?) di Newark. Eppure è proprio così: questo grosso volume è solo l’inizio, e arrivati alla Controvita, il libro del 1986 che chiude l’indice, non possiamo dimenticare che il meglio deve ancora venire, che la strada che porta, tanto per fare un esempio, alle ultime pagine di Pastorale americana è ancora lunga e accidentata.
L’opera di certi scrittori fa pensare a una crescita arborea, tanto è saggiamente calibrato il rapporto tra le energie e i risultati. Bernard Malamud, tanto adorato da Roth, procedeva in questo modo. Ma Roth appartiene a tutt’altra razza: non amministra saggiamente il capitale, va avanti per strappi, lacerazioni. Quanto più lo si legge e lo si ama, tanto più si è consapevoli che è capace di imboccare strade sbagliate. L’esperimento soverchia sempre l’esperienza. Se dovessi esprimere il senso profondo della sua arte in una formula sintetica, la prenderei a prestito dal più grande critico russo del Novecento, Viktor Sklovskij, che intitolò il suo ultimo libroL’energia dell’errore. La conseguenza più emozionante di questo atteggiamento è che, di fronte a una raccolta dei suoi libri, proviamo l’inebriante sensazione di leggere uno scrittore che, in virtù di un singolare sortilegio, sia riuscito a esordire molte volte: da giovane, da vecchio, durante la mezza età. A dieci anni esatti da Goodbye, Columbus, e dopo due libri scarsamente riusciti, Il lamento di Portnoy non è forse un nuovo, dirompente inizio?
In un modo o nell’altro, dai romanzi migliori di Conrad a quelli di Bernhard,passando per i monologhi di Beckett, tutti i massimi capolavori letterari del Novecento sono un omaggio alla voce umana: alla sua capacità di persuasione e mistificazione, al suo carattere demiurgico, alla sua doppia natura corporale e spirituale. La lunga confessione di Alexander Portnoy presuppone un solo interlocutore, muto fino all’ultima pagina: il dottor Spielvogel, psicoanalista di presumibile scuola freudiana. È in questa particolare situazione che il gesto narrativo rivela le sue vocazioni più nascoste e represse: la profanazione, la dissacrazione. Nel primo libro, l’evocazione della famiglia ebraica era tutta giocata sul filo di un’ironia arguta e malinconica. Nel Lamento, l’impareggiabile maestria dello stile è messa al servizio di una tonalità grottesca che non conosce più cautele o censure. Lo scandalo fu tale che addirittura Gershom Scholem, l’eminente filosofo e studioso della Cabala e del misticismo ebraico, professore all’Università di Gerusalemme, scese in campo definendo quello di Roth «il libro auspicato da tutti gli antisemiti». Ma cosa è possibile tradire, se non ciò che amiamo ? E come può un artista essere se stesso e rispettare le regole dell’appartenenza? Sembra quasi naturale che tutti i conflitti che Roth si è trovato ad affrontare abbiano preso corpo in un personaggio narrativo destinato a svolgere un ruolo decisivo nella sua opera. Sto parlando, ovviamente, di Nathan Zuckerman, l’intrepido e disgustato esploratore dell’«egosfera», scrittore ebreo di Newark, che con Roth condivide lo scandalo e il successo, oltre alla passione per le avventure erotiche.
Solo molto superficialmente si potrebbe definire Zuckerman un semplice «alter ego dello scrittore». A partire dal 1979, quando compare come protagonista del suo primo romanzo, Lo scrittore fantasma, Zuckerman, quest’«uomo diviso dagli altri», è diventato il personaggio più ricco e complesso della letteratura dei nostri tempi. Libro dopo libro, Roth lo ha sottosposto all’azione del tempo, usurandone il corpo ed esacerbandone i difetti del carattere, ma anche rendendolo capace di lucidità, compassione, senso esatto del destino umano e dei suoi innumerevoli scherzi. Sin dai primi libri che Roth gli dedica (noi italiani abbiamo la fortuna di leggerli nelle bellissime versioni di Vincenzo Mantovani), ci rendiamo conto che Zuckerman è sì uno scrittore, ma che la sua portata umana eccede di gran lunga un particolare mestiere, una particolare origine o condizione sociale. È un’immagine comica e disperata della natura umana quella che ci si rivela in libri come Zuckerman scatenato o La lezione di anatomia. È la storia di tutti nella misura in cui dobbiamo affrontare la solitudine necessaria a diventare noi stessi, e lo spavento che ne consegue. Senza che tutta questa fatica approdi necessariamente a una qualche forma di illusoria saggezza. «L’anima», osserva Zuckerman in un lampo di vertiginosa consapevolezza, «affonda nel ridicolo proprio nel momento in cui lotta per la propria salvezza».
Ci fosse stato un Dick Stern ad ascoltarlo, non avrebbe potuto che dirgli: scrivi di questo, per l’amor di Dio, scrivi questa storia, lascia perdere tutto il resto.