venerdì 31 gennaio 2025

È morta Marianne Faithfull, regina della Swinging London nei Sessanta: aveva 78 anni

 


È morta Marianne Faithfull, regina della Swinging London nei Sessanta: aveva 78 anni


Regina della Swinging London degli anni’60, compagna epica e disperata di Mick Jagger, fenice risorta dalle sue ceneri tossiche, ma anche apprezzata attrice e sempre sicura icona di stile, è morta a 78 anni Marianne Faithfull. «Marianne si è spenta serenamente oggi a Londra, in compagnia della sua amorevole famiglia. Ci mancherà moltissimo» si legge nel comunicato della sua portavoce.

Già, la serenità finalmente, dopo una vita certamente ricca ma anche tormentata: perché Marianne Faithfull ha incarnato fin troppo lo spirito dei favolosi 60, dove tutto sembrava possibile, in una spirale attorcigliata di fama e abusi, dove i secondi finirono per bruciarla, detronizzandola e buttandola letteralmente in strada.


Facendo un passo indietro, i natali erano già nobili, perché Marianne, per parte di madre, era la pronipote di Leopold Von Sacher Masoch, aristocratico d’Austria, più celebre per i suoi romanzi erotici Venere in Pelliccia su tutti, da cui si sarebbe generato appunto il termine masochismo.

Che avrebbe sicuramente connotato l’esistenza della discendente Marianna, cresciuta in realtà nei sobborghi piccolo borghesi di Reading, Inghilterra di provincia e scoperta per caso a una festa, diciottenne, dal ruvido Andrew Long Oldham, manager degli allora in rampa di lancio Rolling Stones.

Un incontro folgorante: perché dapprima le avrebbe artisticamente segnato la vita, con il suo brano più celebre As Tears Go By, firmato da Jagger & Richards (e in futuro mai troppo amato dalla stessa Marianne: «Era un ritratto commerciale di me stessa», avrebbe detto anni dopo). Ma, soprattutto,sarebbe diventata la fidanzata di Mick, dopo aver lasciato il marito John Dunbar e il figlio Nicolas, appena nato.

Di li, quattro anni di fuoco: mentre la scopre anche il cinema (recita per Godard in Una Storia Americana e interpreta Ofelia nell’Amleto di Tony Richardson), Marianne troneggia sulle copertine dei tabloid, nelle edizioni dei telegiornali della Bbc, alle feste del jetset (celebre una sua istantanea con Alain Delon), sempre protagonista, incarnando più di ogni altra la rivoluzione del costume che da Londra, la Swinging London, si diffonde nel resto del pianeta.


Segnata dalle droghe: all’inizio fonte di ispirazione per gli Stones. È lei a generare capolavori della band come «Wild Horses» o «You Can’t Always Get What You Want». Ed è lei a scrivere anche «Sister Morphine» insieme agli altri, anche se la paternità della canzone non le verrà riconosciuta se non dopo una lunga battaglia legale.

Ma, appunto, Marianne si brucia: le prime avvisaglie dopo che la polizia la scopre nuda nel 1967 in un appartamento insieme a Jagger, Richards e altri sei uomini. In un mondo apparentemente libero, ma in realtà ancora profondamente sessista, dove, dirà,  «loro figuravano come glamour e io una prostituta e una cattiva madre», la notizia fa scandalo. Nel 1970, la fine: cocaina ed eroina la disintegrano, Jagger la lascia e Marianne inizia a vagare per le strade di Soho.

Si riprenderà solo dieci anni dopo, quando il nuovo fuoco del punk la riscopre e lei regala un album che rimarrà una pietra miliare «Broken English», con la voce ora arrochita dalle sue traversie e in sottofondo i suoni elettro metallici dell’epoca.

È la rinascita per Marianne. Che riprende il volo, smette di drogarsi definitivamente e produce dischi con regolarità, venendo apprezzata da quell’altro folletto disperato di Nick Cave, Beck, Damon Albarn e perfino i Metallica. Mentre la riscopre anche il cinema, superba Maria Teresa d’Austrianella «Maria Antonietta» di Sofia Coppola.

Dovrà affrontare altri malanni: contrae l’epatite e combatte contro un cancro al seno. Ma supera anche questi scogli: negli ultimi anni vivrà a Parigi, alla quale, ferita a morte dedicherà una struggente canzone: «They Come at Night». L’ultimo ostacolo, nel 2020, il Covid: ventidue giorni di ospedale. Ma cosa volete che siano di fronte ai marosi del passato? E ora, Marianne, è finalmente serena.


CORRIERE DELLA SERA


venerdì 24 gennaio 2025

Il poeta Michael Longley racconta le amicizie e i luoghi che hanno ispirato la sua opera nel nuovo documentario

 



Il poeta Michael Longley racconta le amicizie e i luoghi che hanno ispirato la sua opera nel nuovo documentario

12 mesi fa

Il progetto, intimo e spesso toccante, vede il pluripremiato scrittore discutere del suo lavoro e di come questo abbia spesso catturato “persone, luoghi e momenti importanti della sua vita”. Fa parte di un nuovo documentario della BBC sull’Irlanda del Nord che esplora il mistero dell’origine delle poesie.

Michael Longley
Michael Longley è noto per poesie come Ceasefire e The Ice-Cream Man. Longley, nato nel 1939, ha pubblicato numerose e acclamate raccolte di poesie, tra cui The Weather in Japan e The Stairwell. “I realizzatori di questo film non avrebbero potuto essere più sensibili alle mie poesie”, ha dichiarato il poeta. “Scavano in profondità tra le righe e le illuminano”.

“Con grande sottigliezza suggeriscono il mistero da cui provengono le poesie”.

Considerato uno dei più noti poeti irlandesi, Longley descrive la sua opera come “una serie di poesie d’amore”, come si evince dal documentario. Il filmato cattura momenti cruciali della sua vita, come l’incontro con la moglie Edna, autrice e critica letteraria, mentre studiavano insieme al Trinity College di Dublino, e la sua stretta amicizia con Seamus e Marie Heaney.


Michael e Edna Longley e i loro ospiti hanno assistito alla proiezione di Michael Longley – Where Poems Comes From, organizzata da @BBCnireland. Il film, che offre una visione rivelatrice dei luoghi, delle amicizie e delle esperienze che hanno ispirato il pluripremiato poeta, arriva su @BBCiPlayer domenica 11 febbraio.
Il documentario mette in luce anche la sua esperienza di vita a Belfast al culmine dei Troubles. Sebbene fosse riluttante a scrivere sul conflitto, il documentario analizza come questo lo abbia colpito personalmente e lo abbia portato a scrivere alcune delle sue poesie più stimolanti, tra cui The Ice-Cream Man. Parla anche di come ha trovato la sua voce unica scrivendo di fiori, fauna e paesaggi, in particolare quelli della tranquilla campagna che circonda il cottage di Carrigskeewaun, nel Co Mayo, dove si reca regolarmente. Il documentario si sofferma anche su come Longley si sia ispirato al mondo classico e ai suoi testi, oltre ad essere attratto dalla poesia della Prima e della Seconda guerra mondiale. Quando suo padre fu gravemente ferito durante la Prima Guerra Mondiale, egli imparò a suonare l’armonica in trincea. Questo lo ha ispirato a scrivere Harmonica, che descrive come la sua “poesia preferita”. Adam Low, che ha diretto il documentario, ha dichiarato che è stato un privilegio parlare con il poeta. “Le sue radiose poesie sul mondo naturale sono di grande ispirazione per un regista, e la sua risposta profondamente umana alla violenza politica in Irlanda del Nord – e altrove – è estremamente commovente”, ha dichiarato. “Il suo amore di sempre per il jazz e il suo rapporto con la moglie Edna (‘Sono l’unico poeta che conosco sposato con un critico’) conferiscono al film umorismo e cuore, e la sua energia a 84 anni è semplicemente notevole”.

Il film sarà disponibile su BBC iPlayer dall’11 febbraio e sarà trasmesso su BBC One NI il 12 febbraio alle 22.40.


LESENFANTSTERRIBLES



martedì 14 gennaio 2025

Addio a Oliviero Toscani / iI grande fotografo si è spento a 82 anni


Italian Photographer Oliviero Toscani, in front of his picture "Kissing Nun" at an exhibition entitled "controversy, justice, ethics and photography" in a Vienna gallery, in 2010.

Oliviero Toscani

Addio a Oliviero Toscani: il grande fotografo si è spento a 82 anni

13 gennaio 2025 

(LaPresse) - Lutto nel mondo della cultura. Si è spento all'età di 82 anni Oliviero Toscani. Lo hanno annunciato la moglie Kirsti Toscani con i figli Rocco, Lola e Alí sul profilo Instagram del grande fotografo. "Con immenso dolore diamo la notizia che oggi, 13 gennaio 2025, il nostro amatissimo Oliviero ha intrapreso il suo prossimo viaggio. Chiediamo cortesemente riservatezza e comprensione per questo momento che vorremmo affrontare nell’intimità della famiglia", scrivono la moglie e i figli. Toscani era affetto da amiloidosi, come lui stesso aveva reso noto, ed era ricoverato in gravi condizioni da diversi giorni all'ospedale di Cecina, in provincia di Livorno.


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Oliveiro Toscani (1942 - 2025)

 


Oliviero Toscani

(1942 - 2025)





lunedì 13 gennaio 2025

Le fotografie di Oliviero Toscani, realismo e provocazione: «Voglio svegliare dall’indifferenza»


 Figlio di un reporter storico del giornale, aveva pubblicato sul «Corriere» la sua prima fotografia: il volto di Rachele Mussolini

«Oggi tutti fanno fotografie, ma nessuno è più un fotografo» aveva confessato Oliviero Toscani, morto oggi - 13 gennaio - a 82 anni, quando presentò la collana «La nuova fotografia» che aveva curato per il «Corriere». Secondo l’uomo delle campagne pubblicitarie per United Colors of Benetton e della campagna choc contro l’anoressia con la modella e attrice francese Isabelle Caro, tutto insomma «era ormai finito». Ma si capiva che non era così, che per lui la fotografia non avrebbe mai potuto dissolversi nel nulla, sarebbe magari cambiata, ma sarebbe sempre e comunque rimasta necessaria. Come avrebbe potuto pensare altrimenti? Lui, figlio di uno dei fotoreporter storici del Corriere della Sera (Fedele, 1909-1983)); lui che a sei anni aveva ricevuto in regalo la prima macchina fotografica (una «Rondine» della Ferrania); lui che a quattordici anni aveva pubblicato (ancora sul Corriere) la sua prima foto, quando, accompagnando il padre che testimoniava la tumulazione di Mussolini a Predappio, aveva «fermato» il volto dolente di Rachele Mussolini; lui che era fratello di Marirosa (1931-2023) e cognato di Aldo Ballo (1928-1994), fondatori dello studio Ballo&Ballo, uno dei più importanti studi fotografici di architettura, interni, design.


Quelli di Oliviero Toscani (nato a Milano il 28 febbraio 1942, studi prima al Liceo Vittorio Veneto di Milano e poi alla Kunstgewerbeschule di Zurigo) non sono mai stati semplici scatti (termine che disprezzava profondamente) ma racconti per immagini capaci di rompere gli schemipiù consolidati (della fotografia, della moda, dell’impegno sociale). Realismo, semplicità, provocazione, nessuna concessione al virtuosismo tecnico: questo (in sintesi) lo stile di Toscani che oltretutto avrebbe portato la fotografia di moda fuori dagli studi, nella strada, nella vita reale, avvalendosi delle star del momento (Lou Reed, Donna Jordan, Monica Bellucci, Mick Jagger, Federico Fellini, Carmelo Bene) per creare un universo di immagini belle, spontanee, ironiche, ma (soprattutto) piene di significato.


I suoi modelli? Quelli con cui aveva idealmente dialogato nelle 25 lettere ai grandi maestri raccolte in Caro Avedon (Solferino editore, 2020): Richard Avedon, appunto campione di audacia; Helmut Newton, di cui invidiava la capacità di essere all’altezza della propria cattiva reputazione; il padre Fedele, reporter, che gli aveva messo in mano la prima Leica; Diane Arbus, capace di cogliere la delicatezza delle cose brutte; Robert Capa, genio in guerra (ma la sua fotografia di don Lorenzo Milani a Barbiana, pubblicata da L’Espresso nel 1959 regge alla perfezione il confronto con questi mostri sacri).

Nelle fotografie (per Elle, Vogue, GQ, Harper’s Bazaar, Esquire, Stern, l’Uomo Vogue, Donna) e nelle campagne pubblicitarie (la prima per il Cornetto Algida, poi Benetton, Valentino, Chanel, Fiorucci, Esprit, Jesus, Robe di Kappa, Prénatal) scorrono colori, abiti, ma soprattutto volti, corpi, situazioni a volte allegre, a volte tragiche. Così Toscani è riuscito a districarsi «attraverso gli stereotipi della diversità per raccontare il mondo a forza d’immagini impattanti in grado di svegliare dall’apatia e dall’indifferenza» (come quelle per la campagna Nessuno Tocchi Caino). Su temi come l’uguaglianza razziale, la mafia, la lotta all’omofobia, il contrasto al diffondersi dell’Aids, la ricerca della pace,l’abolizione della pena di morte.


Fotografare, per Toscani, era come dipingere: «Bisogna impegnarsi a vedere la forma, gli equilibri e tutto quanto fa amplificare quello che si vuol dire» senza mai soffrire di quello che lui chiamava il complesso del pittore mancato («Perché tappezzare i muri di una galleria per raggiungere 5000 persone se possiamo raggiungerne 100000 con i giornali?»). D’altra parte, era la sua idea, la fotografia resta ancora ( e ancora resterà) un’arma formidabile: «Può far diventare bello un pezzo di m...a e far sembrare brutto un capolavoro dell’arte. L’estetica non conta, quello che conta è che riesca a cogliere l’anima della realtà, sia fatta di cose o di persone».

CORRIERE DELLA SERA




venerdì 10 gennaio 2025

Alice Munro, il marito maniaco e i danni della semicultura sulle menti deboli






Uscirne vivi

Alice Munro, il marito maniaco e i danni della semicultura sulle menti deboli


Scopriamo adesso che nel 1976 la terzogenita della scrittrice canadese subì abusi sessuali dal patrigno, ma la madre decise di non lasciare il compagno. Ora naturalmente è partita l’indignazione social contro la Nobel 2013, ma invece andrebbe letta con attenzione per cogliere la disperazione letteraria di chi pur di non restare sola ha accettato di 

Hummingbird

Il 2013 è l’anno in cui ad Alice Munro viene assegnato il Nobel per la letteratura. È anche l’anno in cui muore Gerald Fremlin, il suo secondo marito. Che otto anni prima è stato condannato da un tribunale perché, quando Andrea Munro aveva nove anni ed era andata a trovarli d’estate, si era fatto una sega addosso a lei – che saggiamente aveva finto di dormire – e simili amenità.


Era successo nel 1976, e Andrea, terzogenita di Alice, tornata a casa l’aveva detto subito alla moglie del padre. Che l’aveva detto al padre, il quale non ne aveva poi mai parlato con Andrea né con Alice ma, dall’estate successiva, aveva mandato Jenny, la sorella di Andrea, ad accompagnarla nelle vacanze a casa della madre e del maniaco.

Nel 1992, Alice Munro dice alla figlia che ha letto un racconto in cui una ragazzina si suicida per essere stata vittima d’incesto, e le chiede: perché non l’ha detto alla madre? A quel punto Andrea pensa di poterle raccontare che gran porco sia il suo secondo marito, fino ad allora si era sentita in colpa, o aveva avuto paura che fosse la madre a colpevolizzarla. Le scrive una lettera.

Ne derivano le dinamiche melodrammatiche proprie di tutte le famiglie: Alice Munro si sente tradita da Gerald, delusa da Andrea, in generale è preoccupata di sé ben prima che della figlia. È una curva comportamentale assai realistica ma trascuratissima dalla drammaturgia: chissà perché rappresentiamo quasi solo madri pronte a tutto per difendere i figli, mai pronte anche a calpestare i figli pur di tenersi un marito.


Alice se ne va brevemente di casa. Ed è a questo punto che la storia diventa la storia di tutti noi ogni giorno: sì, magari una storia di violenza e reati, ma soprattutto una storia di stupidità. Gerald scrive delle lettere. Delle lettere in cui dice che sì, vabbè, ha tentato di farsi fare una sega da una bambina di nove anni, e visto che lei si ostinava a dormire alla fine s’è limitato a strusciarsi su di lei, a metterle le mani nelle mutande, a menarselo: ma è perché lei è Lolita.

E, se una Lolita mi seduce, io posso diventare Humbert, se mostra un’attrazione sessuale per me io reagisco, scrive l’imbecille parlando d’una bambina di nove anni. Gerald è sposato con una scrittrice, e il fatto che pensi di poter usare “Lolita” in propria difesa è l’arringa definitiva sui danni che la semicultura può fare sulle menti deboli. Può uno essere così imbecille da mettere per iscritto roba del genere, da minacciare di rovinare la reputazione alla fu puttanella novenne se qualcuno osa denunciarlo? Certo che può, ed è solo grazie a quelle lettere e alle ammissioni di colpa che contengono che molti anni dopo Andrea riuscirà a farlo condannare da un tribunale.


Perché, dice nel racconto della vicenda uscito sul Toronto Star, voleva che questa storia non restasse segreta. Che fosse parte della biografia della madre. Di quella madre che, nonostante le lettere, tornò dal marito. «Mi disse che senza di lui non poteva vivere», racconta la primogenita Sheila: gratta una scrittrice premio Nobel, e troverai una servetta romantica.

Andrea voleva che tutti sapessero, e invece Alice Munro è morta due mesi fa con la reputazione intonsa. Eravamo tutti distratti da Roman Polanski e Woody Allen, e nessuno – neanche Claire Dederer, che sul tema ha scritto un libro, “Mostri” – ha ritenuto che il dibattito sul separare l’opera dall’autore dovesse coinvolgere una donna, una madre che si riprende il marito che ha esercitato violenza su sua figlia perché, racconta Andrea che le rispose Alice, è una cultura misogina quella che vuole ch’io rinunci a mio marito. Ma certo, Alice. Una cultura misogina quella che ti dice che non è che devi proprio tenerti il marito a tutti i costi.


La settimana scorsa, una donna che a tredici anni è stata violentata dal prozio dal quale era stata mandata a lavorare d’estate ha scritto a Kwame Anthony Appiah, che sul New York Times tiene la rubrica “The ethicist”. Anche lei ci ha messo una quindicina d’anni a dirlo alla madre, la quale le ha risposto che le era successa la stessa cosa da ragazzina, con lo stesso parente, ma gli aveva mandato la figlia comunque perché ormai era vecchio.

Su richiesta della madre, la donna non aveva detto niente al padre, il quale però continuava a chiedersi perché lei fosse fredda con la madre (sono nel frattempo passati altri vent’anni, perché le tragedie familiari restano immobili e ignorate nel tempo come certi surgelati dimenticati in fondo al freezer – scusate la similitudine sciatta).

Quindi la tizia scrive al filosofo per sapere se dirlo adesso sia egoismo, forse rischia solo di guastare il matrimonio tra due ottantenni, e altri scrupoli del genere. Né lei che si pone questi dubbi, né lui che a questi dubbi risponde, considerano una cosa che pure a me sembrava ovvia anche prima che il Toronto Star pubblicasse la vicenda Munro: hai messo in conto che tuo padre prenda le difese di tua madre e non le tue, e tu possa restarci male il doppio?

Perché, da un punto di vista di mera drammaturgia, a me pare plausibile che finisca così. Un matrimonio cinquantennale è un meccanismo sclerotizzato, in cui prima di rinnegare la posizione storta in cui ti sei accomodato per non accorgerti di quel doloretto sei disposto a raccontarti proprio tutto, anche che tua moglie fosse in buona fede quando ha mandato la figlia da un pervertito. Lo dice proprio Andrea Robin Skinner, nata Munro, in un altro articolo pubblicato sempre dal Toronto Star: «Mio padre non voleva dire a mia madre cos’era successo perché sentiva che i bisogni di lei erano più grandi di quelli delle sue figlie». E papà Munro non era neppure più sposato con la madre: figuriamoci quando ci sono legami in corso.

Jenny, una delle sorelle di Andrea, dice che, tra le ragioni per cui in famiglia sono stati tutti zitti per anni, c’è anche la fama letteraria della madre: non volevano sembrare quelli che demolivano una donna che ormai era un simbolo. Intervistatori e biografi non so che scusa abbiano, forse la stessa: Carole, la matrigna, racconta che lo sapevano tutti, che a una cena un giornalista le chiese «ma è vera questa storia?», eppure mai una riga è uscita.

Possiamo nasconderci dietro al frasifattismo e dire che una vittima racconta quando è pronta e i tempi che sceglie sono sempre quelli giusti, o chiederci cosa ci dica la tempistica di questa confessione (Alice Munro è morta il 13 maggio): che Andrea ha voluto lasciare che la madre morisse con la reputazione intatta e il Nobel non revocato per indegnità (se hanno revocato l’Oscar a Polanski, perché non revocare ora il Nobel a Munro), o che non ha voluto darle modo di difendersi da viva (ma non l’avrebbe comunque potuto fare, in anni recenti: aveva l’Alzheimer).

La ragione per cui Andrea si decide infine a denunciare Gerald è che nel 2002 diventa madre, dice ad Alice che può vedere i nipoti ma suo marito non si deve avvicinare, e quella le risponde che per lei è molto scomodo andare a trovarla se non la accompagna lui. Lei a quel punto conclude urlando la telefonata e la frequentazione (meglio tardi che mai). Due anni dopo, a ottobre 2004, Daphne Merkin intervista Alice Munro per le pagine dei libri del New York Times.

Non solo è un’intervista in cui Alice parla di Gerald come fosse l’uomo dei sogni, ma anche in cui si dice in ottimi rapporti con tutt’e tre le figlie, «che s’incontrano per parlare di me», e pazza dei nipoti. Ogni vaso ha la sua goccia, e quella che fa traboccare Andrea è quell’intervista. Sai, Gerald: se la mamma non avesse detto al New York Times che uomo favoloso eri, magari non sarebbe finita col tuo nome nel registro dei pedofili.

Quanto alla separazione tra opera e autrice, ieri i social erano pieni di «che schifo, non la leggerò mai più», giacché ormai non esistono lettori ma consumatori, e il consumatore boicotta il prodotto se il produttore dà mostra d’immoralità. Come ci si possa non incuriosire, considerato quante madri e quante figlie ci sono nei racconti di Munro, come si possa non aver voglia di andare invece a rileggere tutto e scoprire in quanti sottotesti ci siano Gerald e Andrea, Gerald e Alice, la disperazione di chi pur di non restare sola accetterebbe proprio di tutto, l’inferno che sono le famiglie, come si possa non aver voglia d’indagare la scrittura di una che è stata umanamente così bieca io non me lo so spiegare. È pure morta: i diritti d’autore mica vanno a lei.



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martedì 7 gennaio 2025

Il senso di colpa di chi apprezza il genio artistico di quelli con la fedina sporca

 



Cattivi di talento 

Il senso di colpa di chi apprezza il genio artistico di quelli con la fedina sporca

Claire Dederer
11 Aprile 2024

Per un fan, la possibilità di distinguere l’autore dalla sua arte è la via più facile per continuare a godersi prodotti culturali mantenendo la coscienza pulita. Per alcuni, però, questo non basta: tra questi figura Claire Dederer che racconta il suo percorso di (non) perdono in “Mostri” del nuovo marchio Altrecose del Post




Se amo ancora i suoi film non è perché l’ho perdonato. Il perdono non c’è mai stato, anche se mi sono chiari le circostanze e il contesto: all’epoca il sesso tra un uomo adulto e un’adolescente non era così fuori dall’ordinario, ne parlavano anche le canzoni e i film; Samantha Gailey ha detto di averlo perdonato; Polanski stesso è una vittima: sua madre morì ad Auschwitz, suo padre fu detenuto a Mauthausen e sua moglie, incinta, fu trucidata dalla Manson Family. Che la storia personale di Polanski sia piena di orrore non è in dubbio: ha vissuto in prima persona due orrori del XX secolo.

Ma questo non mi ha spinto al perdono; non ho soppesato la questione per poi stabilire che, considerate le attenuanti, il crimine non era poi così grave. Il punto, semplicemente, è che volevo vedere i suoi film perché erano dei grandi film.

Continuavo a ripetermi che Polanski era un genio, fine della storia, problema risolto. E tuttavia, mentre scorrevano i fotogrammi, non potevo ignorare qualcosa di fastidiosamente simile a una fitta. Peggio di una fitta, a dir la verità. La voce della coscienza non mi dava pace. Lo spettro del crimine di Polanski non se ne voleva andare.

Scoprii che non bastava pensare per risolvere il problema Roman Polanski. Il poeta William Empson scrive che la vita ci costringe a mantenerci in equilibrio tra contraddizioni che non possono essere risolte grazie a una semplice analisi. E io mi trovavo al centro di una di quelle contraddizioni.

Polanski non sarebbe affatto un problema per lo spettatore – ma soltanto l’ennesimo esempio di come certi uomini siano dei buchi neri – se i suoi film fossero brutti. Ma non lo sono. Non c’è altra figura contemporanea che sappia mantenere in perfetto equilibrio due forze così contrastanti: una mostruosità assoluta e un genio assoluto.

Polanski ha diretto Chinatown, uno dei più grandi film della storia del cinema. Polanski ha drogato e sodomizzato la tredicenne Samantha Gailey. I fatti sono questi, inconciliabili. Come potevo sanare dentro di me la contraddizione?

Il comodo divano del mio soggiorno era diventato un letto di chiodi. Non sapevo cosa fare riguardo a Polanski; e però sentivo, seppure in modo vago, che qualcosa andava fatto. Che bisognava prendere una decisione.

Speravo che un pensatore, un filosofo o qualcuno del genere, si fosse già occupato del problema e l’avesse risolto al posto mio. Al college avevo studiato storia delle idee, ma non mi veniva in mente nessuno che avesse affrontato apertamente la questione. Così un pomeriggio inviai un’email al responsabile didattico del mio corso di laurea, uno storico, un intellettuale, un uomo con i baffi allegro e brillante come il personaggio di un romanzo di David Lodge. Dopo avere premuto Invia sentii di avere la coscienza a posto; di certo il mio amato professore avrebbe risolto quella spinosa questione una volta per tutte.

Ripensandoci, trovo affascinante il mio istinto di rivolgermi subito a un esperto, che per giunta era maschio e bianco. Avevo l’urgenza di delegare il problema a qualcun altro, di trovare un’autorità. L’idea che quell’autorità non esistesse non mi aveva nemmeno sfiorata.

Caro John [scrissi], spero che tu stia bene. Mi rivolgo a te come mio mentore, nella speranza che tu possa aiutarmi a risolvere una questione. […]
Sto scrivendo un lungo testo (esito a chiamarlo libro) su Roman Polanski. […]>
Uno dei punti cruciali emersi: il problema dell’artista di cui ammiriamo l’opera pur disprezzandone la condotta morale. Sono sicura che su questo argomento sono state scritte molte cose, ma non saprei da dove cominciare, a parte il libro di Arianna Huffington su Picasso. Hai qualche consiglio? Spero non ti dispiaccia se approfitto della tua competenza senza farmi troppi scrupoli. […]
Con affetto, C.


Be’, John non mi fu di grande aiuto. Mi rispose consigliandomi di informarmi su V.S. Naipaul, che era un individuo orribile, o di pensare a grandi artisti simpatizzanti del fascismo, come Ezra Pound. No, non era esattamente quello che volevo. Avevo passato la vita a sentirmi delusa da artisti maschi che adoravo: John Lennon picchiava la moglie; T.S. Eliot era un antisemita; Lou Reed è stato accusato di maltrattamenti, razzismo e antisemitismo (accuse così poco originali, a parte tutto). Non volevo compilare un catalogo di mostri: esisteva già e si chiamava storia dell’arte. Ebbi un’epifania: quello che mi interessava capire non riguardava gli artisti, ma il pubblico. Polanski non era un problema per sé, ma per me. E se avessi scritto un’autobiografia del pubblico?

Un libro del genere mi sembrava alquanto nebuloso. Dove ambientarlo, esattamente? Nella mia testa? Nel mio soggiorno, mentre leggevo o guardavo la tv? Nella mia auto, mentre ascoltavo musica? A teatro, al museo, in un locale per concerti? A un tratto tutti quei posti banali mi apparvero come il palcoscenico di un dramma.

Se volevo scrivere un’onesta autobiografia del pubblico – e intendo il pubblico delle opere di uomini mostruosi – il libro si sarebbe dovuto mantenere in equilibrio tra due elementi: la grandezza dell’opera e l’atrocità del crimine commesso. Avrei tanto desiderato trovare in rete una calcolatrice inventata per l’occasione: inserisci il nome di un artista e, dopo aver valutato la nefandezza del suo crimine e la grandezza del suo lavoro, la calcolatrice emette un verdetto: puoi/non puoi fruire del suo lavoro.

L’idea della calcolatrice è ridicola, non sta in piedi. Eppure doveva esserci un modo per raggiungere un equilibrio tra senso morale e amore per l’arte (la Liebe zur Kunst tedesca). Volevo che fosse un equilibrio universale, basato su un verdetto univoco, anche se sospettavo che chiunque, in fondo, avesse il proprio. Una mia amica, che alle superiori ha subito uno stupro di gruppo, sostiene che tutte le opere di qualsiasi artista che abbia sfruttato o maltrattato le donne dovrebbero essere distrutte. Un mio amico gay, la cui adolescenza è stata salvata dall’amore per l’arte, sostiene che l’opera e la biografia dell’artista vadano sempre tenute separate. È possibile che entrambe queste persone abbiano ragione. Non sempre amiamo chi o cosa dovremmo amare. Woody Allen stesso ha citato la celebre frase di Emily Dickinson: «Il cuore vuole ciò che vuole». Auden lo ha detto meglio, ma ha detto meglio quasi tutto: I desideri del cuore sono contorti come cavatappi. I desideri del cuore del pubblico sono contorti come cavatappi. Continuiamo ad amare ciò che dovremmo odiare. A quanto pare non possiamo spegnere l’amore.

Cominciai ad accorgermi che quelle domande mi perseguitavano da anni – come critica cinematografica e letteraria, o anche solo come spettatrice e appassionata d’arte. Per molto tempo mi era sembrata una questione privata: un enigma solitario tra piacere e responsabilità, quasi una specie di hobby, come lavorare a maglia o giocare a calcetto. L’avevo sempre considerato un interrogativo personale dalle risposte contingenti: potevano variare a seconda del mio umore, dell’artista e dell’opera specifica.

In quegli anni, prima del 2016, non sapevo che stavamo entrando in un territorio inesplorato, dove gli eroi sarebbero caduti l’uno dopo l’altro e la reazione alla loro caduta non sarebbe più stata la tristezza privata, ma l’indignazione collettiva. Non sapevo che il nostro dolore personale stava per diventare politico, né che il mondo ci sarebbe apparso molto più fragile. Negli anni seguenti la sua crudeltà sarebbe diventata molto più visibile. Sembrò quasi apparire all’improvviso, come il cattivo che sbuca dal lato sinistro del palco. Ma ovviamente quella crudeltà non era nuova: era sempre stata lì. Semplicemente, alcuni di noi l’avevano sempre ignorata.

Tratto da “Mostri. Distinguere o non distinguere le vite dalle opere: il tormento dei fan” (Iperborea), di Claire Dederer, pp. 320, 20 €

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